L’anarca nel deserto dei Tartari

Riccardo Paradisi
Dino Buzzati – Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018
L’anarca nel deserto dei Tartari

«Ma ad ogni modo questo concetto di uno che tiene duro anche se tutti gli vengono addosso, è un’idea a cui io sono molto affezionato… Uno che tiene duro e rimane collet monté anche quando viene la tragedia a me piace moltissimo. In questo sono molto conservatore. In questo sono militarista.» (Dino Buzzati) Agli occhi della critica che, a detta di Sergio Solmi, esercitò in Italia più che un’egemonia una vera e propria dittatura in campo culturale (in grado di imporre un pesante condizionamento sui gusti e sulla mentalità collettivi) Dino Buzzati ha avuto un grande, imperdonabile torto: è stato un autore indifferente all’ideologia, al realismo, ai miti progressivi della modernità, all’influenza di gruppi e correnti letterarie, è stato uno scrittore che non ha mai firmato un manifesto, non ha mai creduto nell’impegno intellettuale per la rivoluzione, non ha mai avuto il senso del collettivo né ha salutato la contestazione e l’annessa rivoluzione dei costumi come occasione definitiva di liberazione per l’uomo dalla repressione e dai tabù. Buzzati è stato un intellettuale che di “istanze” e “problematiche”, di marxismo e strutturalismo se n’è sempre cordialmente fregato, che amava la montagna piuttosto che i ragazzi di vita o i circoli esistenzialisti, credeva nella coscienza individuale piuttosto che in quella di classe, era attratto dal mistero piuttosto che dalla militanza. E che mai avrebbe ripetuto, col vecchio e mondano Sartre, «il nostro inferno sono gli altri».

L’inferno dei suoi personaggi, del colonnello Procolo (Il segreto del Bosco Vecchio) e di Giovanni Drogo (Il deserto dei Tartari), di Antonio Dorigo (Un amore) e del brigante Gaspare Planetta (L’assalto al grande convoglio), di Cristoforo Schroder (Una cosa che comincia per elle) e dei borghesi di Paura alla Scala, non sono gli altri, o il fascismo, il capitalismo, il comunismo… L’inferno è la perdita della semplicità e della visione, la disperazione che nasce quando muore il pensiero del cuore, l’onore è tradito, la pietà dimenticata, il rispetto per il mistero perduto e regnano le leggi meccaniche e subumane dell’egoismo e del cinismo, la cui sintesi organizzata è quel potere burocratico che Buzzati, da individualista, irregolare e anarchico, ha sempre avversato e ironicamente contestato, ponendo al centro della sua vasta produzione tematiche universali e cogenti per ogni esistenza umana – a qualsiasi classe sociale, generazione, sesso, famiglia di pensiero essa appartenga. Nei romanzi, nei racconti, nei “pezzi” di cronaca e negli elzeviri di Buzzati c’è sempre al centro qualcosa che parla a tutti, a cui nessuno può dirsi indifferente. Il pubblico dei lettori lo ha capito molto prima della critica, trovando in lui chi dava parole e immagini all’inquietudine di fondo e di massa d’un secolo senza miti né dèi, un secolo che aveva espulso il mistero per realizzare l’inferno dei paradisi in terra.

Buzzati era uno che parlava di cose serie e che in Italia – nell’Italia dei nipotini di Zdanov e di Lukács – pochi presero sul serio; sicché mentre la critica francese, non meno ideologica ma più acuta, lo sceglie come primo autore cui dedicare dei cahiers, mentre quella tedesca gli dedica saggi e monografie, Marcello Carlino, ancora nel 1976, accusa Il deserto dei Tartari di essere un’opera qualunquista e reazionaria perché «non ospita devianze» e «riproduce l’universo linguistico borghese… di una classe resistente alla penetrazione tensiva del divenire». Buzzati sarebbe dunque colpevole di rappresentare e custodire un ordine non solo letterario, ma anche psicologico e sociale. Una critica ridicola che nulla fa comprendere di Buzzati anche se molto dice su chi la formulò, sugli anni in cui fu espressa e sul clima culturale che li caratterizzava. Critiche che Buzzati liquidava senza troppi giri di parole: «Ritenere che oggi un artista debba necessariamente essere impegnato politicamente, per me, è un’idiozia. Lo scopo di un artista è per prima cosa la poesia, e la si può raggiungere tanto con libri come Il primo cerchio o Buio a mezzogiorno, quanto con opere in cui la politica, i contrasti ideologici o cose del genere non sono neppure sfiorate».

Ma, d’altra parte, che quella marxista sia stata spesso una critica cieca e persino sprovveduta lo dimostra la qualità stessa dell’accusa che veniva rivolta a Buzzati, di essere cioè uno scrittore impegnato a difendere un imprecisato ordine sociale borghese: perché, a parte Pirandello, non c’è forse scrittore italiano che più di Buzzati sia riuscito, con tanta efficacia, a minare dalle fondamenta la razionalità di ogni meccanismo sociale atto a regolare le esistenze individuali, che induca a dubitare della realtà per come essa si mostra, che dietro l’ordine apparente, i conformismi e i luoghi comuni sveli il continuo lavorìo di un divenire caotico che rende ogni forma precaria, ogni certezza illusoria, ogni ordine umano destinato ad essere trasformato, sconvolto o privato di senso. Lo stesso fantastico, registro privilegiato di certi racconti ma presente come atmosfera in ogni suo scritto (perfino negli articoli o negli elzeviri), non è evasione dalla realtà: non costruisce mondi paralleli e alternativi a quello quotidiano, piuttosto introduce tra i fenomeni ordinari l’immanenza di concetti astratti come il male e il bene, l’amore e la morte, il demonico e l’angelico. Concetti che diventano forze vive, percepite, operanti, tese a scardinare certezze, convinzioni, situazioni. Nell’introduzione all’opera completa di Bosch, Buzzati immagina di vedere con gli occhi del pittore il male che, attraverso la mostruosità delle deformazioni fisiche e le metamorfosi del mondo vegetale, deturpa le fisionomie delle creature umane: è un manifesto molto chiaro della sua più intima professione di fede circa la pretesa di qualsiasi ordine stabile e l’idea di poter restringere la vicenda umana sul piano della storia.

Certo, a chi valutava la pregnanza e la validità di un autore col metro del rispecchiamento e dell’impegno politico certi temi dicevano molto poco, e suscitava fastidio la stessa cifra di Buzzati così connessa al non razionale, così aspra e severa nei confronti di un’intelligenza che si illudeva, coi suoi travestimenti, di dimenticare e sconfiggere il mistero. Eppure, se critiche così rozze a Buzzati quasi nessuno osa più farne, resiste un’altra vulgata, più sofisticata ma non meno fuorviante, che continua a collocare lo scrittore bellunese tra gli epigoni italiani di Kafka. Giulio Ferroni, in uno dei manuali più diffusi (e meglio concepiti) di storia della letteratura italiana, scrive che «Buzzati compie un’opera di riduzione a misura di più normale realismo dei temi dell’assurdo, dell’alienazione e dell’angoscia… che trovano una delle espressioni più radicali nell’opera di Kafka». Analisi superficiale, che però ripropone una formula tutt’altro che innocente, o semplicemente dovuta «alla confusione in termini tra magia e surrealismo, tra favola e allegoria». È piuttosto una formula tesa a trovargli una collocazione tutto sommato innocua, al limite inscrivibile tra le ascisse e le ordinate della psicologia freudiana, dunque di nuovo riconducibile e perimetrabile entro una dimensione puramente orizzontale, dove il tempo diventa «perno conduttore di un’esistenza che non può mai tornare indietro» e che dunque prosegue ineluttabilmente verso la morte. Ecco così che Buzzati trova collocazione nella casella che gli è stata assegnata e diventa l’epigono di Kafka su cui non val la pena interrogarsi oltre misura, tanto più che esiste l’originale cui rifarsi.

Quasi nessuno dei critici ha tenuto conto di cosa Buzzati pensasse riguardo questo continuo, improprio e fastidioso accostamento a Kafka: «Kafka è stato la mia croce. Non c’è stato mio racconto, romanzo, commedia, dove qualcuno non ravvisasse somiglianze, derivazioni, imitazioni o addirittura sfrontati plagi a spese dello scrittore boemo». Certo, come si evince dalle lettere scritte all’amico Arturo Brambilla, Buzzati leggeva e apprezzava Kafka e il chiuso universo, ossessivamente regolamentato, alienante e assurdo di alcuni racconti: è soprattutto La fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari a rimandare alle atmosfere dei romanzi kafkiani. Le analogie però finiscono qui, al limite estendendosi all’impianto strutturale di alcuni racconti; oltre a profonde differenze stilistiche, infatti, ciò che distingue Buzzati da Kafka è un dato contenutistico di fondo: a differenza dello scrittore boemo, per Buzzati la condizione umana non si chiude nel cerchio di una condanna, non si risolve in uno scacco metafisico, in un disperato non-sense; è aperta alla speranza, disponibile alla possibilità della grazia, attraversata da un soffio interiore che dice della nostalgia e della possibilità di qualcos’altro. Di qualcosa di totalmente altro. Non si tratta di una formulazione consolatoria, di un atto di fede, ma di un’apertura al mistero, che a poco a poco, con naturale gradualità, diventa percezione di una realtà più vera, di un universo più completo in cui non esiste frontiera tra naturale e soprannaturale. Anche stilisticamente, Buzzati non ricorre mai all’espediente del capovolgimento per introdurre il tema del mistero, affidandosi piuttosto al mezzo espressivo della progressione, per cui l’insolito non fa irruzione nella realtà ordinaria, non la scardina, ma vi affiora, acclimatàndovisi, mescolandosi al quotidiano, riformandolo, arricchendolo di colore e significato. Chi legge Buzzati non avverte lo spaesamento del repentino slittamento dal registro cronachistico a quello fantastico, non è stordito dall’amplificazione degli effetti, ma si trova avvolto, quasi naturalmente, da un’atmosfera positivamente straniante presagita sin dall’incipit, in cui si sa che qualcosa sta per accadere.

La grandezza di Buzzati sta proprio in questa capacità evocativa, nel fatto che il suo stile piano, il suo linguaggio esatto, apparentemente sommesso, parco di aggettivi, spoglio di citazioni, fatto di frasi tenute sulla linea di una medietas discorsiva, addirittura mutuate dal registro giornalistico e tratte dal parlato, risulta appunto evocativo, capace cioè di ricavare dalla realtà una risonanza recondita. E questa capacità proviene da una facoltà del cuore, non del cervello, una facoltà certamente innata, ma anche coltivata dall’esclusiva frequentazione con l’essenzialità delle cose, con la tragicità dell’esistenza umana, col suo avere a che fare con la morte. La vita e l’opera di Buzzati sono una lunga, ininterrotta meditatio mortis, un continuo esercizio di severa vigilanza, un’insistita ed eroica affermazione di stile. La serietà di Buzzati, del resto, traspare dal suo stesso volto: scavato, asciutto, segnato da un’espressione austera, uno sguardo gentile ma fermo, un volto da alpinista più che da intellettuale, la faccia di una persona seria, in grado di venire ai ferri corti con se stessa. Non a caso si è sempre tenuto alla larga dalle occasioni mondane, dai ritrovi civettuoli di salotti e damazze, dai cenacoli di intellettuali deraciné: non per snobismo, ma per serietà. Una serietà che la vita gli impose abbastanza presto: a soli quattordici anni, perde il padre per un tumore al pancreas, male che ucciderà anche lui. Ma non è un individuo triste: Dino ama la montagna, le corse in bicicletta (restano magistrali e insuperate le sue cronache del giro d’Italia), lo sport (immortale il ricordo del Grande Torino inghiottito dalla tragedia di Superga), coltiva le gioie dell’immaginazione, ammira le belle donne, apprezza i piaceri profondi del sesso.

Dopo il servizio militare prestato come ufficiale, prima ancora di conseguire la laurea in giurisprudenza, Dino entra come praticante al «Corriere della Sera». È il 1928: malgrado nel suo diario scriva di temere di venirvi «cacciato come un cane», resterà al giornale di via Solferino fino al 1972, anno della sua morte. Non si comprende fino in fondo Buzzati senza pensarlo assieme all’esperienza giornalistica di redazione e a quella di ufficiale di leva, senza contestualizzarlo in quelle due plastiche e concluse metafore della vita che sono gli ambienti semplificati di una redazione giornalistica e di una caserma, universi ritmati da regole ferree, automatismi ottusi, routine, turni, gerarchie, rapporti di comando e obbedienza. Non lo si capisce se non si comprende il suo esser parte integrante di questo mondo e contemporaneamente il suo esserne estraneo, la sua adesione alla forma, alla regola, alla gerarchia e la sua parallela pulsione vitalista, il suo essere un uomo d’ordine e, come tutti gli uomini d’ordine, un anarca portato alla rivolta interiore, silenziosa, terribilmente radicale.

Pulsioni contraddittorie che trovano espressione compiuta ne Il deserto dei Tartari (1940), capolavoro che ha assunto col tempo le connotazioni d’uno dei più efficaci miti della modernità occidentale. Un’opera cui avevano aperto la strada i suoi primi due romanzi: Bàrnabo delle montagne (1933) e Il segreto del Bosco Vecchio (1935); racconti fantastici ambientati in paesaggi che assomigliano molto alle amate montagne bellunesi, storie che contengono in nuce tutti i paradigmi della narrativa buzzatiana, dove il soprannaturale, la tentazione, il demoniaco, il rimorso della coscienza, il riscatto morale attraverso la morte o il gesto eroico (silenziosamente eroico) diventano i topoi di una narrazione a sfondo morale. Il deserto dei Tartari è il risultato creativo di un’intuizione che immette gli spunti realistici in un’allegoria che sembra assumere i tratti della parabola e, si diceva, del mito.

È stato giustamente detto che non è un romanzo realista, né fantastico: lo spazio e il tempo in cui ci introduce Buzzati non sono quelli della storia, ma nemmeno appartengono all’immaginifico. Quella tratteggiata con pennellate essenziali e sfumate, riecheggianti i motivi dell’espressionismo mitteleuropeo, è piuttosto una dimensione indeterminata, un tempo crepuscolare durante il quale nulla avviene realmente se non il naufragio della stessa temporalità storica e dei suoi possibili universi. Il tenente Giovanni Drogo lascia dietro di sé tutto ciò su cui l’individuo costruisce la propria personalità – famiglia, amici, gratificazioni professionali – tanto che il carattere spoglio dell’universo narrativo nel quale si penetra sembra alludere proprio alla solitudine del protagonista, attratto da un destino che lo isola, sorretto solo dall’attesa di quei Tartari che non arrivano mai. L’attesa di Drogo è la stessa che Buzzati respirava, assieme ai colleghi del «Corriere», durante la routine del lavoro in redazione, dove «le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco… e dove intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni… colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire».

In questo amaro ma realistico ritratto, e più ancora nella sua trasposizione letteraria nel Deserto, è raffigurata la condizione umana che l’incalzare degli anni, lo svanire delle illusioni, la calcinazione delle velleità, sempre riconducono alla sua essenzialità, cioè al confronto con l’unico principio di realtà che la vita possiede: la morte. Morte che per il protagonista non arriverà in battaglia, circonfuso di gloria, in compagnia dei suoi giovani camerati, ma nella stanza di una locanda della «vile pianura» dove Drogo, ormai vecchio e allo stremo delle forze, umiliato nel corpo e prostrato nell’anima, è stato condotto da un giovane attendente dopo l’allontanamento in barella dalla Fortezza Bastiani. Ma in questo ambiente squallido, banale e antiretorico Drogo riscatta tutta la sua vita di inutile attesa con un atto di coraggio senza testimoni, disponendosi ad accogliere con dignità, a piè fermo e collet monté la morte: «È entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra per l’ultima sua porzione di stelle. Poi, nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».

Un gesto fine a se stesso, consumato senza attesa di riconoscimenti né testimoni, e per questo esemplare, autenticamente eroico: come quello del soldato di Pompei descritto da Spengler, che per non essere stato sciolto dalla consegna resta al proprio posto ad attendere la fine. Una fine che non è vana né assurda e che anzi, come le stelle a cui guarda Drogo, illumina di senso un’esistenza vissuta nell’attesa e nel progressivo spegnersi di ogni umana vanità. Una fine che allude a qualcos’altro, ma che può essere da sola premio a se stessa, secondo i dettami di un’antica etica stoica. Da questo punto di vista, Buzzati è un autore tutt’altro che astratto, rivelandosi in grado di fornire, senza orpelli retorici, un orientamento spirituale e un’etica dell’azione assieme a un messaggio preciso, che chiaramente afferma come non nella storia ma in se stesso l’uomo, creatura a configurazione spirituale, debba attendersi la dannazione o la salvezza, perché egli, per dirla con Chateaubriand, «racchiude in sé un mondo a parte, estraneo alle leggi e al destino dei secoli». Ci si sbaglierebbe, però, nel pensarlo quale irreprensibile moralista, tagliato fuori dalla vita e dai suoi smarrimenti.

Nel 1963 esce Un amore ed è quasi uno scandalo. Con quest’opera, infatti, Buzzati sembra distaccarsi dal registro narrativo della sua cifra, dimenticare l’ansia metafisica per tuffarsi nel gorgo pulsante di sangue dei desideri sessuali, della brama per una giovane donna che ama ma non possiede. Il romanzo, dall’evidente rimando autobiografico, racconta di un architetto, Antonio Dorigo, che in una casa d’appuntamenti s’innamora di Laide, una lolita che lo trascina negli abissi: «In me sembra essere avvenuta un’inversione cronologica. Prima il tema della morte, poi il tema di vita e amore. Però si tratta di un’inversione solo apparente. I due temi ci sono sempre stati nei miei racconti. Sono strettamente uniti, relativi uno all’altro». Un amore – la cui struttura ricalca l’archetipo del mito di Orfeo, che ispirerà il suo Poema a fumetti (1969) – è insomma parte coerente dell’avventura umana e cognitiva di Buzzati: è il racconto di una discesa ad inferos, tesa a scandagliare il fondo dell’anima, per rendersi conto della falsità di un’esistenza edificata su equilibri artificiali. La ricerca del protagonista attraverso l’eros giunge ancora una volta alla percezione di un sottofondo oscuro della vita, alla constatazione che la vita è dolore, che anche il piacere è impastato di morte. Ancora una volta Buzzati ci porta a fare i conti con una verità ulteriore, misteriosa, il limite estremo oltre il quale i sensi e la ragione non possono spingersi. Il 1963 è anche l’anno della morte di Arturo Brambilla, l’alter ego di Buzzati, l’amico d’infanzia con cui Dino non smetterà mai di confidarsi. «Io dopo la sua morte sono un sopravvissuto. Sono subito diventato vecchio… Sono diventato l’omino che va al cimitero una sera di novembre.»

Buzzati, in effetti, ha detto tutto: continuerà a scrivere articoli, poesie – anche copioni cinematografici – e a dipingere, ma l’essenziale sta ormai nei romanzi e nei racconti che ha lasciato.

La verità è che Dino sentiva l’arrivo della morte e si stava preparando «come l’eroe di uno dei suoi racconti fuori del tempo e dello spazio: sempre più solo, sempre più in ombra […], ritirato nella sua inaccessibile spiaggia». A chi gli raccontava pietose bugie sulle sue condizioni diceva: «Ma che ulcera e ulcera! Sono quarant’anni che scrivo sulla morte: perciò so benissimo cosa ho». Il 28 gennaio 1972, alle quattro e venti del pomeriggio, nella stanza duecento della clinica La Madonnina, mentre su Milano imperversa una bufera di vento e neve, Dino Buzzati, come Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari, muore con dignità e coraggio, penetrando in quel mistero a cui aveva dedicato la vita.

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