Una delle principali critiche mosse a Nicolas Winding Refn, specie quando le argomentazioni scarseggiano, è quella di cavarsela sempre con un astuto mash-up di fonti, a uso e consumo della critica più blasé. Peccato che Refn non abbia mai negato di essere un cinefilo. Onnivoro, passionale, instancabile. Che non si vergogna affatto di citare i propri maestri e non cerca di negare l’evidenza. L’uso magistrale e personale di quelle fonti, invece, è tutt’altra storia. Ed è una storia che ha inizio qui, nelle strade più losche di una Copenaghen reinventata come teatro di un’ipotetica “Danish Connection”, dove Il braccio violento della legge di William Friedkin (1971) e Mean Streets. Domenica in chiesa, lunedì all’inferno di Martin Scorsese (1973) possono andare a braccetto e adeguarsi a un nuovo standard di exploitation (anche se, in questo senso, l’acme è destinato a venire più in là, nel prosieguo di una trilogia che da principio non era pianificata). Rispetto all’approdo, Pusher si può quasi definire timido di fronte alle esplosioni di una violenza spesso mascherata dal particolare utilizzo della macchina da presa. La punizione che Frank infligge a Tonny, per esempio, viene quasi completamente celata dal bancone del bar nel quale è ambientata la scena, così come un black-out e un’illuminazione parziale nascondono la tortura subita da Frank per mano dei gangster serbi.
Per chi crede alle leggende, Refn gira Pusher senza nozioni tecniche, senza studi specifici, accettando la sfida con appena 6 milioni di corone danesi (meno di un milione di dollari) di budget. Su consiglio dello zio Peter – cui dedica il film – e grazie a qualche non meglio definito “miracolo”, ha accesso a fondi governativi e può cominciare le riprese. Insoddisfatto dell’interprete principale, troppo soft per quello che ha in mente, lo caccia dal set e ricomincia daccapo. Il nuovo protagonista è Kim Bodnia, già in Il guardiano di notte di Ole Bornedal (1994), che si cala fisicamente e psicologicamente nei panni di Frank, pusher, predatore e preda. Dalla prima sequenza la macchina da presa lo accompagna nelle sue peregrinazioni da anima inquieta. Dove l’Henry di John McNaughton (Henry pioggia di sangue, 1986) aveva nell’omicidio la principale valvola di sfogo sociale, Frank mantiene quel minimo di attaccamento alle convenzioni che lo illude di poter godere dei piaceri della vita in un ristorante, un bar o un locale di spogliarelliste. Ma sono solo illusioni. A restare, ad accompagnarlo giorno dopo giorno, è il perenne affanno della droga da smerciare o del denaro da recuperare, come un Carlito Brigante di mezza tacca. Il senso profondo della trilogia di Pusher risiede in un’interrogazione sul fine che guida le azioni di un gruppo di workaholic assai peculiari. Nessuno dei protagonisti sembra soddisfatto, nessuno vive la vita della strada perché ci crede o per rispettare qualche codice d’onore. Persino Radovan, braccio destro del feroce Milo (e nella vita reale – si dice – amico della “Tigre” Arkan, criminale di guerra serbo tra i più efferati durante il conflitto nell’ex-Jugoslavia), ha in mente solo il ristorantino che aprirà una volta uscito dal giro (un sogno che, nel terzo episodio, scopriremo esser divenuto realtà). La dannazione di Frank presenta importanti differenze rispetto a quella del Johnny Boy scorsesiano, benché figlia di quella del Johnny Boy scorsesiano a cui rimanda anche sul piano fenotipico, con la dominante rossa che caratterizza le scene nei locali dell’epilogo. Dove Johnny Boy costruisce inconsciamente la propria distruzione, Frank subisce passivamente i meccanismi atavici del mondo del crimine, senza essere in grado di cambiare le regole del gioco o di forzarle. In questo senso Pusher anticipa perfettamente quello che sarà un punto focale della poetica di Refn e che accompagnerà le sue opere, giù giù fino a The Neon Demon (2016): la prigionia dell’uomo in un sistema violento, dominato da regole e convenzioni assurde quanto immutabili. Un deserto della solidarietà vicino alla rappresentazione fanta-apocalittica che George Miller ideò in Interceptor (1979), la cui locandina, presente in bella vista in camera di Frank, costituisce l’unica citazione evidente e dichiarata del film. Le altre, individuate e ribadite dai più, sono semplificazioni di comodo: se è innegabile la strizzata d’occhio a Quentin Tarantino nel dialogo tra Frank e Tonny – versione hardcore di quello tra Vincent e Jules di Pulp Fiction (1994) – più sfumato e discusso è il rapporto con il manifesto Dogma 95 di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg. Se l’uso della macchina da presa mostra delle affinità, infatti, è altresì indubitabile che il Dogma venga violato nei suoi punti fondamentali: sul piano formale, dal ricorso insistito a musica extra-diegetica; su quello metaforico, invece, dalla fine violenta subita dallo spacciatore suicida interpretato da Thomas Bo Larsen, attore ricorrente di Vinterberg, che assomiglia molto a una dichiarazione programmatica di strappo del regista nei confronti di ciò che lo ha preceduto.
Già al primo film Refn sembra possedere un accesso empatico preferenziale alle aspettative del pubblico, puntualmente comprese e altrettanto puntualmente disattese. In Pusher tutto sembra condurre a una fine violenta per Frank, sia essa improvvisa e ordinaria come in Il cattivo tenente di Abel Ferrara (1992) o più coreografica come in Mean Streets. Ma Refn nega ogni gratificazione allo spettatore, lasciando nell’incompiutezza platonica anche la storia d’amore tra il criminale e la prostituta Vic. L’incompletezza e l’impotenza, d’altronde, saranno temi dominanti dello sviluppo di Pusher in trilogia. Benché il film sia nato come atto unico – sarà la necessità di ripagare i debiti del disastro di Fear X (2003) a obbligare Refn a girarne un sequel – è lo sviluppo dei successivi capitoli a permettere a Pusher di acquisire un differente significato nella consapevolezza del proprio epilogo, brutale ed efferata conclusione che sancisce definitivamente l’assenza di umanità e di speranza di un sottobosco criminale privato di ogni fascinazione. Con la tipica dicotomia tra moralismo e perversione che caratterizza il suo cinema, Refn gioca ancora una volta con lo spettatore, coinvolgendolo nelle vite di Frank, Tonny e Milo per scioccarlo nel finale, lasciandogli in eredità il senso di colpa per aver empatizzato con delle belve feroci.
CAST & CREDITS
Regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Jens Dahl, Nicolas Winding Refn; fotografia: Morten Søborg; scenografia: Kim Lovetand Julebæk; costumi: Loa Miller; montaggio: Anne Østerud; musiche: Povl Kristian, Peter Peter; interpreti: Kim Bodnia (Frank), Zlatko Buric (Milo), Laura Drasbæk (Vic), Slavko Labovic (Radovan), Mads Mikkelsen (Tonny), Peter Andersson (Hasse), Vanja Bajicic (Branko), Lisbeth Rasmussen (Rita), Thomas Bo Larsen (tossico), Nicolas Winding Refn (Jang Go Star); produzione: Balboa Entertainment; origine: Danimarca, 1996; durata: 110’; premi: miglior attore non protagonista (Zlatko Buric) ai Bodil Awards 1997; home video: dvd Eagle Pictures, Blu-ray Rai Cinema; colonna sonora: Pusher, Silver Screen Records.