Editoriale: un appuntamento sempre rimandato

Andrea Scarabelli
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Editoriale: un appuntamento sempre rimandato

Per anni questa rivista ha rimanda­to l’appuntamento con Jorge Luis Borges. L’idea di dedicare un nu­mero a questo geografo dell’immaginario nasce praticamente insieme ad «Antarès», essendo uno degli autori che più ne hanno incarnato le linee guida, dal 2010 a oggi – lasciamo ai lettori la curiosità di coglierne le analogie… Ebbene, dopo anni di titu­banza il momento è giunto. Speriamo di esserne stati all’altezza. Compito arduo, se non impossibile, ché Borges è un autore oceanico, un crocevia di esperienze e piani dell’essere, un caleido­scopio nel quale il passato si fa futuro e il futuro si rispecchia continuamente nel pas­sato, riscrivendolo e reinventandolo. Un autore dotato di una profonda ironia, che crea mondi e li dissolve, materializzando i sogni dell’umanità in imponenti costrutti estetici. Un autore per cui il sogno è tutto. La vita è sogno. La storia? «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli.» E, pensate, è anche probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. Ma chi se ne importa del sognato­re! Ciò che conta è che, se la storia è ininter­rotta attività onirica, questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Molto ricorrenti. Ebbene, suggerisce Borges, questi ultimi sono quelli che comunemente chiamia­mo simboli, archetipi. Dietro all’artista agisce un sostrato profondo, un nugolo di metafore, immagini e allegorie, a esaurire la storia. Lo scrisse nelle sue Altre inquisi­zioni: «Forse la storia universale è la storia di alcune metafore». Queste non vengono “inventate” da qualcuno ma attraversano le ere, in cerca di chi possa dotarle di un’archi­tettura estetica. È il lavoro dell’artista: «Si ricevono doni misteriosi e poi si cerca di dar loro una forma».

È sempre la Parola a compiere il miraco­lo, evento anzitutto simbolico e non solo mentale o sociale, come una pessima filoso­fia del linguaggio ci ha fatto credere. Se gli analisti ingabbiano il linguaggio in fantasie biologiste degne di Mengele, spetta al poe­ta «restituire alla parola la sua primissima e oggi nascosta virtù». Parola del borgesiano Robert Browning: «Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mer­curio fuggitivo, / farò che le comuni paro­le / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / dirò a mia volta cose eterne».

Da qui la difesa borgesiana dell’estetica, assai vicina a quella di autori come Kant, Nietzsche e Spengler: prima di essere in­gabbiato nelle morali e nelle filosofie, pri­ma di essere inciso su tavole di pietra o mar­tirizzato in dottissime trattazioni, religioni o teologie politiche, il mondo accade come fenomeno artistico. Art happens, ripetendo ogni volta il prodigio della genesi.

Al diavolo, dunque, le scuole letterarie, al diavolo l’arte impegnata, ancella di morali o politiche: «È un’ingenuità», lo scrittore «deve essere leale verso la propria immagi­nazione e non verso le ovvie, effimere cir­costanze di una supposta “realtà”». Meglio cogliere nella storia ciò che non vi si esauri­sce, «il miracolo / che nonostante le infini­te sorti, / che nonostante siamo / le gocce del fiume di Eraclito, / qualcosa in noi perduri, / immobile». L’autore di questi versi (giova­nili, ma che lasciano già intravedere l’orma di un destino) venne ritenuto indegno del Nobel, per ragioni legate – ora sappiamo – alle sue idee e non alla qualità della sua ope­ra. Poco importa: un vero onore per lui…

È insomma l’Immaginazione Creatrice il vero motore immobile della storia: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La no­stra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, ma è sempre la stessa cosa». A Freud (che aveva definito, inconsciamente parafrasando Lovecraft, «un ciarlatano ossessionato dal sesso») preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung. A patto che, ovviamente, venisse let­to come un creatore di miti. Lo stesso dicasi per la Naturalis historia di Plinio o Il ramo d’oro di Frazer. Tutte enciclopedie dell’im­maginario. Un immaginario – aveva ag­giunto – il quale, molto probabilmente, nemmeno esiste. Come la realtà.

Il mondo, per fortuna, è ben più com­plesso, e molte sono le cose che non tengono conto della dialettica di esistenza e inesistenza. È il principio di quel piccolo capolavoro che è l’Antologia della lettera­tura fantastica, realizzata con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, manifesto ide­ale di tutti gli antimaterialisti, di chi non si ferma alla superficie delle cose, di chi crede nella forza dell’immaginazione. Ed è un documento universale, che trascen­de le differenze tra civiltà ed epoche. Già, perché tutta la letteratura è fantastica. Lo è sempre stata, come Borges raccontò ad Alberto Arbasino, «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i rac­conti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono sue ramificazioni. Ne con­dividono simboli e archetipi, modulandoli in base allo Spirito del Tempo.

Il realismo? Un errore transitorio, desti­nato a scomparire. La grande letteratura, dice Borges, non è mai stata realista. Ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di ogni latitudine e longitudine. Non ha mai celebrato, sic et simpliciter, la realtà. E scrivere di letteratura fantastica significa «continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte anche Dante». Più chiaro di così… Selezionando i testi, come disse una volta a María Esther Vázquez, scoprì che, «anche se molto diversi fra di loro e provenienti da diverse epoche e paesi, sempre ruotavano intorno ai medesimi temi». Gli archetipi.

Tutto si tiene, insomma, il reale e il fan­tastico. Senza soluzione di continuità. Fernando Savater ricorda come Borges, sul letto di morte, tenesse una selezione delle lettere di Voltaire e i Frammenti di Nova­lis, che l’infermiera gli leggeva di continuo. L’illuminista e il mago, il reale e l’onirico, Platone e Aristotele… Tra mythos e logos Borges scelse di non scegliere, avventuran­dosi in una realtà dalle continue contami­nazioni magiche. Non si conosce il mondo se non lo si affronta nei suoi frangenti ma­gici. La vita è sogno. E l’Aleph può trovarsi ovunque, anche nei sottoscala.

E così procedette, labirinti e biblioteche, Oriente e Occidente, miglior antidoto a quello scontro di civiltà che è l’esito ultimo e unico del capitalismo globale, sbozzando l’immaginario collettivo intorno a un cen­tro e lasciando come caput mortuum un se­gno su un foglio di carta, a delineare un’im­magine cangiante ma eterna, che troviamo nell’epilogo de L’artefice: «Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con imma­gini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

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