La catarsi tecnologica di un disubbidiente. Tecnica come cerimonia dell’ansia nel cinema di Argento
Donato DallavalleNel 1919 Franz Kafka scrive una lettera al padre1, un uomo che aveva fatto dei pregiudizi verso il nuovo una vera e propria regola di vita, confessandogli di voler continuare a coltivare la sua arte come unica via di fuga dal mondo. È chiaro che il padre castratore sia il simbolo di una realtà, quella del Novecento, che si nutre di violenze e tabù e non ammette obiezioni. In questo senso, anche quella di Dario Argento è la storia di una disubbidienza al conformismo di una società chiusa e intollerante, alla quale si ribella perfezionando nel tempo una liturgia del panico talmente personale e potente da trasformarsi in catarsi collettiva.
Argento disubbidisce fin da quando, giornalista, è deciso a valorizzare il cinema di genere considerato anti-ideologico dalla critica di partito, ed è disubbidiente come sceneggiatore innervando di tensioni contemporanee gli schemi del mainstream.
Certamente lo è da regista, fin da L’uccello dalle piume di cristallo (1970) che, all’inizio, il distributore Goffredo Lombardo riteneva così strano da decidere di licenziarne il creatore. Argento non ubbidì e continuò le riprese, sicuro che la sua visione fosse l’unica giusta per il film.
Se c’è qualcosa alla quale Argento obbedisce è il proprio mondo, in cui le avanguardie e i vapori del cinema classico si fondono in un costante dialogo con le sue ossessioni sul presente: una voce interiore che solo la forza del cinema e le sempre nuove possibilità tecniche ed espressive possono far uscire dall’ombra. In L’uccello, insieme a Vittorio Storaro, trasforma Roma in una giungla d’asfalto raffreddata in abbattitore ed elegge la soggettiva (da sempre importante per Hitchcock e Lang) a emblema di una totale immersione dello spettatore nei propri incubi.
L’uso della soggettiva, dove tutto è mostrato ma non immediatamente rivelato, si esaspera nei film successivi, abbandonando la macchina a mano per fluidificarsi nella steadycam, spesso costringendo l’operatore a un vero corpo a corpo con la macchina – come nella scena del treno in Nonhosonno (2001) dove la steady fu fissata alle spalle, anziché all’addome, per potenziare l’isteria del momento.
La soggettiva diventa via via sempre più spettacolare e spersonalizzata; non più semplice espressione umana ma assioma di un’entità, del male assoluto. Cosa c’è di più anarchico che costringere il pubblico a condividere il male, a non poter più chiudere gli occhi (come in Opera), a sentirsi egli stesso vittima e colpevole?
In Tenebre, Argento realizza una delle sue soggettive più celebri. Sceglie la Louma, una gru snodata che può arrivare a 9 metri di altezza, collegata a un braccio telescopico, già utilizzata da Polanski in L’inquilino del terzo piano (1976). Argento spinge la macchina ai limiti delle proprie potenzialità espressive e dopo una settimana di prove le fa fare di tutto: si arrampica sulla facciata della villa delle due vittime, entra ed esce dalle finestre per spiarle, sale sul tetto e scende dall’altro lato per l’ultimo plié (o plongée) del suo acrobatico balletto di morte. Tutto senza stacchi, tutto tecnico ma anche in presa diretta, vero, senza altri effetti.
Quello che non si capì subito di Argento è che il suo cinema è all’avanguardia perché abbatte la barriera tra sovversivo e quotidiano e, incarnando la violenza insita nei fatti della propria generazione, cerca, alla maniera di Thomas De Quincey, di scardinare e riorchestrare la tecnicità dell’assassinio, la grandezza lirica, anarchica e sempre misteriosa della morte.
Da qui parte la sperimentazione, la schizofrenica ricerca di ogni novità tecnica, al costo di qualche esito meno felice (è innegabile che gli effetti stereoscopici di Dracula 3D non siano ben riusciti), che diano al regista la chiave per immergere lo spettatore nell’esatta simmetria della propria visione.
In Profondo rosso (1975) Argento disubbidisce alle convenzioni del giallo decostruendo le singole scene e orchestrandole come movimenti indipendenti di un grande concerto jazz-prog che, in qualche modo, ricorda la struttura di Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Per realizzare le celebri sequenze rituali che precedono i delitti, il regista sperimenta, primo in Europa, lo Snorkel, una microcamera brevettata da Paul Kenworthy, ex regista Disney, che, montata su un tubo snodabile di 30 centimetri, dà la possibilità di riprendere piccoli oggetti in macro e da ogni angolazione. L’espediente costruisce, con una sintesi di puro cinema, la topografia mentale dell’assassino ingigantendo la potenza enigmatica di biglie infantili e bambolette, simulacri di un passato interrotto e di un presagio allucinato che respira le atmosfere di James Ensor.
Con Suspiria (1977), Argento vola verso i territori vergini della favola dark e, insieme a Luciano Tovoli – fino ad allora strenuo difensore dell’illuminazione naturale – sceglie di girare con una pellicola Kodak a bassa sensibilità (18-20 Asa). Costretto a inondare vasti set con luci abbaglianti, come ai tempi di Méliès, applica gelatine e tessuti colorati a proiettori ad arco che, filtrando la luce, ridisegnano la profondità, non solo fisica, degli spazi.
Ne esce una nuova drammaturgia del colore che, anche grazie all’archeologico sviluppo in tricromia Technicolor della pellicola, donano a Suspiria l’atmosfera litografica, fiabesca ma urlante di un grande musical pop-espressionista che continua a ispirare i registi di oggi, da Del Toro a Refn. Si dice che, inizialmente, il film dovesse essere girato in 3D come tanti cult del passato, idea poi accantonata per i costi proibitivi.
Forse è solo una leggenda ma fa riflettere su tutte quelle visioni negate, abbandonate per la scarsità di budget o per l’inadeguatezza della tecnologia del tempo. È il caso di Inferno (1980), per il quale Argento avrebbe voluto realizzare la soggettiva di una folgore che dal cielo si abbatte sulla terra; mentre in La sindrome di Stendhal (1996) le spettacolari riprese aeree tra le vie del centro di Firenze, promesse da una camera montata su un dirigibile a elio, furono spazzate via dal vento insieme all’apparecchio. Se Argento avesse potuto contare su un moderno drone acrobatico forse le cose sarebbero andate diversamente. Chissà come sarebbe stata l’audace soggettiva dei corvi che volano nel teatro in Opera: nel 1987, Argento utilizza il meglio su piazza, la Skycam, una cinepresa usata nei documentari naturalistici, fissata a un enorme traliccio in grado di muoversi in alto e in basso e roteare su sé stesso. Ne nasce una scena dal lirismo funambolico che, causa qualche ombra di troppo, tradisce le vicissitudini della sua realizzazione. Ma si sa, sperimentazione fa spesso rima con complicazione.
In 4 mosche di velluto grigio (1971) Argento decide di realizzare la scena dell’incidente d’auto finale con un ralenti talmente esasperato che nessuna cinepresa dell’epoca poteva garantirglielo. Ostinato come sempre, si rivolge alla scienza e scova una macchina messa a punto dall’Università di Lipsia per documentare la fusione dei metalli, la Pentazet, a quel tempo l’unica in grado di raggiungere l’incredibile velocità di ripresa di 15/30.000 frame al secondo.
Nella scena, la camera cristallizza nel tempo lo struggente momento dell’impatto a ben 12.000 fps, una velocità talmente elevata da causare lo spostamento della pellicola nello chassis e rivelare, una volta stampata, l’interlinea del fotogramma. Un’imperfezione che ancora oggi, abituati al super-slow-motion da 1.750.000 fps, non influisce sul magico climax della scena2. Nel 2011, la Shameless pensò di festeggiare l’esordio del film in Blu-ray, dopo decenni d’oblio, restaurando arbitrariamente il “difetto” ma i fan non gradirono, ritenendolo filologicamente irrispettoso3 e aprendo di fatto una scottante questione: quanto è lecito (ed etico) manipolare un film per riportarlo a una nuova ma differente integrità tecnica? Quanto si perde del valore dell’opera e di quello che ha rappresentato per lo spettatore?
Un tema che riporta alla mente i ridoppiaggi 5.1 di cult come C’era una volta in America ed ET, ampiamente rifiutati dal pubblico. Insomma, la tecnologia è sempre alleata dell’emozione?
Nel suo primo film americano, Trauma (1993), Argento è tra i primi al mondo a sperimentare l’Edit Droid, pionieristico software di editing su Laser Disc sviluppato da George Lucas, che gli permette di creare molteplici versioni delle scene in tempo reale. La libertà dalle lungaggini della moviola imprimono al film, classico sotto molti aspetti, un ritmo spezzato e cangiante che lo rendono un’esperienza eccitante e intima, ben inserita in una stagione di meditazione profonda, iniziata con Opera, nella quale il regista, pur sapendo di non avere più niente da dimostrare, continua a rischiare sfidando sé stesso e le proprie ossessioni.
Un discorso che si fa bruciante in La sindrome di Stendhal, film in apparenza ancorato al passato, con Rotunno alla fotografia e Morricone alla musica, in realtà più disubbidiente che mai. Dopo un inizio tesissimo, Argento nega la suspense per concentrarsi sulle mutevoli sfumature psicologiche della vittima (interpretata dalla figlia Asia in un ruolo molto cruento per un set di famiglia) e con urgente crudezza sperimenta attorno a lei, su di lei, effetti di computer graphic all’avanguardia (di Stivaletti, trai primi realizzati in Italia) capaci di evocare il suo, e il nostro, inabissarsi nelle opere d’arte come in uno sconvolgente non-luogo freudiano.
Qui e nei film successivi, Argento esprime il febbricitante bisogno di continuare a raccontare sé stesso, “storyboardando” visioni antiche con mezzi e movenze nuove (come gli effetti digitali di Lee Wilson, abituale collaboratore di David Cronenberg, in La terza madre [2007]) e, pure nei suoi film più incerti, sembra dire al pubblico, con la consueta selvaggia libertà, che per comprendere o anche solo continuare a cercare non si può far altro che disubbidire.
Note
1. Kafka Franz, Brief an den Vater (scritta nel 1919, mai spedita, pubblicata postuma la prima volta nel 1952 da Max Brod), Einaudi, 2011.
2. Nel 2020 la Caltech ha messo a punto la CUSP, una cinepresa da 70.000 miliardi di fps, teoricamente capace di catturare il movimento della luce.
3. Le successive edizioni Blu-ray di Koch e Cecchi Gori ripristinarono il finale originale.