Finzioni: «Siamo noi i marziani»

Ray Bradbury
2015-05-02 11:19:03
Finzioni: «Siamo noi i marziani»

Il bello dei libri che raccolgono interviste è che il loro scopo è così chiaro e semplice che non c’è bisogno di spiegarlo. Si lascia parlare l’autore, principalmente, e un po’ gli intervistatori. Quindi l’autore rimane da solo, con le sue risposte e il lettore può decidere di pensare quello che vuole,

Scoprire quello che ha pensato Ray Bradbury nel corso di 50 anni e passa di carriera, poi, è un’esperienza molto piacevole. Almeno per due tipi di lettori potenziali. Il primo tipo: gli appassionati dell’autore di fantascienza, perché così lo conoscono meglio. Il secondo tipo: per chi non lo conosce ma vuole farsi un’idea precisa sull’autore famoso per Cronache Marziane e Fahrenheit 451.

Insomma, il bello delle interviste è che ti capita di leggere frasi così (pag 212):

“È rimasto soddisfatto di Truffaut?

Ha fatto un buon lavoro, ma è stato un po’ codardo su certe cose. Non ha inserito il Segugio Meccanico, e invece avrebbe dovuto, perché è un elemento avventuroso e metaforico. L’azione è davvero pessima. Gli uomini volanti avrebbero dovuto essere eliminati. Non volano da nessuna parte, se non verso il basso. Anche la scelta degli attori è stata sbagliata. Non del tutto, però: l’interpretazione di Oskar Werner mi è piaciuta molto.”

Come dicevo, è bello sentire un autore parlare liberamente. Secondo me è ancora più bello quando un grande autore esce dalla retorica è dice “Truffaut è stato un po’ codardo”. Caspita!

Ecco, nelle 293 pagine del libro ci sono un sacco di queste perle.

A bene pensarci, ci sono anche più di due lettori potenziali. C’è anche chi non è in alcun modo interessato alla fantascienza. Ad esempio, ad un certo punto Ray (mi viene da chiamarlo così, scusate) spiega come gli vengono in mente i racconti. Ho perso il segno, quindi vado a memoria. Ray va dal medico, visto che si sente qualcosa in gola e il medico, scherzando, gli dice “Lei ha una laringe, ecco cosa sente…”. Così Ray ha un’illuminazione e una volta a casa scrive un racconto del mistero in cui il protagonista si rende conto di avere uno scheletro intrappolato dentro il suo corpo.

Direte voi, bella scoperta. Ma lo scrittore è lui, l’intervista è la sua, e di certo si spiega meglio. Il punto è che pagina dopo pagina entriamo nel mondo di Bradbury. Fatto di chiari e di scuri. Ad esempio, più di una volta ammette di essere un moralista. Nel senso che lui, in quanto scrittore, sente che parte del suo compito sia quello di dover dare una direzione alla società (e al futuro). Magari questo atteggiamento può non piacere, però Bradbury è anche questo (e serviva un libro come questo per capirlo). Da pag 95.

“Tredici anni fa ho vissuto in Irlanda e, per quasi un anno, ho osservato la vita degli irlandesi nei bar. Ho scritto tutta una serie di testi sulle esperienze che ho vissuto nei pub, mentre lavoravo al film Moby Dick di John Huston. Più osservato la situazione, più mi rendevo conto della grande somiglianza tra gli irlandesi e gli abitanti di Fire Island a New York. E così ho scritto la storia di un uomo che arriva al Royal Hybernuian Hotel di Dublino, insieme a cinque amici: erano un sestetto di effemminati. Se ne andavano in giro per il mondo inseguendo l’estate, e non vedevano l’autunno né l’inverno da anni. Gli irlandesi osservano l’arrivo di questi sei tizi che cinquettano, cantano e frivoleggiano e, insieme al parroco del posto, rimangono inorriditi, temendo che questi si mettano a fare orge, che la loro isola possa essere corrotta, Dublino bombardata, o altre cose terribili. Iniziano, così, a pedinare questi amici in giro per la città, per vedere quel che combinano, e scoprno che in realtà sono venuti solamente per osservare come cambia il colore delle foglie. Non vedendo l’autunno, appunto, da cinque o sei anni, si sono fermati in Irlanda soldanto per un giorno prima di volare alle Bahamas o in qualche isola del Mediterraneo…”

C’è un’attenziona antropologica, all’umano in generale, non indifferente. E c’è dell’umorismo più o meno volontario, nella vicenda. Ma in generale c’è dell’umorismo in tutte le opere di Bradbury, che nasce dallo squilibrio tra le grandi conquiste che l’uomo è in grado di fare e il fatto che, comunque, debba sempre fare i conti con la sua “umanità”, cioè con i limiti mentali e fisici di sempre.

Un libro davvero interessante, insomma. Per scoprire Bradbury ma, perché no?, per scoprire un po’ noi stessi.

(Andrea Sesta, «Finzioni», 21 aprile 2015)

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