"Le cinque giornate". La traversata del deserto

Dario Argento n. 15/2022

di Luigi Locatelli

Rivisto oggi, Le cinque giornate appare ancora più alieno di quando – malamente accolto – uscì in sala nel remoto dicembre 1973, così dissonante rispetto al canone argentiano. Un’anomalia all’interno di una parabola tra le più coerenti nel cinema del secondo Novecento, un excursus nel film storico a tema risorgimentale rimasto unico per il suo autore, come se potesse esserci una qualche improbabile affinità tra Argento e il Mario Soldati di Piccolo mondo antico (1941) o il Luchino Visconti di Senso (1954). Ma basta ruotare il punto di osservazione e inforcare altre lenti per scorgere dentro Le cinque giornate i segni inequivocabili del suo regista, a conferma di ciò che è intuitivo fino all’ovvio: nessuno abbandona mai del tutto le proprie ossessioni. Un film che non possiamo espungere – come tanto spesso s’è fatto – dal tragitto di Argento anche perché conficcato nella sua stagione più splendente, dopo la trilogia animale e prima dei capolavori Profondo rosso (1975) e Suspiria (1977), dunque nel passaggio cruciale dall’obbedienza alle regole del thriller all’estetica ribelle del sangue e del puro orrore.
Le cinque giornate è una tappa imprescindibile di colui che, prima della conversione definitiva, sente la necessità di scappare altrove, in un limbo neutrale per capire e mettere alla prova la propria vocazione: la traversata del deserto prima dell’ostensione del vero sé alle folle.
Si resta stupefatti, per come tale incursione in quel pezzo di Risorgimento che vide la ribellione di Milano al dominio austriaco nel marzo 1848 non somigli a nessun altro film storico e sia, invece, riconducibile solo all’universo del suo autore. Che qui si muove con una libertà perfino oltraggiosa, secondo linee ardite di sperimentazione da cui non sempre esce indenne (ci sono segmenti oggi insostenibili, in primis quello dell’aristocratica invasata di corpi rivoluzionari maschili che, dopo gli scontri, si concede a tutti i suoi patrioti; ma ce ne sono altri vertiginosi per come il regista inventa cinema: le masse che si muovono ai ritmi sincopati dello slapstick o la straordinaria sequenza dei piedi “parlanti” sotto la tavola imbandita). In quest’opera pulsionale come una jacquerie o un assalto sanculotto, che adotta come propria la lingua corporale dei suoi due protagonisti e delle masse che si muovono selvaggiamente nello spazio della Storia, Argento resta fedele a quanto ha sempre fatto e farà: raccontare per immagini l’inconscio, il rimosso, secondo una mai rinnegata lezione freudiana («È la mia passione, Freud. Ogni volta che passo da Vienna vado a rivedere la sua casa»1).
Se a spingere il padre Salvatore Argento a produrre il film fu il colossale successo di Nell’anno del Signore di Luigi Magni (1969), film risorgimental-papalino deviato verso la commedia, il risultato si discosta parecchio dal modello. A partire dai contenuti, improntati a un revisionismo (anti)risorgimentale assai diffuso in quegli anni nella sinistra più radicale. In una presentazione del film a Roma nel 2008, Argento ricostruisce la genesi ideologica di Le cinque giornate dilungandosi sulla propria vicinanza di allora a Potere Operaio, sulla sceneggiatura condivisa con Nanni Balestrini – che, dopo la stagione sperimentalista con il Gruppo ’63, si era votato a una letteratura militante – e sulla sua intenzione di raccontare l’insurrezione della Milano quarantottesca come una delle tante rivoluzioni nazionali tradite («Come la Resistenza, come il ’68»2). Dove il tradimento, ovvio, sarebbe stato compiuto dalle élite ai danni del proletariato. O del sottoproletariato. O del popolo, secondo una scuola storiografica che nei Settanta aveva trovato in Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria il proprio testo sacro e che oggi appare quantomeno settaria.
Sorprende, in un autore considerato tra i massimi del cinema come pura forma e immagine, tanta attenzione ai famigerati contents. Eppure, in Le cinque giornate non c’è traccia di realismo storico: Argento imbocca deciso ben altre strade fin dalla clamorosa prima inquadratura, quasi un manifesto teorico del suo cinema, quel cannone smaccatamente fallico (ancora Freud!) che, ruotando su sé stesso, punta la bocca di fuoco sullo spettatore. A intimidirlo, a inchiodarlo al ruolo di vittima-complice di uno spettacolo cruento. Il resto del film è disseminato di segni argentiani. Sul vagabondare senza meta né salvezza dei due povericristi al centro della storia, il ladro Cainazzo e il fornaretto Romolo, piovono pallottole, fiotti di sangue, umori corporali di cui si avvertono l’odore e la vischiosità, secondo una pienamente argentiana degradazione e martirizzazione dei corpi. Il topo gettato in bocca a un prigioniero. Il sangue a ornare come un collier il décolleté della nobile barricadiera. I giustiziati penzolanti dalle forche. I combattenti squarciati dalle lame. Le donne violate. L’orrore è già qui, in anticipo su Suspiria. Del tutto coerente con il suo autore è anche la geografia re-immaginata, una Milano che non è Milano se non in qualche scorcio irriconoscibile (ed ecco il Duomo segmentato, fatto visivamente a pezzi da una raffica di zoom sui suoi gargoyle, i doccioni mostruosi che ci ricordano come il gotico sia una delle cifre dell’opera). Il regista ha spiegato l’impossibilità di trovare location adatte a Milano e la necessità di spostare il set altrove, soprattutto a Pavia. Ottimo pretesto per sfuggire ai vincoli della geografia oggettiva e ricrearne un’altra, del tutto visionaria e impossibile. Con la solita predilezione per le strade strette e tortuose, dove inserire lo stalking della vittima da parte dell’assassino.
L’epifania definitiva, per l’attonito spettatore, arriva in uno degli episodi cruciali di questo film privo di un centro, quando Cainazzo e Romolo si ritrovano al cospetto di una coppia composta da un maturo signore (zio? padre? padrone?) e una losca ragazzetta.
Ma è Fellini – si esclama sbalorditi – è il Satyricon (1969)! Quel corpo gonfio da eunuco e quell’adolescente lupesca sembrano infatti usciti dal titolo più estremo e lisergico del Gran Sciamano riminese. E non è la sola analogia. Come nel Satyricon, anche in Le cinque giornate due giovani uomini vagano in una città che è somma di angoli lerci, ammassi orgiastici, depravazioni. Non così sorprendente, visto che il regista romano si è sempre detto ammiratore dell’autore riminese. Ulteriore indizio: lo sceneggiatore del Satyricon, Bernardino Zapponi, verrà chiamato da Argento di lì a poco a scrivere Profondo rosso.
E se la connessione non si fermasse qui? Se ci fossero altre interferenze tra i due titani del nostro cinema non-realista?

Note
1 Gradara Annamaria, Premiato Dario Argento, in «Corriere di Romagna», 5 ottobre 2021.
2 Percorsi di cinema, 2008, vedi www.youtube.com/watch?v=9ChhkKyPpBw.

CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Luigi Cozzi, Enzo Ungari; sceneggiatura: Dario Argento, Nanni Balestrini; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Giuseppe Bassan; costumi: Elena Mannini; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Giorgio Gaslini; interpreti: Adriano Celentano (Meo Cainazzo), Enzo Cerusico (Romolo Marcelli), Marilù Tolo (contessa della barricata), Luisa De Santis (donna incinta), Carla Tatò (la vedova), Glauco Onorato (Zampino), Tom Felleghy (Mariano), Dario Argento (uomo fasciato), Sergio Graziani (barone Trazunto); produzione: Salvatore Argento per Seda Spettacoli; origine: Italia, 1973; durata: 120’; home video: Blu-ray inedito, dvd Videa; colonna sonora: Cinevox.

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