Il mito dell’allunaggio

Mattia Carbone
America! America? – Sguardi sull’Impero antimoderno n. 6/2014
Il mito dell’allunaggio

Storia e poesia: due campi del sapere e dell’umano apparentemente distinti, eppure così simili. Non è forse la poesia la storia dell’anima dei grandi poeti? La testimonianza, il documento di un vissuto (e quindi profondamente storico) di cui non rimane che la debole traccia d’una parola? I fatti, così come avvenuti, rimangono sempre al di là del documento che li tramanda; il nostro rapporto con ciò che è preterito è garantito soltanto da quelle magre testimonianze che ne hanno voluto lasciare gli spiriti autenticamente storici. Si può essere a un tempo poeti e storiografi? Forse non si può non esserlo. Un poeta, in quanto reca una testimonianza, è storico nella sua essenza, è chiamato a corrispondere al verificarsi della storia in quanto suo osservatore. Non sarà forse “oggettivo”, miraggio di esattezza cartesiana che l’eterno scontro di ideologie e interpretazioni non è ancora riuscito a dissipare da molta storiografia contemporanea, giornalettistica, affamata di verità dure come il marmo. La sua testimonianza vivrà sempre del particolare momento di cui fa parte, e quindi porterà con sé tutte le idiosincrasie, le sviste e i luoghi comuni del proprio tempo – ma anche lo spirito essenziale di quell’epoca.

Il fatto storico, insomma, non è qualcosa sussistente in sé e per sé al di fuori di una cifra, una data, un conto di vittime o di partecipanti: esso è piuttosto il ricettacolo dell’interpretazione che se ne vuol dare all’interno della catena degli eventi, oppure l’oggetto di una trasfigurazione poetica, che di quel fatto vuol svelare la dimensione mitica, la capacità di parlare a chi lo ha vissuto (o a chi ne leggerà) come testimonianza non solo del proprio tempo, ma di ciò che esso testimonia come momento fondamentale della lunghissima storia del genere umano. In ciò consiste il tratto di fondazione della grande poesia di ogni tempo: aprire e consolidare i mondi storici, consegnandoci il complesso di valori e significati su cui si basa la sua autocomprensione.

C’è un fatto della nostra storia contemporanea che, per il suo valore mitico e simbolico, ha impressionato un poeta della nostra tradizione al punto di suggerirgli un poemetto che racchiude in sé le due dimensioni della poesia e della storia, svelandone l’identità originaria. Il poeta è Andrea Zanzotto; il poemetto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal1; l’evento storico, lo sbarco degli astronauti americani sul suolo lunare del 20 luglio 1969.

Di fronte al valore simbolico di un evento, la domanda sulla sua verità fattuale – se si sia cioè verificato o meno – è oziosa. Vale per sempre il detto di Jung su Dio, della cui realtà metafisica non si può dire nulla ma la cui influenza simbolica e culturale ha un effetto di verità che prescinde completamente dalla sua esistenza2. Inutile, quindi, tutta la polemica sulla presunta truffa del Governo americano ai danni dei poveri creduloni del ’69 e di oggi (ancora convinti che la bandiera americana possa sventolare su una Luna priva di atmosfera o non gettare ombra sul suolo, dal momento che è stata “incollata” sui fotogrammi da un maldestro fotomontatore d’antan). Che sia successo o meno, l’uomo ha toccato la Luna il 20 luglio 1969. O meglio, un suo rappresentante, dalla nazionalità ben definita: un americano.

C’è una logica in questo: che la Luna sia stata visitata per la prima volta nel XX secolo, mezzogiorno splendente dell’età della tecnica, atto a produrre i mezzi necessari; che ne siano gli Stati Uniti, i padroni incondizionati del Secolo, i responsabili. In un certo senso, anche Zanzotto, quando scrive Gli Sguardi, percepisce e trasmette questa necessità, pur restando fermo su una posizione totalmente negativa nei confronti del “fatto” (nome dato all’allunaggio in diversi momenti del poemetto). Sì, perché il “fatto”, al di là della vuota retorica di cui è stato reso oggetto, è percepito dalla sua sensibilità poetica nei termini di una “profanazione” e un “ferimento”.

Lasciamo parlare il poeta: «Il ferimento del mito originario lunare (cioè di Diana) non è solo il ferimento di un qualche cosa che è sepolto nel profondo dell’uomo e che riappare come trascendenza-lontananza – un punto di fuga cui bisogna approssimarsi – ma è anche, nella realtà attuale, la distruzione capillare dei tessuti psichici che hanno retto l’umano per decine di millenni»3. All’evento dell’allunaggio è attribuita una valenza negativa, in quanto simbolo del destino di profanazione della sfera del sacro e del trascendente che nel Novecento ipertecnicizzato raggiunge il suo culmine: lo shuttle atterrato sul suolo lunare è trasfigurato in un coltello affondato da mani assassine nell’«immenso corpo di bellezza» dell’astro e l’annuncio di questa dissacrazione è dato, ironicamente, dai «filmcroste in moda» e i «fumetti in ik», prodotti filmici e fumettistici di una sottocultura che ha perso totalmente la dimensione sacrale e mitica; il sangue diviene immagine di un ferimento, atto di violazione (anche, metaforicamente, sessuale) da parte del genere umano il quale, guidato da un’ansia di ricongiungimento male interpretata e male assecondata, finisce per annullare in un solo colpo quella distanza che era garanzia del valore simbolico della Luna, punto di fuga dell’attività mitica e simbolica. In questo senso, il “piccolo passo per l’uomo” è un avvenimento epocale: rappresenta esemplarmente la fine del genio mitologico-simbolico e sancisce il suo definitivo trapasso nel mondo polveroso e asettico della tecnica.

Eppure, in un altro passo, Zanzotto parla dell’allunaggio come di un evento «abbastanza banale». Per quale motivo? «In primo luogo perché non ha motivazioni che non siano banali, e queste motivazioni consistono soprattutto nella lotta di prestigio tra le due superpotenze (o meglio superimpotenze) che, in margine all’elaborazione di un programma missilistico per distruggersi a vicenda, mettono a punto anche il razzo per andare sulla Luna. Siamo di fronte a un sottoprodotto delle “macchine” atomiche le quali, nel loro tentativo di distruggersi a vicenda, scoprono anche momenti di pausa in cui elaborare qualcosa di assolutamente inutile, come appunto la conquista della Luna»4. Con un’acutezza degna del suo occhio storico, Zanzotto contestualizza il “grande passo per l’umanità” nella logica del conflitto di prestigio e potenza tra Russia e Stati Uniti durante la Guerra Fredda: nulla più che un inutile trofeo, una vittoria simbolica sul nemico che non avrebbe portato alcun vantaggio, nemmeno in termini scientifici5. È una contraddizione: se l’allunaggio è inteso come ultimo atto del lento processo di decomposizione del mito, d’altra parte vediamo che esso si presenta a sua volta come un atto simbolico assolutamente svincolato da un profitto o un progetto di funzionalità tecnica, ma dettato da un ultimo fremito di vita mitica nel corpo esanime dell’uomo tecnicizzato del Novecento. Anche la denuncia di questa contraddizione si percepisce nelle parole di Zanzotto: «In realtà, nella conquista della Luna, si è rivolto un inchino, non sappiamo se più idiota o astuto, al precipitato mito antichissimo, alla Luna come emblema dell’irraggiungibile, punto di luce dell’assoluto, test di ciò che sta di fronte all’umano, quasi immagine stessa della trascendenza. Si sa che nella fantasia collettiva di pressoché tutti i popoli questo fantasma di trascendenza, di irraggiungibilità, è molto spesso raffigurato appunto nella Luna, nell’emblematicità della Luna. Chi avesse, pertanto, toccato la Luna, si sarebbe aggiudicato il titolo di un’“assoluta” supremazia. È dunque un caso di dissacrazione funzionalizzata, che ha in sé tutti i tratti più ripugnanti (banali) della realtà odierna»6.

Molto interessante risulta l’espressione utilizzata per riassumere le considerazioni sull’allunaggio: dissacrazione funzionalizzata. Questa nozione ha molto in comune con il concetto kerenyiano di mito tecnicizzato: esso non scaturisce dal movimento simbolico originario (di carattere collettivo e spontaneo) che presiede alla formazione dei mitologemi genuini, ma è confezionato ad hoc, quasi riprodotto in provetta da una ristretta comunità (per lo più politica) che se ne serve per il conseguimento di propri fini, sfruttando l’innato potere del simbolo per convincere il maggior numero di persone della felicità dei suoi propositi7. Un mito, insomma, che non scaturisce – prendendo a prestito le parole di Zanzotto – dai «tessuti psichici che hanno retto l’umano per migliaia di anni» ma è piuttosto un traviamento simbolico, una dissacrazione funzionalizzata: un pervertimento finalizzato, appunto, al conseguimento di determinati scopi, quali ad esempio la supremazia sul nemico sovietico. Kerényi parlava, in quegli anni, da studioso di mitologia in un mondo vessato dalla retorica pseudo-mitologica dei totalitarismi, rappresentanti per eccellenza di quella pratica di riesumazioni forzate di miti defunti (dissacrazioni, diremmo, funzionalizzate), rimessi a nuovo da un velo di belletto retorico per ergersi a stendardi di una presunta rinascita del genere umano, condotta all’insegna della sopraffazione e della distruzione.

È con una certa inquietudine che si rileggono, ora, le parole di uno Zanzotto critico della cultura e della civiltà, che presenta il faccione amichevole dello Zio Sam sotto una nuova luce, quella di un potere ubriaco di sé che, nella magrezza dei tempi, sfrutta l’innata forza dei miti per affermare la propria supremazia sul nemico, calpestando senza pudore i recinti del sacro e del simbolo, dissacrandoli e funzionalizzandoli a proprio piacimento, per la gloria di un altro mito, del tutto nuovo stavolta: quello americano, fatto di vittorie disseminate lungo tutto il sentiero del Secolo, miraggi di benessere e ansie da accerchiamento che denunciano una debolezza congenita.

A quel seme di cattivo irrazionalismo che giace al fondo di qualsiasi pervertimento della natura originaria del mito, spontanea e collettiva, Zanzotto risponde con una preghiera consapevolmente utopica, forse un poco ingenua, ma sincera: «Se in un mondo già molto migliore del presente, con squilibri molto più ridotti, si fosse anche poeticamente messo a punto un programma spaziale, la cosa sarebbe stata bellissima, vorrei dire religiosa, un vero atto di culto, non solo lunare»8.

La realtà moderna è però ben diversa, e Zanzotto ne è consapevole. Questo evento storico, banale o eccezionale che dir si voglia, che del mito e del sacro conserva solo una traccia sbiadita, può tuttavia riscattare la propria tremenda povertà grazie alla poesia: sarà il poeta a scoprire, sotto la patina delle opinioni, dei filmati di consumo e del chiacchiericcio multimediale, il vero significato storico dell’allunaggio: il destino di annientamento del mito e del simbolo nell’età della tecnica.

Come precisa lo stesso Zanzotto, un discorso – poetico – che voglia fissare gli elementi della profanazione e della dissoluzione del mito non può presentarsi altrimenti che disgregato, frammentario, in modo che la forma divenga immagine della verità che si vuole mostrare. E l’architettura formale de Gli Sguardi è infatti articolata in quarantanove voci, segnate da trattini e divise in lasse di varia misura, che dialogano con una voce centrale e stabile (la cui presenza è segnalata da virgolette supplementari) che riferisce il punto di vista dell’istanza lunare profanata. Ma il discorso poetico, costitutivamente disgregato9, non vuole cristallizzare in forme fisse i personaggi e gli attori della sua messinscena: esso lascia piuttosto alle figure che impiega una generale indeterminazione, un’apertura di senso che mima (o tenta di farlo) la costitutiva vaghezza del simbolo; la voce centrale non sarà quindi solo l’istanza lunare, o una sua prosopopea, ma anche, di volta in volta, il Femminino, l’ordine semiotico del linguaggio, il deposito inconscio delle proiezioni delle migliaia di esseri umani che, secondo Zanzotto, fin dalla notte dei tempi rivolgono alla Luna le proprie preghiere, proiezioni di desideri più o meno consci; non da ultimo, essa viene identificata con la parola, che nasce dall’incontro tra l’inconscio del poeta e il dettaglio centrale della prima tavola del test di Rorschach, come in una seduta di psicoanalisi. Con geniale artificio, Zanzotto assimila e sovrappone due luoghi simbolici dell’umano: il primo, la Luna, oggetto del discorso culturale e simbolico, che raccoglie in sé le interpretazioni e i miti di cui la cultura millenaria dell’uomo le ha fatto dono; il secondo, la macchia del Rorschach, luogo del discorso individuale e semiotico, pozzanghera informe nella quale si riversano le proiezioni e i desideri dell’inconscio dei singoli umani sottoposti a terapia; tuttavia, dalla sovrapposizione di questi due elementi riesce una sentenza storica sulla vera natura del mito, il quale, sulla scia di Carl Gustav Jung e di Károly Kerényi, è presentato come formazione simbolica condivisa, unanimemente riconosciuta, originata dai movimenti sotterranei e proteiformi di una psiche individuale che trabocca irresistibilmente nella collettività. In questo senso, si capisce un po’ meglio perché l’allunaggio americano rappresenti «la distruzione capillare dei tessuti psichici che hanno retto l’umano per decine di millenni»: sedimentazioni di proiezioni psichiche originarie, i simboli della cultura franano, trascinando via l’inconscio collettivo, in una gigantesca slavina di senso.

L’America è solo l’ennesimo attore di questa riesumazione in vitro del fantasma sbiadito del mito. Il poeta, dal canto suo, ci comunica questa verità scommettendo proprio su una nuova narrazione, quella della Luna vittima della violazione da parte delle superimpotenze del XX secolo, Diana stuprata dagli astronauti in una squallida orgia spaziale; può essere, questo, un tentativo di rifondare il mito, a mezzo di una poesia che significhi questa violazione per mezzo di un simbolo e di un racconto, quello del razzo che penetra nel corpo della Luna: un mito della Volontà di Potenza, della Guerra Fredda e, in ultima istanza, del destino di annientamento della mitografia stessa. La contraddizione è feconda: da una parte ci avvisa del rischio, dall’altra ci consegna la speranza che, pure in forma marginale, come disciplina poco più che individuale (il poemetto fu pubblicato in cinquanta copie in una tipografia di paese), la religione mitica dell’uomo possa sopravvivere alla povertà dei tempi. Intanto, la poesia scommette su se stessa come testimonianza autenticamente storica, trasmettendo un nuovo complesso di valori grazie ai quali possiamo guardare al nostro tempo come all’epoca del tramonto del mito: è in ciò che consiste il tratto di fondazione di tutta la grande poesia.

 

  1. Andrea Zanzotto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal, tip. Bernardi, Pieve di Soligo 1969, ora in Poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999. Si noti che la pubblicazione del poemetto avvenne lo stesso anno dell’allunaggio.
  2. Concetto che si può riassumere in una boutade dello stesso Jung (Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 39): «L’idea di “energia” è sì, ammettiamolo pure, un mero concetto verbale, ma è così straordinariamente reale che la società per azioni di una centrale elettrica ne paga i dividendi».
  3. Poesie e prose scelte, cit., p. 1531. Questo brano e i successivi sono tratti da una conferenza sul poemetto che il poeta tenne nel 1973 a Ivrea assieme all’amico e critico Stefano Agosti.
  4. Ibidem.
  5. «E così minima la refurtiva, e poi subito persa», recita uno degli ultimi versi del poemetto: la refurtiva è appunto lo scarso bottino di frammenti di roccia lunare che gli astronauti riportarono dal viaggio per i ricercatori.
  6. Ibidem.
  7. Cfr. Károly Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti del colloquio internazionale su “Tecnica e casistica”, Roma 1964; Furio Jesi, Mito e linguaggio della collettività, in Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968; Joseph Campbell, Le figure del mito, Red, Como 2002; Carl Gustav Jung, Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri, Torino 2012; Mircea Eliade, Mito e realtà, Borla, Roma 2007.
  8. Poesie e prose scelte, cit., p. 1531.
  9. La rinuncia alla comunicatività in senso stretto e al complesso dei luoghi comuni che assicurano la trasmissione dei messaggi tra i parlanti implica necessariamente un risvolto di “debolezza” della voce poetica: la parola di Zanzotto, persa nella confusione di uno smottamento magmatico della lingua, risuona come un’eco dal fondo di una valle, lontana e fioca. Sia il senso sia il significato non sono presi in carico da una voce che si finge forte e roboante, ma emergono dalla rovina del discorso comunemente inteso, la quale è, a un tempo, il veicolo e il contenuto del messaggio dell’autore. Una dicitura quale poesia debole, vista la temperie culturale di un Paese e di un’epoca, che non è forse del tutto impropria.

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