Colui che raccontava storie

Gianfranco de Turris
Dino Buzzati – Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018
Colui che raccontava storie

«La pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby per me è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie», scrisse nel 1967 Dino Buzzati, con quel suo tono caratteristico per metà serio e per metà faceto, dove non riesci a capire quanto vi sia di divertimento, presentando una monografia dedicata alla sua pittura. Ribadì il concetto poco tempo dopo nell’introduzione ad una selezione di suoi dipinti pubblicata da un mensile: «Quando ero ancora ragazzetto, sui tredici-quattordici anni, mi misi a dipingere. Più tardi provai gusto anche a scrivere. Scrivere anzi diventò il mio mestiere. Però, sia pure con lunghi intervalli, ho sempre continuato a raccontare certe storie con la matita e coi colori».

Questa dunque la vocazione di Buzzati. Era uno che raccontava delle storie: la vena del narratore faceva parte della sua natura, assolvendo ad una vera e propria missione, sia quando scriveva della cronaca spicciola, sia quando trattava l’arte, sia nei suoi romanzi e racconti, sia nelle pièces teatrali, negli elzeviri, nei libretti d’opera, nei quadri, nei disegni (per molti dei quali adoperò la struttura dei comics: la divisione in sezioni e l’uso di frasi o didascalie). Ma in Buzzati l’autenticità di questa vocazione ha avuto la fortuna d’incontrarsi e fondersi col particolare universo in cui viveva e che non ha praticamente eguali nella letteratura italiana contemporanea: l’universo del fantastico, del magico, del differente. Un mondo autre che lo rendeva una personalità isolata, in ogni senso, fra tanti “impegnati”, esagitati “operatori culturali” odierni.

Unico fra tanti professionisti della penna limitati dal loro realismo e dai fatti contingenti, Buzzati ha saputo intravedere il lato oscuro, la parte insolita dell’esistenza umana, il mistero di ogni giorno a lui solo noto. Infatti, egli non si è accontentato d’inserire nelle sue opere brevi o più complesse elementi di fantasia “classica” (fantasmi, diavoli, streghe, presenze dall’aldilà, eccetera), ma ha dato un volto “moderno”, attuale a queste simbologie di paura e di orrore: ed ecco le allucinazioni, le nevrosi, le angosce esistenziali, il timore della scienza, il terrore per il domani, il panico nei confronti della folla.

Indirettamente, tutto ciò gli è servito a esorcizzare uno dei grandi pericoli (e, quindi, uno dei più grandi, intoccabili tabù) dei nostri tempi: la massificazione, l’obbligo dell’eguaglianza a ogni costo. Così la principale delle tematiche-base dello scrittore bellunese è stata la sua battaglia quarantennale contro la noia quotidiana, il banale mercificato, l’uniformità della vita comune, la massificazione della nostra società: i suoi racconti, i suoi elzeviri, addirittura il tanto discusso Poema a fumetti (1969) con quella descrizione di un “inferno” attualizzato in cui tutto è monotonia, noia, appiattimento, sono contributi validissimi per la polemica contro questa piaga del nostro tempo. E, di conseguenza, cosa è la sua rivalutazione del “meraviglioso” che sta dietro l’angolo, laggiù, e che non raggiungiamo solo a causa della nostra pigrizia, della nostra incredulità, della nostra assuefazione, se non il pungolo, lo sprone, il simbolo e il mito per scrollarci di dosso una simile maledizione che sembra essere nata insieme al mondo moderno? Leggiamo nella storia che apre la sua ultima opera, il volume di racconti Le notti difficili, apparso tre mesi prima della sua morte, nel novembre 1971: «Era molto più delicato e tenero di quanto si credesse. Era fatto di quell’impalpabile sostanza che volgarmente si chiama favola o illusione: anche se vero. Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia, avido di sterminarti il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace». Ora che è scomparso, chi lo sostituirà in questa funzione di testimone vivente di miti e leggende? Non esiste oggi nessuno scrittore italiano che possa prendere il suo posto.

Questo suo rifiuto del razionalismo del mondo contemporaneo e della sua vocazione ad uccidere le favole e le fantasie si rifletteva nella condanna di molti aspetti della civiltà odierna: la “contestazione” distruttiva e fine a se stessa, le ideologie nazionaliste, l’eliminazione drastica di ogni genere di “valore”, l’“impegno” politico a tutti i costi. Sui primi tre argomenti scrisse racconti ed elzeviri, mentre a proposito del quarto in un’intervista concessaci per «Il Conciliatore» disse, a noi che gli chiedevamo cosa pensasse di tanti suoi colleghi che si autodefinivano in quei termini: «Padronissimi di essere “impegnati”. Ma ritenere che oggi un artista debba necessariamente essere impegnato politicamente, per me, è un’idiozia. Lo scopo di un artista è per prima cosa la poesia, e la si può raggiungere tanto con libri come Il primo cerchio o Buio a mezzogiorno, quanto con opere in cui la politica, i contrasti ideologici o cose del genere non sono neppure sfiorate». E infatti Buzzati fu sempre al di fuori di camarille politiche (non firmò alcuno dei tanti “manifesti” d’ispirazione politica di sinistra apparsi nel secondo dopoguerra) come di quelle editoriali (si dimise dalle giurie del “Viareggio” e del “Campiello” quando vide che non avrebbe potuto assolvere seriamente al suo compito di giudice).

Nato a Belluno il 16 ottobre 1906, Buzzati entrò nel 1928 al «Corriere della Sera» come cronista, poi ne divenne redattore e, durante la guerra, inviato speciale (fu a Capo Matapan), in seguito critico d’arte. I suoi primi complessi tentativi nel campo della narrativa furono due storie lunghe dal sapore di favola, ristampate anche di recente da Garzanti: Bàrnabo delle montagne (1933) e Il segreto del Bosco Vecchio (1935). Al successo giunse con l’ormai meritatamente famoso Il deserto dei Tartari (1940), cui seguirono numerose raccolte di racconti: I sette messaggeri (1942), Paura alla Scala (1946), Un caso clinico (1953) e Il crollo della Baliverna (1954), poi riunite tutte in Sessanta racconti (1958) per cui ottenne quell’anno il Premio “Viareggio”. Nel 1960 fu la volta di un romanzo fantascientifico, Il grande ritratto, e nel 1963 di un’opera realistica (l’unica, si può dire, scritta da Buzzati), Un amore, e di un libro tanto poco noto quanto sorprendente, forse la cosa, a nostro giudizio, migliore che lo scrittore bellunese abbia al suo attivo: una sorta d’insieme di annotazioni, raccontini, considerazioni, pensieri, spunti e confessioni dal titolo In quel preciso momento. Una nuova antologia di racconti ed elzeviri fu Il Colombre (1966), seguita tre anni dopo da quel Poema a fumetti che, mettendo in primo piano la sua passione per un particolare genere di pittura, suscitò tante polemiche tra gli esperti di comics, critici letterari e artistici. Infine, nel 1971, è apparsa un’ennesima raccolta di storie, Le notti difficili (anch’essa stampata, come i precedenti libri, da Mondadori), mentre presso Garzanti è poi seguita una curiosa operetta, I miracoli di Val Morel, una trentina di immaginari ex voto dedicati a Santa Rita da Cascia dipinti e descritti da Buzzati stesso, che immagina di averli scovati e di rivelarli al pubblico per la prima volta.

Emblematicamente, l’ultima opera dello scrittore bellunese riguarda la silenziosa signora che l’aveva accompagnato con la sua immanente presenza in tutta la vicenda terrena, come può comprendere chiunque legga attentamente le trame che recano la sua firma: la vita di Buzzati, uomo e scrittore, è stata quasi ricalcata su quella del primo importante personaggio da lui descritto, quel Giovanni Drogo che monta la guardia perennemente davanti al deserto in attesa dei Tartari che non arrivano mai, e consuma lì la propria esistenza, obbedendo impassibilmente al comando dato. Così Buzzati: per otto lustri è rimasto consapevole in attesa della morte che ha descritto in tutti i modi, le forme, le maniere possibili e immaginabili, con la penna ed il pennello, direttamente ed attraverso i suoi simboli. L’ha attesa, ne ha sorvegliato l’arrivo, e quando essa è giunta l’ha subito compresa, prima degli amici, dei familiari, dei medici.

Più tardi, dopo l’inutile operazione allo stomaco, di fronte alle perplessità altrui, come riferisce Enzo Fabiani, lo scrittore aveva detto: «Ma che ulcera, che ulcera! Sono quarant’anni che scrivo sulla morte: perciò so benissimo che cosa ho». La silenziosa signora era giunta: stava vincendo… vincendo definitivamente. Questo, però, non ha impedito a Buzzati di esprimersi sino all’ultimo, di scrivere sino a quando gli è stato possibile su un vecchio quadernetto. Forse non sapremo mai quali sono stati i suoi pensieri in quei momenti decisivi, cosa può essere passato nella mente di uno scrittore che è vissuto per tutta la vita in un mondo non suo e che si accinge a varcare le soglie di una dimensione all’esplorazione dei cui confini ha dedicato quasi tutta l’esistenza.

Nel pomeriggio del 28 gennaio 1972, verso le sedici, si scatena all’improvviso su Milano una violenta e impetuosa bufera di neve. Al secondo piano della clinica “La Madonnina”, nella stanza duecento, lo scrittore giace in coma, privo di coscienza da mezzogiorno. Alle sedici e venti è il silenzio: «In quel preciso momento sulle creste della Gran Fermeda turbinava la tormenta con le sue solite anime in pena. Gli ultimi re delle favole si incamminavano all’esilio e sul deserto di Kalahari le turrite nubi dell’eternità passavano lentamente». Sono le frasi finali del Poema a fumetti, ma a noi piace pensare che anche Buzzati, colui che raccontava delle storie, si sia allontanato così, col fardello della sua fantasia, da questo mondo per raggiungere quello della sua immaginazione.

(«L’Italiano», Roma, marzo 1972)

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