La storia nella storia. Intervista a Sonia Topazio

Claudio Bartolini
Dario Argento n. 15/2022

Firenze, 1996.

Sui sedili posteriori di un’auto familiare bianca, parcheggiata in un vicolo, la giovane donna urla in primo piano tutto il fiato che ha in gola. Schiacciata dal corpo del maniaco e dalla macchina da presa in verticale a piombo, subisce una violenza spietata alla quale prova a ribellarsi, disperata e selvatica, mordendo in dettaglio il labbro dello stupratore. Ma la bestia, ferita, impugna una pistola e preme il grilletto. Il proiettile passa il volto della malcapitata da guancia a guancia, in un tripudio esplosivo di sangue e polvere da sparo che intreccia il corpo della ragazza al digitale degli effetti speciali. Alfredo Grossi, occhi luciferini e allucinati, guarda attraverso il buco aperto nella carne come se si trattasse di una serratura, in una macabra rivisitazione degli archetipi anni Settanta di Dario Argento. Dall’altra parte della “toppa”, in controcampo, la vice-ispettrice Anna Manni, costretta ad assistere al delirio, grida il proprio orrore prima di fuggire, disperata.
La scena più ispirata di La sindrome di Stendhal (1996) ha il volto di Sonia Topazio, fatto letteralmente a pezzi dalla macchina-cinema argentiana. Ventisettenne potentina di stanza a Roma e per otto anni segretaria della Dania Film di Luciano Martino, nel 1996 la riccia e bellissima attrice è già stata cassiera per Marco Ferreri (La carne, 1991), prostituta per Mauro Bolognini (La villa del venerdì [1991]) e Alfonso Brescia (Omicidio a luci blu [1992]), mantide seduttrice per Mario Gariazzo (Ultimi fuochi d’estate, 1992) e bellezza al mare nuovamente per Brescia (Club Vacanze, 1995). In procinto di girare il suo ottavo thriller per il grande schermo, Argento la precetta per un ruolo che lui stesso le descrive – con notevole preveggenza – come «piccolo, ma destinato a passare alla storia».

Come mai Argento scelse proprio te per quella parte?
Fu anche e soprattutto una questione di cuore. Con Dario, infatti, in quel periodo vivevo una storia d’amore – che sarebbe durata poco più di un anno. Ci aveva fatti conoscere Ibrahim Moussa, l’ex marito di Nastassja Kinski, durante una trasferta a Los Angeles. All’epoca vivevamo insieme, per i rotocalchi rosa eravamo una continua fonte di notizie e, per Asia (Argento, nda), di gelosia, che la portò ad andare via di casa. Con Fiore (Argento, nda) avevo invece un discreto rapporto, nonostante fossimo praticamente coetanee e la situazione in sé fosse piuttosto strana. Di fatto, entrambe le figlie di Dario erano cresciute con il padre e agivano nei miei confronti una competizione strana, che non faceva parte di me e del mio carattere.
In quanto al cinema, Dario non voleva che facessi l’attrice. Mi teneva distante da quel mestiere al punto da presentarmi ad amici e colleghi come sportiva, dato il mio passato nell’atletica leggera. Al contempo, però, mi fece recitare due piccoli ruoli, più che altro per farmi contenta: in La sindrome di Stendhal interpretai la vittima dell’omicidio a Firenze, mentre in M.D.C. Maschera di cera, da lui prodotto e girato nel 1997 da Sergio Stivaletti, vestii i panni di un’infermiera.
Quello con Dario fu per me un periodo bellissimo, condito da due mesi e mezzo trascorsi al Bel Age Hotel di Bel Air in attesa che partissero le riprese del film La mummia che poi, invece, non fu mai realizzato. All’epoca non parlavo bene l’inglese e Dario mi pagò un’insegnante privata che, tutti i giorni, veniva a darmi lezioni. A Bel Air, durante le numerose feste, conobbi star del firmamento internazionale come Quentin Tarantino. Furono esperienze memorabili.

Entriamo nel merito del film. In quanto tempo fu realizzata quella “scena fiorentina”?
Innanzitutto fu girata a Roma, nonostante nella finzione fosse collocata a Firenze, e fu pagata il doppio in quanto notturna. Era stata preparata nei minimi dettagli, nonché minuziosamente descritta nel copione che, al pari di quasi tutti quelli di Dario, era stato scritto all’hotel Parco dei Principi di Roma, quartiere Parioli, con l’ausilio e la revisione di uno psicologo. In quel caso una psichiatra che lui stimava molto, necessari per tutta la parte di perizia medica legata allo sdoppiamento di personalità della protagonista.
Per le riprese erano stati inizialmente preventivati due giorni, dati i notevoli accorgimenti tecnici necessari a una buona riuscita. Alla fine ce ne vollero addirittura quattro perché la scena fosse realizzata come voleva Dario. A girarla, però, non fu lui direttamente, bensì il regista della seconda unità: Luigi Cozzi. Dario, che supervisionava il girato, dopo le prime due nottate si dichiarò insoddisfatto e fece rifare tutto. Al termine di quelle supplementari, però, il risultato finale lo convinse appieno.

Proviamo a ripercorrere la realizzazione dal principio.
Ancora prima del ciak, ricordo che quando arrivai sul set Dario mi chiese dove avessi preso quei vestiti. Così abbigliata, a suo modo di vedere, ero troppo sexy. Mi disse: «Cosa ci fai vestita in quel modo? Vatti a vestire, passa dalla costumista, così non va bene». Lo guardai e replicai senza esitazioni: «Guarda che questi sono gli abiti della costumista, mi ha vestito lei!» (ride, nda). Rimasi vestita come previsto e girai la scena.

Passiamo in rassegna le inquadrature, partendo da quelle che precedono lo sparo.
Inizialmente urlo, inquadrata dall’alto in primo piano e a mezza figura con sopra di me Thomas Kretschmann e accanto Asia, che osserva impietrita. Poi c’è il morso al labbro, in dettaglio, con la conseguente fuoriuscita di sangue. In quel caso furono usate sacche di liquido commestibile, piuttosto costoso e anche dolce: molto buono! (ride, nda). Furono queste, in particolare, le riprese che a Dario non piacquero e che fece rifare a Cozzi e a noi tutti.

Poi arriva il primo piano frontale dell’esecuzione.
Da una pistola finta – quella che nel film è l’arma del delitto – furono sparati contemporaneamente aria fortissima e borotalco sulla mia guancia, per simulare rispettivamente gli effetti dell’impatto del proiettile sulla pelle e dell’esplosione del colpo. Digitalmente, in un secondo momento, fu inserita al ralenti la pallottola che buca la guancia al mio personaggio. Al momento, invece, dovetti simulare il tutto basandomi esclusivamente sul momento in cui il fiotto d’aria compressa impattava la mia faccia. Era questione di poche frazioni di secondo, per cui il cambio di espressione doveva essere repentino e in piena sincronia con il finto sparo.

Infine, dopo l’excursus in digitale sul suo percorso all’interno della bocca, il proiettile fuoriesce bucando l’altra guancia in un’inquadratura di profilo.
Per quella ripresa Sergio Stivaletti mi aveva preventivamente fatto il calco della testa. Fu un lavoro asfissiante, a prova di claustrofobia: trascorsi quattro ore con indosso un casco integrale in plastica tecnica. Una volta asciugato il materiale, mi liberarono di quell’arnese tagliandolo sul lato sinistro e lo utilizzarono per l’inquadratura, con la pallottola che esce sfondando la guancia destra. Anche in questo caso il proiettile fu aggiunto digitalmente, al pari dell’esplosione che crea il buco attraverso cui l’uomo, poi, guarda l’impietrita Asia. Riguardando la scena, oggi, ammiro ancora la perfezione di quel calco: sembro davvero io!

Come visse Dario Argento il set di quel film?
Direi molto bene. Era in un buon periodo, anche se durante la prima settimana di lavorazione fece licenziare diverse persone per motivi risibili o, comunque, non tali da giustificare simili provvedimenti. Questa cosa non mi piacque, soprattutto perché sospettai che fossero decisioni preparate ad hoc, quasi a tavolino, per aumentare i rumors legati al set e, di conseguenza, la grancassa mediatica sul film. Forse fu una mia errata interpretazione dei fatti, ma al momento la pensai così.
A parte questo, non mancarono momenti bizzarri e divertenti. Dario, per esempio, faceva irruzione in camera da letto, al buio, per testare su di me l’efficacia delle scene di paura, oppure mi tirava i calci sulle caviglie – leggeri, ovviamente – per misurarne l’effetto (ride, nda). Era davvero ossessionato dalla riuscita di questi aspetti che, di fatto, nel suo cinema sono sempre stati centrali.

La vostra relazione, poi, è continuata?
Sì, per quasi un anno. Quando ho girato M.D.C. Maschera di cera eravamo ancora assieme, ma ci stavamo già lasciando. Però siamo sempre rimasti in ottimi rapporti e ancora oggi, ogni tanto, ci sentiamo.

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