I Mondiali azzurri negli anni del calcio «autarchico»

Davide Steccanella
4-4-2 – Calciatori, tifosi, uomini n. 14/2019
I Mondiali azzurri negli anni del calcio «autarchico»

Il 2018 è stato l’anno dei mondiali di calcio, il rito collettivo che ogni quattro anni riunisce intorno ai televisori di tutt’Italia la gran parte della popolazione nostrana, uomini e donne, grandi e piccini. Quest’anno, però, è mancato il più grande protagonista di quelle cicliche “notti magiche”, vale a dire il tifo per gli azzurri, perché – non accadeva da sessant’anni – la nostra nazionale non era tra i gareggianti. Questo mi fa venire in mente una storia accaduta molto tempo fa e che forse non tutti conoscono. O, magari, non se la ricordano più. Era il 19 giugno del 1966 quando alla Federazione Italiana Giuoco Calcio qualcuno disse: «Così non è possibile, bisogna fare qualcosa». Era accaduto che una “squadra di Ridolini” – così erano stati improvvidamente definiti quegli sconosciuti nordcoreani dallo sventurato commissario tecnico di allora, Edmondo Fabbri, detto Mondino – ci aveva appena mandati a casa al primo turno dei mondiali inglesi. La decisione che seguì fu ancora più clamorosa di quella ignominiosa sconfitta: «Da oggi», manco fossimo ai tempi del Piave, «non passa lo straniero!».

Si disse infatti che la causa di quell’ennesima figuraccia – non combinavamo nulla di buono dai gloriosi tempi di Vittorio Pozzo – fosse stata il fatto che i grandi club italiani ricorrevano troppo all’acquisto di campioni esotici che chiudevano ogni spazio ai giovani talenti dei nostrani vivai.

Uno dei più accaniti a sostenere tale tesi era stato, dalle colonne della «Gazzetta», il compianto Gianni Brera, il più grande giornalista calcistico di sempre. Addio al Milan del trio svedese, alla Juve di quello danese, ai miliardi napoletani per Jeppson, al saccheggio degli uruguagi mondiali, ai finti oriundi sudamericani che ci avevano fatto sfigurare anche in Cile… di colpo il campionato più internazionale del mondo (ben prima che arrivassero globalizzazioni o unioni europee) si trovò a fare i conti con la più serrata delle autarchie.

E i risultati, sembra incredibile, arrivarono quasi subito, perché meno di due anni dopo quegli stessi azzurri ridicolizzati a Middlesbrough innalzavano fieri, nel tripudio di una tiepida serata romana del 10 giugno del 1968, la Coppa Europa, e l’anno dopo una tripletta del rossonero tutto italiano Pierino Prati umiliava nella finale di Coppa dei Campioni a Madrid l’astro nascente olandese di Cruijff.

Ma gli effetti positivi di quella vera e propria rivoluzione si fecero sentire anche in campionato, perché le ricche “grandi”, private della facile risorsa oltre confine, dovettero arrendersi prima alla sorprendente Fiorentina del Petisso Pesaola e quindi all’utopico Cagliari del filosofo Manlio Scopigno (che più che come un italiano fumava come un turco), riorganizzandosi in casa propria.

Si arrivò così agli attesi mondiali messicani che avrebbero inaugurato il decennio lungo del Secolo Breve, in cui gli azzurri, allenati dal più autarchico degli allenatori, Ferruccio Valcareggi, avrebbero incantato il mondo intero con quei memorabili supplementari contro la Germania all’Azteca, a tal punto consegnati alla Storia da meritare l’affissione fuori da quello stadio di una gigantesca targa a imperitura memoria, che ancora oggi fa bella mostra di sé.

Peccato solo ci fosse ancora il grande Pelé in quello squadrone brasiliano che contro gli stanchi eroi del 17 giugno, quattro giorni dopo, si portò definitivamente a casa la Coppa Rimet.

Fu solo un problema di abbondanza allestire quel magico undici verdeoro, giacché troppi erano i campioni solisti di quell’inimitabile genìa di talenti. Preso atto che in difesa, eccezion fatta per il terzino Carlos Alberto, la squadra aveva il suo tallone di Achille (per non parlare dello sciagurato portiere Felix, che per un tempo illuse anche noi), l’allenatore Zagallo capì che avrebbe dovuto limitarsi a segnare un goal più degli avversari e, con una decisione che oggi parrebbe assurda, schierò cinque centravanti tutti insieme, che ovviamente giocavano in cinque club diversi.

Sembrava una scommessa folle, ma sin dall’inizio quel Brasile apparve imbattibile, vincendo tutti gli incontri con valanghe di reti, a parte lo stentato 1-0 contro l’Inghilterra nella partita della torrida Guadalajara, nota per la “parata del secolo” di Banks.

E fu così che Gerson e Pelé accettarono di arretrare a vantaggio del più tattico Tostão, e Jairzinho (che firmerà ben sette reti) e Rivelino si misero a fare rispettivamente l’ala destra e quella sinistra. Nella finale contro gli azzurri, a venti minuti dalla fine, i cinque fenomeni decisero di scatenarsi, e fu una mitraglia: 4-1 il risultato finale. Se fosse durata di più, sarebbe stato cappotto.

Anche se nell’incontentabile Patria si rimprovereranno al mister i fatidici “sei minuti di Rivera”, quel 4-3 della semifinale contro i tedeschi assurgerà a mito perché vide segnare persino due difensori puri che mai prima di allora l’avevano messa dentro in vita loro, Schnellinger e Burgnich.

Il cammino dei “nostri” era cominciato in salita, perché il bomber Riva non si trovava con l’altura; i due rivali meneghini, Mazzola e Rivera, imposero la controversa staffetta e solo due infortuni, il primo del già convocato Anastasi e il secondo dello stopper Niccolai al debutto contro la Svezia, consentirono il subentro decisivo in corsa di Boninsegna e Rosato. Il tutto mentre un’improvvida battuta sul guardalinee etiope durante Italia-Israele costava il posto al celebre Carosio a favore dell’emergente Martellini.

Gerd Müller vinse la classifica dei cannonieri ma fu l’estroso peruviano Cubillas a far vedere i numeri migliori di quel mondiale, ed alla parata di Banks possiamo contrapporre l’altrettanto celebre papera dello svedese Hellström, che ci consentì di passare il primo turno con quel fortunoso unico golletto dell’instancabile Domenghini.

Quattro anni dopo, in Germania, ci fu il brusco risveglio, anche se le avvisaglie si erano già avute agli Europei di due anni prima, quando gli azzurri detentori, eliminati dal modesto Belgio, videro in Tv le fasi finali del torneo che dette inizio al ciclo tedesco.

Quelli del 1974 furono i Mondiali degli alberghi che furbescamente investirono nelle prime televisioni a colori, e noi ci arrivammo con il sorprendente tricolore della Lazio di Maestrelli e la tronfia imbattibilità di oltre mille minuti di Zoff, ma le cose per gli azzurri non andarono come previsto.

I nostri mondiali, passati alla storia come quelli “delle chinagliate”, per il noto gesto del “vaffa” in eurovisione del centravanti laziale sostituito nella gara di apertura con Haiti, finirono già al primo turno contro l’emergente Polonia di Lato e Deyna che si sarebbe piazzata terza.

Furono poi i padroni di casa, superato lo choc della sconfitta nella storica “partita del muro” contro l’altra Germania, a conquistare la prima coppa di nuovo conio. L’ossatura di base era quella del Bayern Monaco, che ai quei tempi contendeva all’Ajax la palma della più grande squadra di club in Europa, e dopo alcune partite stentate che servirono a modificare qualche assetto, soprattutto l’esclusione del fenomeno Netzer a favore del più integrato Overath e la riscoperta del troppo frettolosamente scartato Grabowski, l’undici teutonico lasciò che il mondo si innamorasse della spumeggiante “cicala” olandese per attenderla, da brava “formica”, nella celebre finale di Monaco.

Quel 7 luglio del 1974 Helmut Schön organizzò una delle partite tatticamente più perfette della storia del calcio, lasciando fiaccare all’inizio i tulipani belli a vedersi ma poco astuti, andati subito in vantaggio con un sortilegio di Cruijff, per infilzarli con un contropiede all’italiana, grazie al colpo finale in giravolta di Müller che lasciò di sale lo scarso portiere Jongbloed, celebre per la maglia gialla con il numero otto.

Certo, era facile con un portiere come Maier, un mastino in difesa come Vogts (che, dopo quel numero iniziale, annullò il grande Cruijff), un terzino goleador come Breitner, un libero come Beckenbauer (forse il più forte di sempre) e un bomber micidiale come Gerd Müller, tanto più che intorno a questi fenomeni gravitava gente tipo Bonhof, Grabowski, Hölzenbein e Hoeneß, insomma un vero e proprio squadrone. Va detto, tuttavia, che in semifinale rischiò di essere fatta fuori anche lei, come noi, dalla Polonia, nella partita acquitrino dove il lungo portiere Tomaszewski parò un rigore a Hoeneß, mentre l’Olanda s’imponeva su un Brasile sotto tono, in quella che fu la partita più “cattiva” della recente storia dei mondiali.

Risvegliati bruscamente dal sogno, puntuale il mesto ritorno in Patria coincise con l’insorgere delle polemiche contro l’autarchia. «Se restiamo alla finestra degli europei e ai mondiali rischiamo di essere eliminati da Haiti» si disse; «tanto vale riaprire le frontiere», visto che pure nelle coppe europee a squadre ormai non riuscivamo ad andare oltre il primo turno.

Ma i Settanta erano anni complicati per il nostro Paese. Erano quelli dell’austerity e della guerriglia urbana diffusa, e così ci si limitò ad applaudire in Tv quei campioni che qui non potevano mettere piede, esattamente come si faceva con i grandi rocker stranieri che avevano imparato a stare alla larga dai tafferugli toccati agli improvvidi Led Zeppelin e Santana a Milano, e si dette così inizio alla lenta ricostruzione per il rimpiazzo dei “messicani”.

Fortuna volle che, dopo il fallimento iniziale del troppo “signore” Bernardini, approdò alla guida azzurra l’oscuro Bearzot, uomo friulano di poche parole, il quale proprio all’inizio dei successivi mondiali argentini innestò a sorpresa, sul dominante blocco juventino del Trap (che l’anno prima aveva finalmente portato a casa un trofeo europeo contro i baschi dell’Atletico Bilbao), il rapace Pablito Rossi del miracoloso Vicenza di un altro Fabbri, questa volta di nome Giovan Battista. E fu così che nel giugno del 1978 quella squadra di ben poche aspettative mostrò al mondo intero, nei primi tre incontri, il miglior gioco mai espresso ad un mondiale da una compagine azzurra.

Peccò di hýbris e di una certa inesperienza quel magico undici che quattro anni dopo, fattosi più scafato, avrebbe meritatamente trionfato in Spagna, e così alla gloria di aver sfrattato i padroni di casa davanti al loro pubblico e al dittatore Videla, con quel celebre triangolo goal Bettega/Rossi, subentrò la delusione dei tiri da lontano che uccellarono Zoff e ci fecero arrivare solo quarti.

Ormai decotta la Germania, privata di Cruijff l’eterna rivale olandese, ed ancora appannato il Brasile del nuovo idolo Zico, i padroni di casa, registrate alcune cosette, e forse allungando qualche stecca di regime per la goleada con il Perù, si gustarono il memorabile trionfo finale di Buenos Aires davanti al criminale generale festante.

Intendiamoci, quali che possano essere state le polemiche successive, quell’undici biancoceleste era una squadra di solisti pazzoidi che in quel mese diedero il meglio di sé. Kempes si laureò capocannoniere, Fillol parò l’imparabile, Bertoni avrebbe sedotto gli italiani della Fiorentina; e poi spiccavano alcune stelle, come lo strepitoso libero fluidificante Passarella, il regista Ardiles, rachitico ma immenso, ed il terzino, un tantino falloso ma indistruttibile, Tarantini.

Non c’era ancora Maradona, ma era proprio un bel team quello guidato dal guru Menotti, il quale dovrà tuttavia ringraziare per sempre il clamoroso palo a Fillol battuto che impedì a Rensenbrink di siglare all’ultimo minuto il più “golden” dei goal per gli sfortunati olandesi, incapaci di vincere una finale.

Ma il meglio per noi doveva ancora venire, e quattro anni dopo, in Spagna, si sarebbe coronato il sogno di chi, sedici anni prima, aveva imposto l’autarchia, anche se il paradosso sarà che ciò avverrà poco dopo la riapertura di quelle inaccessibili frontiere.

Già, perché due anni dopo i mondiali argentini in Italia era accaduto qualcosa di sconvolgente. È una domenica del 23 marzo del 1980 quando un clamoroso blitz della Guardia di Finanza arresta giocatori e dirigenti dentro e fuori dagli stadi. Tra di loro: Ricky Albertosi, Pino Wilson, Bruno Giordano, Lionello Manfredonia e il presidente del Milan, Felice Colombo. L’Italia intera assiste allibita e sconcertata, prima di capire cosa stia succedendo.

L’11 marzo un commerciante all’ingrosso di ortofrutta, Massimo Cruciani, aveva presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma sostenendo di essere stato truffato da alcuni giocatori della Lazio, da lui contattati tramite un ristoratore romano, Alvaro Trinca, i quali lo avrebbero indotto a scommettere denaro sull’esito di alcuni incontri truccati che poi avevano avuto un esito diverso, facendogli così perdere un mucchio di soldi. Sarà noto come lo scandalo del Totonero: anche se la gran parte delle accuse esce ridimensionata, il mondo del calcio subisce un tale scossone che la Federazione decide di correre nuovamente ai ripari e così, quattordici anni dopo l’editto, revoca l’imposta autarchia.

Intanto, però, agli europei organizzati proprio a casa nostra gli azzurri si presentano falcidiati dalle squalifiche, tra cui spicca quella di Paolo Rossi. Nessuna sorpresa, pertanto, se il 12 giugno 1980, un giorno dopo l’inizio del torneo, i milanesi, invece di accalcarsi davanti alla Tv, si recano tutti compatti all’Arena a vedere il concerto di Lou Reed, il cantante maledetto, il più newyorkese di tutti, quello dei Velvet Underground con in copertina la banana di Warhol, il disco con cui bene o male eravamo tutti cresciuti.

Quegli europei del 1980 verranno vinti da una mediocre Germania Ovest e ai tifosi azzurri non resterà che l’emozione di un urlo di Tardelli nell’incontro vinto a Torino contro l’Inghilterra: nessuno in quel momento poteva neppure lontanamente immaginare che sarebbe stato solo l’assaggio di ben altro urlo che ci avrebbe fatto sognare due anni dopo a Madrid. È l’11 luglio del 1982, infatti, quando milioni e milioni d’italiani sentono un emozionato Nando Martellini gridare per tre volte: «Campioni del mondo!», e quell’urlo di Tardelli, dopo il secondo goal ai tedeschi nella finale madrilena, diventerà per sempre l’icona del calcio azzurro.

E pensare che per una ragione o un’altra ci vennero meno due pilastri del precedente mondiale argentino come Bettega ed Antognoni, ma con il funambolico Conti al posto di Causio ed un Rossi da leggenda ci portammo a casa il titolo che avremmo meritato la volta precedente, cinquantaquattro anni dopo il bis parigino di Vittorio Pozzo.

Ma ce lo portammo a casa, sia chiaro, non certo nella facile finale contro una Germania piuttosto malconcia rispetto agli abituali standard, o nella ancor più facile semifinale contro gli spenti polacchi di Boniek, ma grazie a quel doppio capolavoro del girone degli ottavi dove stroncammo nell’ordine prima i detentori argentini, e per di più Maradona-muniti, e poi i favoriti brasiliani, solite cicale cui, come nel precedente del 1950, sarebbe bastato un pareggio. Onore al merito del grande difensore Gentile, che si sobbarcò l’onere di annullare, in tre giorni, prima El Pibe de Oro e quindi Zico.

Fu il mondiale della polemica, perché un primo turno deludente aveva colorito d’insulti il processone Rai di Biscardi, covo di romanisti ancora inveleniti contro il “blocco” Juve a causa del celeberrimo goal annullato a Turone per, disse il Presidente Viola, «una questione di centimetri». Fatto che indusse la squadra a un prolungato silenzio stampa che più silenzio non avrebbe potuto essere, giacché quale portavoce fu scelto il compianto capitano Scirea, che definire uomo di poche parole risulta eufemistico.

E, a proposito di gente di poche parole, fu anche il mondiale della riabilitazione di Zoff e soprattutto di Pablito Rossi, graziato dopo la sosta forzata per lo scandalo del Totonero.

Memorabile sarà il ritorno aereo con la coppa posta sul tavolino di un allenatore mondiale intento a giocare a scopone con il Presidente della Repubblica, entrambi con pipa ed altrettanto poco fashion. Ma ormai il mondo stava cambiando: stavano arrivando gli “anni da bere”.

Esattamente due anni prima, nel luglio 1980, era “sbarcato” a Torino il primo straniero del nuovo corso, uno sconosciuto difensore olandese dal cognome improbabile, van de Korput, che fece scrivere il giorno dopo a «L’Unità»: «Sembra la réclame di un lassativo»; ma quel trionfo spagnolo era l’ultimo acuto di una straordinaria nidiata di campioni nostrani, cresciuti tutti nell’era dell’autarchia.

«Giocando a fianco dei grandi campioni stranieri, anche i giovani azzurri non potranno che migliorare», dissero i soloni di turno, ma sta di fatto che, a parte i due soli exploit del Verona di Bagnoli e della Sampdoria di Boškov, i futuri tricolori saranno esclusivo monopolio delle ricche “grandi” e si dovranno aspettare ben ventotto anni per ritornare a festeggiare gli azzurri berlinesi di Lippi, quando ormai il ricordo di quei quattordici anni di calcio autarchico sarà molto lontano, tanto da sembrare una fiaba.

Negli anni in cui persino la panchina lunga dell’Inter del triplete schierava solo stranieri, eccettuato Materazzi, quel periodo sembrò seppellito anch’esso dalla grande melassa successivamente spalmata su tutto, ivi compreso su quegli altri anni, impropriamente definiti “di piombo” – ma questa, come diceva qualcuno, «è tutta un’altra storia». Era appunto il Novecento, il Secolo Breve. Ma quegli anni – tengo a ricordarlo – ci sono stati davvero, posso assicurarlo perché c’ero, non è una favola. E sono contento di averli vissuti.

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