Edward Hopper: l’ultimo dei puritani

Ilaria Floreano
America! America? – Sguardi sull’Impero antimoderno n. 6/2014
Edward Hopper: l’ultimo dei puritani

Fisicamente, «Edward Hopper sembra fatto per il mito, come Lincoln: testa magnifica, ampiamente e superbamente calva, quasi geologicamente sopravvissuta. Occhi azzurri fermi e profondi, che ti fissano volentieri, salvo scivolare via dopo aver raccolto le informazioni necessarie. Bocca vasta e generosa, unita a un naso tondo da due pieghe profonde e mobili. Guance quadrate chiuse su un mento quadrato e ben definito». Così il critico e amico Brian O’Doherty descrive l’artista, nato il 22 luglio 1882 a Nyack, sul fiume Hudson, da Garret ed Elizabeth – rispettivamente un commerciante di origine olandese, letterato frustrato e amante di Michel de Montaigne, e una gentildonna borghese e battista di ascendenze francesi, padrona di casa autorevole e autoritaria. Edward Hopper è, in effetti, morfologicamente americano. Generato da un mescolamento di razze e culture, silenzioso e massiccio come le rocce del Grand Canyon, capace di silenzi monumentali, amante fedelissimo della luce netta e abbagliante che inonda i vasti orizzonti di Cape Cod, Hopper è anche il creatore inconsapevole di quei “luoghi comuni” dell’americanità che a lui, ineluttabilmente, vengono ascritti – la stazione di benzina, la sala cinematografica, il locale notturno, il motel, la casa neovittoriana, la strada che si perde nell’infinito o in una selva oscura. E che altri artisti (pittori, fumettisti), ma soprattutto il cinema, insieme o dopo di lui, hanno contribuito ulteriormente, alacremente, a volte inconsciamente, a rendere icone. L’America è una costruzione culturale recente, i cui miti non hanno radici profonde come quelli europei. E, una volta liberatasi dall’influenza di Madre Europa – con fatica, impeto guerresco e risultati non sempre apprezzabili –, deve ricostruire il proprio immaginario collettivo, darsi un’identità che abbia un impatto degno del suo incalzante sviluppo economico. Lo fa attraverso i mezzi che le sono più congeniali, oppure che più si distinguono da quelli utilizzati nel vecchio continente o ancora – nel caso siano i medesimi (come pittura e letteratura) – che hanno una marcata impronta di originalità. Ecco allora che gli scrittori inventano un nuovo modo di scrivere; il cinema si impone nel dettare simboli, ricorrenze e filosofie (la frontiera, il self made man o l’eroe solitario); la pittura cerca nuovi soggetti, trovandoli nelle luci dei parchi di divertimento, negli incontri di boxe, nei grattacieli, vale a dire in tutte quelle espressioni della volontà di potenza su cui l’inconscio collettivo americano ha basato la sua fortuna. La straordinarietà di Hopper – ciò che, di fatto, lo rende l’artista americano più famoso insieme a Pollock e Wahrol – sta nell’aver ignorato i sintagmi più espliciti della modernità americana e di averne sviluppati altri che, pur impliciti – o forse proprio in quanto tali – hanno un portato simbolico mastodontico (proprio come il Grand Canyon o i silenzi dell’artista). D’altra parte, cosa rappresentano le coppie non comunicanti, le stazioni di benzina vuote e le strade senza fine se non la sublime solitarietà dell’uomo moderno americano, e il suo inesauribile anelito all’orizzonte?

Hopper scopre intorno ai dodici anni la propria vocazione artistica, dopo una breve parentesi in cui ha sognato di diventare architetto navale e costruire quelle barche che, per anni, ha osservato scorrere lungo il fiume davanti alla casa (neovittoriana) in cui è nato. I genitori gli regalano un album da disegno, lo iscrivono a una scuola d’illustrazione, assecondano la sua ambizione figurativa e gli permettono di studiare alla New York School of Art, dove Edward rimane per sei anni e in cui tiene anche qualche lezione.

La New York di inizio Novecento è un ribollire di tensioni contrapposte da cui scaturiscono, imperiosi, svariati sintagmi della modernità: gli automat, dov’è possibile acquistare una fetta di dolce e un caffè servendosi da distributori automatici; la metropolitana che sfreccia sottoterra o in aria; quei grattacieli che, come tanti spilli conficcati in un cuscinetto, scandiscono l’orizzonte visibile dal traghetto sorgendo sulle rovine di antiche case abbattute, senza che nemmeno una targa ricordi il caso accidentale che tra quelle mura ha fatto talvolta nascere personaggi di qualche rilievo politico e/o culturale. Ma di grattacieli, nei dipinti di Hopper, non c’è traccia – laddove appaiono, non sono che macchie scure interrotte che tutt’al più incombono minacciose o fanno ombra.

L’artista vive in un appartamento, che raggiunge dopo aver percorso a piedi settantaquattro scalini, nel Greenwich Village, in Washington North Square, con il bagno in comune e riscaldato soltanto da una stufa panciuta. Ci resterà per tutta la vita, evitando la mondanità promiscua del quartiere degli artisti, preferendo la lettura di Gide accanto alla finestra, ignorando le richieste della moglie Jo (sposata all’alba dei quarantun anni) di migliorare, almeno un poco, il comfort casalingo. Consuma molti pasti negli antenati dei fast-food (preferendo su tutti quelli di chop suey) e trascorre gran parte del proprio tempo libero al cinema. Eppure, si rapporta alla modernità limitandosi a sfruttarne alcuni prodotti, per trovare l’ispirazione con cui dipingere quadri che solo superficialmente possiamo definire nostalgici. In essi riecheggia un’America perduta, nascosta dietro la narrazione degli effetti che la vita moderna ha prodotto. È un’America radicata sotto l’House by the Railroad tranciata di netto dal binario della ferrovia, oppure naturale, nei ritratti di fari e abitazioni sull’oceano, sensuale, tra le tende leggermente mosse dal vento, e spirituale, nel raggio di luce che colpisce una donna seduta sul letto, come fosse un’epifania. Quando ad apparire è invece l’America in cui Hopper studia, lavora e cerca affannosamente l’ispirazione, è aerea, selvaggiamente urbanizzata, parca di incontri e contatti, già tendente a un consumismo sia pratico sia sentimentale. Questa natura bifronte, squisitamente statunitense, dà origine a concentrati di modernità in forma di metropoli avanzate in grado di dettare ritmi e destini in tutto il mondo e, contemporaneamente, si perde nella vastità di territori che rimangono non-conquistati (ma pur sempre conquistabili). Hopper è ugualmente bifronte e, anche per questo, la sua opera diventa paradigmatica ed emblematica.

Frugale per necessità, prima, e per scelta, poi, Hopper è un appassionato francofilo: tra il 1906 e il 1910 trascorre diversi mesi a Parigi, dove affitta un appartamento dietro il Musée d’Orsay e studia gli impressionisti. Della ville lumière, della sua libertà intellettuale e sessuale e della sua influenza artistica, Hopper si libererà a fatica solo dieci anni dopo, quando accetterà la necessità (concreta e concettuale) di rinunciare alle pennellate brevi e frenetiche, agli effetti cromatici, alla ricerca dell’istantaneità caratteristici di Monet e compagni, per trovare un proprio territorio d’elezione – prettamente americano. Questo chiedeva la critica newyorkese, che impiegherà anni a riconoscere il valore del pittore, apprezzato a lungo solo come illustratore (ironia della sorte, vista l’esclusiva qualità alimentare di tale attività).

La Francia è come una donna, amata troppo e senza reciprocità – l’artista la lascia per l’America, meno incantevole, forse, ma più solida e disponibile. Hopper diventa Hopper quando la sua volontà semplice di «dipingere la luce del sole sulla parete di una casa» lo conduce a eleggere soggetti pittorici che la critica e il pubblico casalingo sentono particolarmente vicini: siano i paesaggi di spiaggia, rocce e oceani di Gloucester, Provincetown e Truro (dove negli anni Trenta gli Hopper si costruiscono una casa in legno), oppure i campioni dell’umanità metropolitana, cioè coniugi immersi nei propri pensieri, maschere del cinema, donne solitarie, commessi di bar.

Lo sguardo dell’artista è in movimento: Hopper resta spesso inattivo tra un quadro e l’altro, l’ispirazione è per lui una musa capricciosa che lo abbandona e si fa inseguire a lungo. Il pittore la ritrova passeggiando lungo avenues e streets, guardando decine di film al mese, viaggiando in treno e in metropolitana.

Osservare la città dietro un finestrino, a velocità sostenuta, o vederla riprodotta su un grande schermo lo conduce a inquadrare la realtà in un modo particolare, che diventerà la sua cifra stilistica. I suoi dipinti appaiono spesso come il risultato dello sguardo indiscreto di un voyeur, capace di cogliere al volo una situazione intima, che dovrebbe essergli preclusa ma che la modernità, coi suoi mezzi, gli rende al contrario accessibile. Uno sguardo strutturalmente moderno, che si traduce nella critica (polemica o ironica) di ciò che la modernità implica.

Potremmo definire i quadri di Hopper come scatti rubati: Hopper non è, in verità, un amante della fotografia praticata, ma conosce e apprezza l’opera di Eugène Atget e Matthew B. Brady – non a caso, particolarmente attratti dagli spazi urbanizzati. La qualità fotografica delle sue creazioni, conferita dagli strumenti tipici della pittura – taglio, colore – è peraltro uno dei motivi principali della persistente attrazione di molti registi verso il corpus pittorico hopperiano.

Il bisogno di privacy e la sua progressiva perdita, tratti specifici dell’artista, sono una condizione esistenziale e un dato sociologico su cui meditare: discreto fino a essere scorbutico, Hopper vive in una città la cui vocazione primaria è essere visibile e rendere visibili. Nel 1927, questa opposizione si traduce in un quadro, Automat, in cui una donna siede al tavolo con una tazza di caffè davanti e un muro di buio alle spalle. Dovrebbe essere una vetrina e riflettere l’interno del locale, invece è solo uno schermo nero punteggiato di globi bianchi: sono le plafoniere appese al soffitto, o più probabilmente i pensieri vuoti della donna ritratta. In quel buio profondo si nascondono gli occhi della città – eppure, la protagonista è vista dall’interno, inconsapevole di essere osservata. Nel 1942, Hopper realizza invece Nighthawks, forse il suo quadro più celebre, nel quale la prospettiva è ribaltata: vediamo quattro individui all’interno di un bar, di notte, come fossero in un acquario. Sono sempre inconsapevoli dello sguardo della città, ma ritratti dall’esterno dentro uno spazio ben illuminato, che ne mostra relazioni (possibili) e alienazione (conclamata).

Alienazione: il risultato della modernità per antonomasia, la caratteristica principale dei suoi protagonisti, la condanna che gli intellettuali europei dell’Ottocento sfuggivano, rifugiandosi in “torri d’avorio” arredate come nel Medioevo e la cui onda lunga negli Stati Uniti diventa dato esistenziale ineluttabile. Abitanti conformati di spazi ristretti, gestibili e familiari si ritrovano scaraventati nel ruolo di cittadini all’interno di una metropoli sempre più estesa, in orizzontale e in verticale, tentacolare e complessa, in cui a milioni ci si contende lo spazio, il lavoro e i sentimenti. Il tempo è ridotto a merce di scambio, il pericolo si annida nell’ombra, sfuggita all’illuminazione elettrica. Hopper stende ampie pennellate che oppongono la luce artificiale al buio, i suoi personaggi sono quasi sempre donne sole o coppie che non comunicano, in non-luoghi che presuppongono una temporaneità ineluttabile: il teatro, la hall o la stanza di un albergo. Inevitabile che la critica lo etichetti come cantore della solitudine moderna e che il noir, il genere cinematografico che più di ogni altro propone il tema dell’alienazione (a livello di sceneggiatura, messa in scena e messa in quadro), peschi a piene mani dal repertorio hopperiano quando si tratta di definire scenografie (un esempio per tutti: la stazione di benzina gestita da Burt Lancaster, nell’incipit de I gangsters di Robert Siodmak del 1946, è un palese omaggio all’opera Gas, del 1941).

Sarebbe però scorretto intendere l’alienazione hopperiana come esclusivo risultato della sua scelta iconografica. È vero anzi che il senso di tale alienazione risiede nell’effetto di Unheimlichkeit – quel senso cioè di estraneità di cui all’improvviso si ammanta ciò che fino a un attimo prima era un oggetto mite e conosciuto – che il pittore negli anni sviluppa, elaborando una poetica del tutto personale.

Facciamo un passo indietro. Hopper viene ascritto dalla critica a lui coeva e successiva al filone del realismo: erede di Thomas Eakins e Winslow Homer, padri dell’arte figurativa americana, l’artista dipinge, in effetti, situazioni assai realistiche. Con l’avvento dell’astrattismo capitanato da Jackson Pollock, la sua scelta di campo appare evidente, dal punto di vista sia “politico” sia strettamente artistico. Mentre Pollock aderisce al Federal Art Project, promosso nel 1935 dal presidente Franklin Delano Roosevelt a sostegno degli artisti americani, Hopper si rifiuta strenuamente di chiedere un sussidio al proprio Paese, e in particolare a un presidente di cui non condivide l’orientamento, preferendo affrontare da sé la crisi e criticando in cuor suo chi fa il contrario. Mentre Pollock inventa la tecnica del Dripping e l’Action Painting, portando alle estreme conseguenze i germi delle avanguardie astrattiste europee (le quali, contaminandosi con le istanze statunitensi e non controllate da una classe intellettuale allenata, generano prodotti abnormi, atletici, super-omistici), Hopper si rinserra nelle proprie posizioni di realista, partecipando attivamente alla nascita e allo sviluppo della rivista Reality e ribadendo in più occasioni – venendo meno a una sua legge, non scritta, per cui di pittura si parla poco e si scrive ancor meno – il disprezzo nei confronti della tecnica astrattista, che considera essenzialmente come mera decorazione. L’arte per l’arte condurrebbe a un suo depotenziamento, ossessionato dall’originalità e scevro di personalità, mentre il vero artista deve “limitarsi” a tradurre la propria reazione (fisica ed emotiva) ai fenomeni naturali – di nuovo la luce, netta e implacabile, che scandisce e definisce l’orizzonte americano, e la scelta di titolare quasi sempre le opere con un momento del giorno e/o orario e luogo (Seven AM, Dawn in Pennsylvania, Morning in a City).

In realtà, il super-realista Hopper giungerà a realizzare quadri composti di rettangoli e quadrati (Sun in an Empty Room) e forse tra lui e Pollock la distanza è meno abissale di quanto si possa pensare – tanto che qualcuno li considera gli assi cartesiani dell’arte americana. Questo perché i suoi quadri, pur squisitamente realistici, creano nello spettatore quel senso di inquietudine ed estraneità a cui si accennava prima. C’è quasi sempre qualcosa che non torna, nelle opere di Hopper: sia il colore usato per dipingere le gote della donna, eccessivamente bianco, come fosse il cerone di un clown, o l’incombere impertinente di foreste scure su strade e case che sembrano sul punto di essere inghiottite, o anche il fatto che un negozio non abbia oggetti esposti, che presso una stazione di benzina non ci siano automobili, che in un quadro intitolato come la marca di un’automobile non ci siano auto, che in un altro, ambientato in un cinema, non si vedano lo schermo né tanto meno il film proiettato.

La modernità, imprescindibile, viene osteggiata: il suo essere ontologicamente deviata viene tradotto dall’artista di Nyack, ad esempio, attraverso l’uso di una prospettiva aberrante o diagonali secche e incongrue che indirizzano, sottilmente ma inesorabilmente, lo sguardo dello spettatore proprio dentro la foresta oscura, oppure a ridosso del soggetto ritratto. Guardando un suo quadro si ha la sensazione di essere in bilico, collocati a forza in una posizione non equilibrata da cui si potrebbe scivolare in ogni istante, di essere talvolta oppressi da soffitti e pareti meno dritti di quanto dovrebbero, sfiorati da un vento che spira continuamente portando con sé chissà quali miasmi, segreti o intuizioni (positive o negative?). Sopra ogni altra, si prova la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere o, più probabilmente, sia appena avvenuto: dalla stazione vuota potrebbe essere or ora schizzata via l’automobile di due rapinatori, addentratisi nella selva per sfuggire alla polizia che li insegue. I falchi della notte, l’uomo e la donna seduti vicini al bancone del bar, potrebbero avere ancora le mani macchiate del sangue di un omicidio.

È per questa sua qualità narrativa, intrinseca e non ricercata, che Hopper ha suscitato ammirazione ed emulazione in molti registi: i suoi quadri, istanti congelati, contengono migliaia di possibili evoluzioni – le quali, tendenzialmente, provengono o conducono a uno squilibrio. Perché l’Unheimlichkeit del contesto lo impone. Perché la metropoli nasconde troppi pericoli. Perché l’America si è liberata dal giogo materno dell’Europa preferendo l’hybris e l’effimero. Perché la modernità sancisce la fine della possibilità, per l’ultimo dei puritani, di un lavoro su di sé lento e pacifico. Per questo, è più facile pensare che dietro alla vetrina vuota si stia consumando una colluttazione seguita a un tentativo di furto, o che la donna che fuma davanti alla finestra stia elaborando un piano per scappare da un amante manesco.

Per Wim Wenders, il regista tedesco che più di ogni altro si è lasciato affascinare da Hopper e al quale ha dedicato omaggi espliciti e dichiarati (al contrario di Hitchcock, che a lui ha ugualmente guardato, senza mai ammetterlo apertamente), se si torna a osservare un quadro di Hopper a distanza di qualche minuto sembra che le cose si siano leggermente spostate. È come se nel quadro fosse latente un ladro nascosto, che, tentando di scappare dallo spettatore, rientrato troppo presto, si muovesse appena gli voltiamo le spalle, e così facendo spostasse gli oggetti della nostra stanza.

La modernità, secondo Edward Hopper.

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