«Dovevi tirare». Valentino Mazzola scosse il capo e, rivolto a Gabetto, commentò: «Eri in una posizione migliore della mia».
«Ma con Fernandes e Felix addosso. No… dovevi tirare. Avremmo pareggiato».
«Se tiro mi dici che avrei dovuto passare, se passo mi dici che avrei dovuto tirare. Una cosa giusta la faccio qualche volta, secondo te?».
L’amico attaccante sorrise: «Qualche volta…».
Mazzola fece l’atto di menarlo e Gabetto chiese aiuto scappando via, facendo scoppiare a ridere Bacigalupo, Agnisetta e Tosatti, che stavano seguendo la conversazione.
L’aereo ebbe un sobbalzo, riportando il silenzio tutt’intorno.
«Com’è il tempo là fuori?».
Egri Erbstein non aveva staccato gli occhi dal finestrino quasi dalla partenza. Da buon ungherese voleva avere tutto sotto controllo, come faceva con il suo Torino da quando aveva affiancato Lievesley: «Non si vede nulla. C’è un tempaccio che non ricordo d’aver mai visto neanche in Ungheria».
Ancora uno scossone, ma il trimotore Fiat G.212 della Avio Linee Italiane era assolutamente affidabile. Il rumore dei motori era regolare, si percepiva senza incertezze.
«Sarebbe stato meglio partire domani». Il giovane centrocampista Fadini era un po’ pallido. Aveva espresso lo stesso pensiero che vorticava nella mente della maggior parte dei passeggeri.
«Tranquillo. L’aereo è ottimo e il tenente colonnello Maroni è uno dei migliori piloti, ho volato altre volte con lui». Come sempre, Bonaiuti li calmò.
«O, forse, sarebbe stato meglio disputare la partita di beneficenza col Benfica alla fine del campionato».
«Francisco Ferreira aveva bisogno di un aiuto economico subito, non alla fine del campionato».
Uno scossone più forte rimise tutti a tacere all’interno della fusoliera.
«Questo è stato forte…».
«Signori, per cortesia, tornate ai vostri posti». L’hostess Celeste d’Inca aveva, come sempre, il sorriso rassicurante e la voce calma: «Stiamo per atterrare».
«In fretta…» mormorò qualcuno dietro.
Fu in quel preciso momento che videro un lampo e udirono un rumore fortissimo.
Qualcuno si lasciò sfuggire un piccolo grido per la sorpresa, qualcun altro borbottò un’imprecazione tra i denti.
Fu Operto a chiedere: «Cos’è stato?».
Ancora Bonaiuti: «Un lampo e un rumore forte. Non vi viene in mente nulla?» ironizzò. «Siamo in pieno temporale, immersi nelle nuvole, e vi sorprendono un lampo e un tuono».
«Era vicinissimo».
«Pessima mira, il nostro Giove pluvio».
Nessuno rise. Il rumore dei motori non sempre riusciva a coprire lo scrosciare battente della pioggia.
«Che ora è?».
«Le diciassette e tre minuti».
«Dovevamo essere già atterrati».
«Sarebbe stato meglio fermarsi a Barcellona e aspettare che il tempo migliorasse».
«Quanto manca?».
L’hostess non aveva più la voce tanto ferma: «Ora chiedo al pilota».
Lasciò il suo strapuntino e aprì la porta che portava alla cabina di guida.
Il suo urlo diede i brividi a tutti.
Mazzola sganciò la cintura e la raggiunse. Guardò oltre la porta. Non urlò, ma spalancò la bocca e restò immobile a fissare…
La cabina di pilotaggio e il motore anteriore non c’erano più. C’era soltanto il vuoto, riempito dalle nuvole e dalla pioggia che il libeccio faceva vorticare e che sferzò i due, quasi fosse un antico flagello. Erano ammutoliti, come altri passeggeri sopraggiunti alle loro spalle.
«Ma che diavolo…».
Celeste d’Inca fece l’unica cosa giusta da fare in quel frangente. Richiuse la porta e si girò: «È… tutto a posto».
«Ma che dice…».
«È… è una allucinazione… non può essere altro».
«Allucinazione? L’abbiamo visto tutti che non c’è più la cabina di pilotaggio» bofonchiò Casalbore che, da quando faceva il giornalista, ne aveva viste di cose strane, ma mai come quella. «E siamo anche zuppi di pioggia».
«Calma» mormorò questa volta con voce ferma l’hostess, «calma. Se fossimo davvero senza cabina di pilotaggio staremmo precipitando».
«Precipitando?» fece una voce da dietro il gruppetto.
«E chi le dice che non stiamo precipitando?».
«Precipitando?» ripeté la stessa voce poco lontano, sempre più agitata.
«L’aereo viaggia regolarmente, siamo in perfetto assetto, ve ne rendete conto anche voi. I motori rombano senza incertezze».
«Manca il motore centrale. E, soprattutto, i piloti non ci sono più».
«L’aereo è in grado di volare anche con due motori».
«E senza piloti?» insisté Casalbore.
Quasi tutti si erano alzati dai loro posti e avevano raggiunto il gruppo in prossimità della carlinga.
«Cosa sta accadendo?».
«Non lo so» ammise quasi dolorosamente l’hostess. «Ma vi prego di tornare ai vostri posti» aggiunse con decisione.
«Ho sentito una parola che non mi piace per nulla… precipitando. E dovremmo sederci come se nulla fosse?».
«In piedi o seduti, non farebbe differenza se davvero stessimo precipitando. Eppure non stiamo cadendo». La ragazza era davvero in gamba: «Non fatemelo ripetere ancora, rimettetevi ai vostri posti, vedrete che tutto avrà presto una spiegazione logica».
«Un aereo senza muso? E che spiegazio…».
«Guardate».
Ossola puntò il dito verso la porta che portava alla cabina di pilotaggio.
L’intero pannello divisorio stava lentamente svanendo.
Comparvero l’aria, le nubi… la pioggia.
Con orrore i passeggeri si accorsero che anche l’hostess stava svanendo. Aveva lo sguardo allucinato e gli occhi sbarrati. Aprì la bocca per urlare, ma non si udì alcun suono.
Poi cominciarono a svanire anche i due Ballarin e Grava. Le espressioni dei loro visi erano simili a quella della hostess, che non c’era più.
Gli altri ebbero come un guizzo e si allontanarono verso la parte posteriore dell’aereo. Avevano tutti gli occhi sbarrati ed erano ammutoliti.
Fu Tosatti a mormorare: «Ma… ma che sta succedendo?».
Intanto la parte anteriore dell’aereo era del tutto scomparsa, insieme ad altri passeggeri.
«I motori… sento ancora i motori laterali».
«È impossibile…».
«I motori sono normali».
«Guardate… anche le ali cominciano a scomparire».
Svanirono altri passeggeri, tutti quelli che erano seduti nelle tre file prima del nulla.
Quelli rimasti si spostavano sempre più indietro.
«A destra non sento più il motore» mormorò Cavallero, prima di scomparire.
«Quello di sinistra lo sento ancora» disse Cortina. Poi scomparve anche lui.
Altri si volatilizzarono nell’aria come fiato d’inverno.
«Ho paura…».
«Il motore… romba…».
«Ma è strano… sembra singhiozzare».
«È Operto che piange».
«Io non piango. È proprio il motore che stride».
«Non lo sento più. Si è spento anche quello di sinistra».
Silenzio assoluto. Neanche il soffio del vento o il rumore della pioggia. Più di metà aereo era svanita e le nuvole entravano in quello che restava.
«Perché non precipitiamo?».
«Ma che cazzo… Dio del Cielo… che succede?».
«Siamo impazziti… tutti impazziti».
E via un bailamme di voci concitate.
Soltanto Bacigalupo era rimasto in silenzio. Con calma tornò dietro. Il suo posto, da bravo portiere, era l’ultimo alle spalle di tutta la squadra. Guardò l’orologio. Le diciassette e tre minuti.
Sempre le diciassette e tre minuti.
Vide gli ultimi suoi compagni, i giornalisti e i tecnici sparire uno dopo l’altro. Finché rimase solo.
Poi osservò le sue mani. Pian piano si stavano dissolvendo.
Emise un flebile sospiro e attese di svanire del tutto.
* * *
A Superga, tra equipaggio e passeggeri, nessuno dei trentuno si salvò. Il Grande Torino aveva giocato la sua ultima partita. Il motore di sinistra continuò per qualche minuto a erogare potenza anche dopo l’impatto contro il terrapieno posteriore della cattedrale di Superga. L’impennaggio, l’ultima parte dell’aereo, era rimasto quasi intatto.
Fu lì che trovarono il corpo di Bacigalupo.
La sua espressione era di serena rassegnazione.