La morte è donna. L’universo femminile di Dario Argento

Gabriele Acerbo
Dario Argento n. 15/2022

Perché uccide sempre le donne?
La domanda che sottende l’accusa di misoginia Dario Argento se l’è sentita rivolgere spesso, tanto da giocarci sopra come fece in Tenebre (1982) quando allo scrittore di thriller Peter Neal viene chiesto: «Come mai tanto disprezzo per le donne? Le tue donne sono vittime, non sono niente!».
Sarebbe folle supportare una riflessione sulle donne nel cinema di Argento – ma, come vedremo, anche nella vita – con un bodycount delle sue vittime sullo schermo?
Probabilmente sì, è una follia: esattamente come poco lucido è stato insinuare che Argento odiasse le donne. Il regista ricorda una drammatica proiezione a Bologna, agli inizi della sua carriera, in cui il pubblico lo insultò dandogli del fascista e invocando addirittura il codice penale1.
Paradossalmente, la polemica sulla presunta misoginia di Argento esplose con i primi tre film, quelli in cui a morire sono in maggioranza gli uomini (in tutto nove, le donne “solo” sei). Addirittura, Il gatto a nove code (1971) vede un’ecatombe maschile (quattro) e un’unica vittima femminile. Ed è il film dove Anna Terzi pronuncia un feroce j’accuse femminista contro il cronista di nera Carlo Giordani, che sospetta di lei: «Giornalistucolo ridicolo e borghese. Due più due fanno quattro: una classica equazione all’italiana. Puttana più bugiarda uguale assassina».
Forse la goccia che fece traboccare il vaso fu 4 mosche di velluto grigio (1971), non per la disparità numerica tra vittime maschili e femminili (due contro tre), ma perché il sadico killer si rivela essere la moglie del protagonista Roberto Tobias. Dopo la Monica Ranieri di L’uccello dalle piume di cristallo (1970, vittime due donne e tre uomini), che il trauma fondativo trasforma in assassina, ecco un’altra femmina folle, personalità psicotica che odia gli uomini perché li identifica con il padre che la punì solo per essere donna, rinchiudendola in manicomio. In più, in una vertigine tra finzione e realtà, a impersonare la temibile Nina Tobias era Mimsy Farmer, attrice spaventosamente somigliante all’allora moglie di Argento, Marisa Casale. Tant’è che alla prima del film Casale si rivolse al marito singhiozzando: «Ma cosa ti ho fatto, cosa ti ho fatto? Perché mi vedi in questo modo? Io non ti voglio uccidere!»2.
Scriverà anni dopo Argento: «Capii che in maniera del tutto inconscia, credendo di fare un innocente gioco di rimandi, avevo in realtà messo in scena il disagio che provavo ogni giorno pensandomi nel ruolo di marito. Era come se avessi raccontato a me stesso la mia vita, la nostra, e quella vicenda (ora che era diventata un film che avrebbe avuto il suo posto nel mondo) si rivelasse all’improvviso insostenibile»3.

Sangue in famiglia
Il gioco di rimandi tra cinema e vita (e morte) non finisce lì. Le eroine di Argento, vittime e/o assassine, saranno quasi sempre le compagne di vita. E poi le figlie.
Se appunto la prima moglie – che dopo l’uscita di 4 mosche di velluto grigio diventò ex – andò in scena attraverso il doppio fantasmatico di Nina/Mimsy Farmer, con Daria Nicolodi la posta in gioco si fece più alta: dapprima fu sparring partner di David Hemmings in Profondo rosso (1975, vittime tre donne e tre uomini) e quasi alter-ego femmineo del regista («Il mio personaggio rappresenta in qualche modo Dario ai tempi del suo impiego come giornalista a “Paese sera”: frenetico, pieno di vitalità, ironico, dolcemente esplosivo»4); poi, dopo la parentesi di Suspiria (1977, vittime sei donne, due uomini), di cui fu ispiratrice e co-sceneggiatrice ma non interprete, anche se il ruolo di Jessica Harper doveva essere suo, fa una fine cruenta in Inferno (1980, vittime quattro uomini, cinque donne) per poi impersonare l’unica sopravvissuta – celebre il suo urlo, per altro improvvisato al momento5, che dà il via ai titoli di coda – alla carneficina di Tenebre (sette donne e cinque uomini). Successivamente interpreterà la sua unica parte da villain nella filmografia di Argento, l’omicida per amore del figlioletto killer in Phenomena (1985, vittime quattro donne e quattro uomini), perendo a colpi di rasoio per mano di uno scimpanzé; le sarà sfondato il cranio da una pallottola in Opera (1987, tre donne, quattro uomini) per finalmente tornare, ultima volta in un film dell’ex-partner, come fantasma-mamma di Sarah Mandy/Asia, nell’apocalittico La terza madre (2007, sei donne, dieci uomini).
Il cortocircuito vita-cinema si può apprezzare anche in Opera. Qui Antonella Vitale, compagna di Argento dopo la separazione da Nicolodi, ricopre il ruolo della fidanzata del regista horror Marco alla sua prima esperienza con un’opera teatrale (il fatto che Argento fosse reduce dall’esperienza fallita del Rigoletto non è casuale). Oppure in La sindrome di Stendhal (1996), dove il serial killer Alfredo Grossi violenta una donna in un’auto ferma a bordo strada tra le di lei urla strazianti, prima di spararle un proiettile che, a bruciapelo, le passa il volto da guancia a guancia. Ebbene: la vittima in questione è interpretata da Sonia Topazio, in quel biennio partner dell’autore.
Ma è con le figlie Fiore e Asia che il gioco di specchi si intensifica.
Fiore – figlia di Dario e Marisa Casale, solo due volte sul set del padre – debutta sullo schermo aprendo la sfilza di cadaveri di Phenomena (a chiuderla ci penserà Daria). Sarà invece miracolosamente risparmiata nel thriller Il cartaio (2004, vittime quattro donne, tre uomini): anziché essere massacrata come il canone giallo impone, e come capiterà a tutte le altre martiri del Cartaio, riesce a salvarsi, rappresentando così un’assoluta stravaganza nel cinema del padre.
Destino ribaltato e carriera più lunga, quella di Asia, che in cinque anni e tre pellicole impersona eroine che attraversano indenni la mattanza argentiana. Debutta con Trauma (1993, vittime cinque donne e cinque uomini) nel ruolo di Aura, giovane tormentata da seri problemi con il cibo – qui, ancora una volta, affiora un dato biografico, ovvero il riferimento alla prima figlia di Daria Nicolodi, Anna, per anni sofferente di anoressia. In seguito, Asia è la poliziotta vittima di stupro, poi vendicatrice e assassina in La sindrome di Stendhal (1996, vittime tre donne, sei uomini). Quindi è la soprano Christine Daaé in Il fantasma dell’Opera (1998, vittime una donna, nove uomini). Finché decide di impegnarsi in progetti propri, facendo fallire la missione che si era dato il padre: realizzare, un film dopo l’altro, una sorta di cinediario della figlia minore. Tornerà anni dopo nei panni di un’archeologa alle prese con una setta diabolica in La terza madre. Sarà l’ultima volta da protagonista (e da sopravvissuta all’orgia di sangue della pellicola) perché il padre, in Dracula (2012, vittime cinque donne e quindici uomini) e Occhiali neri (2022, tre donne e tre uomini), le farà impersonare personaggi secondari che per di più faranno una bruttissima fine.

Eroine e assassine
Se volessimo continuare con la mera aritmetica potremmo sostenere che il cinema di Argento è fatto non di eroi, bensì di eroine. Se, a parte l’eccezione Suspiria, vero trionfo del femmineo soprattutto grazie al contributo fondamentale di Daria Nicolodi, le opere degli anni Settanta sono storie nere narrate dal punto di vista maschile, è dalla metà degli Ottanta che, con una cesura netta e impressionante, le donne prendono il sopravvento nell’immaginario di Argento: oltre i quattro film con protagonista Asia, l’elenco comprende Phenomena (star: Jennifer Connelly), Opera con Christina Marsillach, Nonhosonno con Chiara Caselli (2001, vittime sette donne, cinque uomini), Il cartaio con Stefania Rocca, Dracula con Marta Gastini, Occhiali neri con Ilenia Pastorelli. Prima della rivoluzione femminile, l’ultimo degli eroi argentiani è il Peter Neal di Anthony Franciosa. Ma solo in apparenza, per il buon motivo che si scoprirà essere uno dei due assassini di Tenebre. Dopo ci saranno solo Elio Germano nel televisivo Ti piace Hitchcock? (2005, vittime una donna e un uomo) e Adrien Brody in Giallo (2009, quattro donne), anche se quest’ultimo è un film su commissione scritto da due sceneggiatori americani.
E i killer? Come anticipato sopra, il sospetto è che le accuse di misoginia siano sorte non perché nei suoi film Argento uccidesse le donne, ma perché dietro i volti incappucciati, le maschere e i guanti neri, a colpire, pugnalare, massacrare con tanta rabbia, odio e crudele fantasia ci fossero delle donne. E che donne!

Mater
Cos’è la donna, per Argento? Prendo a prestito le parole di Francesca Lenzi: «La tavolozza di colori con cui dipinge le sue follie». O, per dirla con Lamberto Bava, aiuto-regista di due pietre miliari quali Inferno e Tenebre e buon amico di Dario e Daria, oltre che «il centro dell’esistenza, il suo Olimpo è al femminile: la madre, le figlie, le sue compagne, le sue attrazioni fatali».
La madre è una figura fondamentale nel cinema di Argento, l’origine di tutto. Non è un mistero che il piccolo Dario sia rimasto affascinato dal mondo dello spettacolo e dalle dive frequentando lo studio fotografico della mamma Elda Luxardo (ancora Bava: «Quando lei ti osservava, ti sentivi guardato dentro»).
D’altronde, se è vero che la madre è il fondamento della famiglia e se la famiglia, per dirla con Argento, è «la radice di ogni male»6, la poetica del regista non può non prescinderne. Non a caso sono madri le sue assassine più memorabili. In primis la Clara Calamai di Profondo rosso (da notare che nel film non ha nome, è semplicemente “la madre di Carlo”) e la sua copia americana, l’Adriana Petrescu di Piper Laurie in Trauma: entrambe punite con la decapitazione, proprio come l’altra inquietante killer, la Nina Tobias di 4 mosche di velluto grigio, che biologicamente madre non è, ma lo è per il marito che da lei dipende dal punto di vista economico. Mamma protettiva del suo mostro-bambino è Frau Bruckner in Phenomena mentre, al contrario, madri-Medea dei loro piccoli popolano La terza madre. E, seppur non assassina ma complice, è la mamma di Betty che in Opera gode di fronte alle sevizie del suo amante.
Ovviamente, nel calderone delle malvagie troviamo le mater della trilogia horror («Ma gli uomini ci chiamano con un solo nome», grida Veronica Lazar al povero Mark Elliot: «Un nome che fa paura a tutti. La morte!»). È in loro, infatti, che si compie il rituale generatore del male estremo. Il Male che il mondo minaccia e del mondo vorrebbe impadronirsi. Quel Male partorito da grembi materni e insieme mostruosi, da streghe comandanti con agli ordini fattucchiere minori e giovani adepte. In cima ci sono loro: Mater Suspiriorum, Tenebrarum e Lacrimarum, fonti di ogni turbamento e compimento di un nucleo preciso creato del cineasta: un micro-universo – teorico e inconscio, di certo non riducibile a confini razionali – narrato in tre atti discontinui, ma sempre governato dalla medesima vocazione ginocentrica: eroine (in)consapevoli ai confini degli inferi e al cospetto delle entità femminee che quegli inferi spalancano. E gli uomini? Poco più che suppellettili, a ennesima smentita di quelle strampalate teorie che vorrebbero etichettare Argento come misogino.
Sono innegabilmente tutte figure affascinanti di fronte alle quali i killer maschi – che aumenteranno di numero nel momento in cui lo sguardo argentiano si identificherà sempre più con il punto di vista femminile – impallidiscono7.

Conclusione8
Vittime femminili: 79.
Vittime maschili: 96.

 Note
1 L’episodio è evocato in Argento Dario, Paura, Einaudi, Torino 2014, pp. 140-144.
2 Ibidem, p. 142.
3 Ibidem.
4 Palmerini Luca M., Mistretta Gaetano, Spaghetti Nightmares. Il cinema italiano della paura e del fantastico visto attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, M&P edizioni, Roma 1996, p. 231.
5 Bartolini Claudio, Enciclopedia del cinema giallo, Gremese, Torino 2017, p. 280.
6 Argento Dario, Paura, op. cit., p. 265.
7 Di quanto poco interessanti, minacciose e seducenti una volta svelata la loro identità, siano le figure degli assassini maschi meriterebbe una trattazione a parte. A partire dal primo, il dottor Casoni di Il gatto a nove code, che uccide per nascondere la sua malattia, fino a Matteo, il cliente puzzolente della escort Diana nell’ultima prova del Maestro: Occhiali neri.
8 Il conteggio riguarda solo gli omicidi in scena (sono esclusi i ferimenti e gli omicidi evocati, ma non visibili) di tutti i film diretti dal regista, a esclusione di Le cinque giornate (1973). Sono inclusi i film tv: i due Masters of horror: Istinto assassino (2005) e Istinto animale (2006), Ti piace Hitchcock? e Il tram (1973), l’unico episodio diretto da Argento della serie La porta sul buio. Dovrete perdonare l’approssimazione perché in alcuni casi, per esempio nelle scene di carneficina collettiva come capita in La terza madre e Il fantasma dell’Opera, il computo è quasi impossibile.

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