Due anni dopo il puro horror di La terza madre (2007), Argento torna al giallo con una produzione internazionale afflitta da vicende travagliate. Il risultato è un film considerato fra i meno riusciti dell’autore, ma che presenta elementi di interesse su cui forse la critica coeva non si è pienamente soffermata. Su tutti il tema del doppio, che aleggia sull’opera sin dal titolo (riconducibile sia al genere, sia al soprannome del killer) e trova declinazione nei due ruoli affidati ad Adrien Brody, interprete sia del detective Avolfi, sia del killer.
«Anche per l’argentiano sfegatato diviene difficile difendere un film come Giallo»1: tuttavia occorre rendere conto, prima ancora dei problemi distributivi (dovuti a contenziosi legali tra Brody, produttori statunitensi e controparti italiane), dei limiti produttivi entro i quali si è mosso Argento già in fase di sceneggiatura. Contattato per dirigere un thriller scritto da Jim Agnew e Sean Keller con possibilità di intervenire (limitatamente) sul copione, a lavorazione in corso l’autore romano si è visto sottrarre il controllo sull’opera e ha dovuto, tra le altre cose, prendere atto di un finale diverso da quello che avrebbe voluto. Detto questo, non si può evitare di imputare ad Argento una confezione «adagiata su standard di maniera da thriller statunitense medio, scandito da linearità di indagine […], artisticamente privo di entusiasmo»2.
Giallo sembra cedere a più compromessi. Nella descrizione del tugurio del serial killer, per esempio, richiama il filone torture porn molto in voga nei primi anni Duemila, per motivi probabilmente commerciali. Inoltre, rinuncia al gusto per le invenzioni visive, appiattito com’è dalle esigenze della committenza. Le peculiarità del cineasta, infatti, più che sul piano estetico si presentano in forma di semplici archetipi richiamati con una certa pigrizia, come il trauma infantile che influenza la condotta dell’assassino in età adulta. Alla fine, il villain di Giallo appare tra i più convenzionali del cinema argentiano e la sospensione dell’incredulità è resa più difficoltosa del solito da una drammaturgia limitata da eccessivi momenti di risacca.
Analizzando le sequenze finali, tuttavia, ci si rende conto di come l’eroe (l’ispettore Avolfi) non trionfi e, al contrario, finisca letteralmente umiliato dagli eventi. Questa notazione rinsalda la tradizionale fascinazione che Argento ha per il Male, la predilezione per una negatività in grado di non uscire mai sconfitta. Mai del tutto. Al tema dell’attrazione per l’oscurità, poi, si lega indissolubilmente quello della duplicità della natura umana: il confine tra figure che incarnano il Bene (nel giallo, l’investigatore) e il Male (il killer) sono porosi e mai scontati, in una deriva noir non banale. Così, quando pone mano alla sceneggiatura – sulla quale, come visto, ha margini limitati d’intervento – Argento si concentra sui due personaggi affidati a Brody, rendendoli complementari.
Tale complementarità allude a una scissione interiore (di entrambi) analoga a quella della vice-ispettore Anna Manni, protagonista di La sindrome di Stendhal (1996). Nel cinema di Argento, del resto, si assiste spesso a un conflitto interno e certamente schizofrenico, consumato sulla soglia della stanza dove dimora il Male (si pensi alla sequenza finale di Suspiria [1977]) e giocato sulla scelta di varcare o meno quella linea di demarcazione.
L’arte argentiana appare da sempre attratta dal Male, inteso come Caos e disordine: lo è sotto il profilo drammaturgico, nelle pieghe ribelli, anarchiche, antiborghesi delle narrazioni; lo è sotto quello stilistico, incline alla sregolatezza e alla contravvenzione delle regole, sin da quelle basilari dei generi (a partire proprio dal giallo) che Argento sistematicamente mina alle fondamenta, con ostentato e quasi programmatico disinteresse per la logica, dominato da un impulso irresistibile e istintivo a trasgredire3.
All’attrazione per il Male si lega poi la pietas, la compassione per il mostro, nutrita tipicamente da figure femminili. In Giallo due donne (la protagonista Linda Jefferson e sua sorella Celine) sono mosse a compassione per Flavio Volpe. Celine, rapita dal killer, è impietosita dalla sua malattia e lo convince a rivolgersi alla sorella per farsi curare. Linda, quando il maniaco è a casa sua, decide di aiutarlo e tenta di metterlo in salvo: a causarne la morte è l’irruzione di Avolfi – uomo e alter ego maschile. Per questa ragione, la donna si scontra apertamente con il detective.
Avolfi è dunque solo un lato di un personaggio che ha due incarnazioni.
L’ispettore, però, si rifiuta di riconoscere in Volpe l’altro Sé (l’altro-da-sé), quello che è finito per marcire. Eppure, la malvagità del killer non deriva dalla propria natura. Non è un’inclinazione, bensì l’effetto collaterale di una sorte sventurata (la deformità, la malattia). «Non potevi fidarti di lui, è un assassino», dice Avolfi a Linda, la quale replica: «Perché, tu cosa sei?». Anche Avolfi, infatti, è stato un killer, quando in passato si è vendicato dell’assassino della madre, e anche se non arriva a essere un mostro come Volpe, è rappresentato come una figura eccentrica nella sua malinconia di fondo. Un uomo che «si è auto-relegato negli scantinati della questura torinese, sorta di novello fantasma dell’Opera, dove prosegue in solitudine e con espressione afflitta le proprie indagini»4.
Con la sua simpatia per i freak, Argento ci ricorda che la distinzione tra Bene e Male non solo è fluida, ma è dovuta spesso a questioni di buona o cattiva sorte. L’etica c’entra poco: questo il messaggio più anarchico dell’autore, che anche un film irrisolto come Giallo conserva nel profondo del proprio cuore nero.
Note
1 Lasagna Roberto, Dario Argento. Le tenebre del mondo, Weird Book, Roma 2021, p. 168.
2 Bartolini Claudio, Il cinema giallo thriller italiano, Gremese, Roma 2017, p. 137.
3 «Il regista non dimentica di fare a pezzi la grammatica del cinema e la sua logica produttiva, difendendo quella scintilla di autorialità che soltanto i più devoti cultori ammetteranno di riconoscere tra le sequenze del suo film», in Lasagna Roberto, op. cit., p. 169.
4 «Avolfi e Giallo, cacciatore e preda, oppressi entrambi dalla memoria del dolore per un’infanzia troncata, si rispecchiano dunque e si equivalgono l’uno “dentro” l’altro, fornendo probabilmente un surplus di senso alla scelta dell’interprete unico per entrambi i ruoli», in Pugliese Roberto, Dario Argento, Il Castoro, Milano 2011, p. 123. Pugliese ricorda inoltre, giustamente, come Giallo sia legato a Masters of Horror. Istinto assassino (2009) dalla scelta di rendere i villains «due “mostri”, due “freaks”, e dunque due emarginati, due perdenti, due oggetti di pietas» (p. 124).
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Jim Agnew, Sean Keller; sceneggiatura: Dario Argento, Jim Agnew, Sean Keller; fotografia: Frederic Fasano; scenografia: Davide Bassan; costumi: Stefania Svizzeretto; montaggio: Roberto Silvi; musiche: Marco Werba; interpreti: Adrien Brody (detective Enzo Avolfi/Flavio Volpe), Emmanuelle Seigner (Linda Jefferson), Elsa Pataky (Celine Jefferson), Robert Miano (ispettore Mori), Daniela Fazzolari (Sophia), Valentina Izumi Cocco (Keiko), Taiyo Yamanouchi (Toshi), Giuseppe Loconsole (macellaio); produzione: Adrien Brody, Rafael Primorac, Richard Rionda Del Castro per Opera Film, Hannibal Pictures; origine: Italia, Stati Uniti, Spagna, Gran Bretagna, 2009; durata: 89’; home video: Blu-ray Dall’Angelo, dvd Dall’Angelo; colonna sonora: inedita.