Lo stato delle crisi

Claudio Bartolini
L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 4/2013
Lo stato delle crisi

Solido, liquido, gassoso. Questione di stati della materia, del tempo, delle cose. Questione di stati di un progresso che, scaldando le sue molecole, le induce a evaporare e assumere connotati nuovi, indefiniti e sfuggenti. A ogni stato corrisponde una crisi, un punto di rottura degli equilibri che porta inevitabilmente al cambiamento di oggetti, procedimenti e logiche di comprensione. Che ottengono infine un nuovo equilibrio, prima di un ulteriore scarto. This is economy: un rito di incessante evoluzione che mutua le proprie forme da quelle della contemporaneità in cui è immerso e, nel corso della storia, ha esibito dinamiche tanto lontane nelle modalità espressive, quanto vicine in quelle contenutistiche. Dal baratto al lavoro subordinato, dalla borsa al cybercapitale, l’economia gira sempre intorno agli assi delle logiche di scambio, del potere d’acquisto e della sottomissione del più debole.

Il sistema capitalista americano si è (da) sempre posto come modello socio/economico privilegiato per le realtà occidentali, rispondendo alle crisi che ha dovuto affrontare con altrettanti rilanci, tesi a evitare l’arresto di un ingranaggio facile da mantenere in moto, più difficile da rimettere in funzione dopo un collasso. E proprio da un collasso ha origine il viaggio verso i cambiamenti di stato dell’economia statunitense, che nel Novecento ha conosciuto il secolo evolutivamente più significativo della sua Storia. 1929, Grande Depressione: la nazione è devastata da un terremoto economico senza precedenti, che mette in ginocchio l’industria e i redditi di milioni di cittadini. 1933, New Deal: Franklin Delano Roosevelt vara un piano di riforme economiche destinato a durare fino al 1937 e a risollevare le sorti degli States, consegnandoli in piena efficienza alla Seconda Guerra Mondiale. Sono anni di rinascita, di entusiasmi e interrogativi che trovano ovvio riscontro nelle coeve espressioni creative.

Il cinema, giovane arte in grado di riflettere sulla realtà in movimento, elegge Charlie Chaplin a illustratore della contemporaneità Usa e l’autore risponde mettendo in scena Modern Times (Tempi moderni, 1936), spaccato di vita individuale e industriale capace di rispecchiare e problematicizzare la situazione generale. A story of industry, of individual enterprise recita il cartello che apre la pellicola, felice mescolanza di muto e sonoro che, a partire dalla dichiarazione di intenti, non nasconde le proprie ambizioni sovracinematografiche. Chaplin è un cineasta e un comico e, inevitabilmente, utilizza il codice della risata (tragica) come chiave di accesso a un testo da interpretare scavando oltre la superficie, alla ricerca del reale oggetto narrativo: la mappatura, sull’asse sociale delle ordinate (alto/basso), di un sistema capitalista alla ricerca di stabilità. Il film si apre con un montaggio delle attrazioni che pone in parallelo una mandria di maiali e un gruppo di operai che si reca in fabbrica, tanto per mettere a nudo in partenza una tra le disfunzionalità dell’imperante filosofia del lavoro. L’autore inquadra l’universo di riferimento nelle prime sequenze, passando in pochi secondi da un totale in esterni della fabbrica a un campo lungo in interni della stessa, fino a riprese in dettaglio dei macchinari sui quali gli operai sono intenti a lavorare.

Dal presidente nullafacente ai subordinati vessati dai capireparto, dal cartellino da timbrare anche per andare al bagno a un viaggio tra gli ingranaggi delle macchine, Tempi moderni è un testo profondamente contemporaneo, tra i pochi ad affrontare lo stato delle cose negli anni, appunto, della modernità. Stato solido, dunque, espresso dalla pesantezza degli oggetti, dal sudore fisico che olia i meccanismi di un Moloch legato indissolubilmente ai propri referenti materiali. L’opulenza del New Deal va a braccetto con la spinta tecnologica, messa a tema da Chaplin nelle sequenze della catena di montaggio e del “pranzo automatico”, in cui l’operaio protagonista viene costretto a testare la validità di una nuova creazione meccanica. Sotto il registro grottesco – materializzato nel volto dello stesso Chaplin inondato di cibo – alberga l’incertezza circa la liceità e l’effettiva bontà del progresso. Il “cameriere sintetico” si inceppa, il suo motore va a fuoco: è davvero tempo di resurrezioni? Il cineasta inglese risponde nella seconda parte della pellicola, affrescando la vita al di fuori della fabbrica in seguito al licenziamento del personaggio principale. Al di là dell’intreccio sentimentale e dei reiterati momenti comici, il film procede sulla linea retta dei suoi obiettivi, allargando il proprio sguardo dalla sola industria (A story of industry) al viaggio dell’individuo moderno nell’universo capitalista (of individual enterprise). La disoccupazione e la povertà dei ceti meno abbienti da una parte; i centri commerciali, lo stupore della rinascita, le continue opportunità di ascesa dall’altra.

L’America di Chaplin vive un’esistenza bipolare, in bilico tra spinta evoluzionistica e malfunzionamenti strutturali. Crisi e risalite si alternano tanto nell’economia del singolo (continui assunzioni e licenziamenti) quanto in quella generale (chiusura e riapertura delle fabbriche), trovando nella messa in scena innumerevoli espedienti di rappresentazione. Nell’America della rinascita e, successivamente, in quella del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, il cinema configura la riflessione contestuale in immagini dotate di referenti chiari, materiali e profondamente contemporanei. Il concetto di denaro si incarna nell’inquadratura di una banconota e quello di lavoro nel dettaglio di un macchinario, secondo le regole dell’immediatezza di un mondo solido.

Interi generi della Hollywood classica (su tutti il gangster, il noir e il melodramma) faranno dei soldi – intesi nel loro simulacro cartaceo – il motore drammaturgico primario, messo in scena senza sconti come protagonista della vita micro e macro americana. Mentre due milioni di dollari in contanti volano nel vento sul finale di The Killing (Rapina a mano armata, S. Kubrick, 1956) i tempi moderni si apprestano a cambiare per sempre. Scaldata dalla fiamma del progresso (del peccato?), la modernità si scioglie e diviene fluida, scorrevole. Diviene postmodernità, nodo teorico ben teorizzato da Zigmunt Bauman e Serge Latouche in saggi di rara potenza intellettuale. Materia liquida in cui nuotano rampanti squali in abiti eleganti, cresciuti nelle business school e pronti a tutto pur di far soldi. Speculatori azionari svincolati dai supporti oggettivi, le cui relazioni con l’industria si esprimono soltanto attraverso movimenti di denaro ideale.

Gli anni Ottanta delle bolle economiche e del benessere effimero trovano in Oliver Stone l’interprete ideale e nel suo Wall Street (Id., 1987) il testo chiave per comprenderne il funzionamento. Il mondo della speculazione azionaria (gli uffici di brokeraggio e la Borsa) è limitato e localizzato, ma i suoi referenti (il denaro reale, l’industria produttiva) sono distanti e sfuggenti. In coerenza con il mondo rappresentato, il regista newyorchese attinge a svariati espedienti di regia (steadicam, carrelli, panoramiche, zoom) per configurare il primo, mentre lascia nel fuoricampo i secondi, in quanto componenti non determinanti per il funzionamento del nuovo contesto capitalista. I suoi protagonisti non sono più operai o capicantiere – e nemmeno padroni di aziende – bensì archetipi di un sistema profondamente problematico e ben lontano da quello cui si riferiva Charlie Chaplin.

Gordon Gekko e Bud Fox – interpretati rispettivamente da Michael Douglas e Charlie Sheen – sono disfunzioni in carne e ossa, soggetti senza scrupoli destinati a subire le oscillazioni del sistema di cui sono dirette emanazioni. Gekko, in particolare, è il self-made man del libero mercato, l’esponente di punta della contemporaneità che creerà le basi per la futura crisi globale. «L’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America», afferma educando i giovani yuppies ai nuovi flussi di soldi immateriali. Capitano di un vascello che naviga a vista nel liquido dei suoi tempi, è consapevole dello stato delle cose: «Il denaro c’è ma non si vede: qualcuno vince, qualcuno perde. Il denaro di per sé non si crea né si distrugge. Semplicemente si trasferisce da una intuizione a un’altra, magicamente». Ma il vascello è pieno di falle e non tarderà a imbarcare acqua, affondando. Stone mette in crisi il nuovo capitalismo e ne delinea le potenzialità distruttive, procedendo sui binari paralleli dell’individuo e della finanza. Se l’animo del giovane Bud Fox viene irrimediabilmente corrotto dai precetti deviati del suo mentore («Serve gente povera, furba e affamata. Senza sentimenti»), i meccanismi economici incastreranno Gekko, trascinandolo fino al baratro della galera. Specchio della contemporaneità, Wall Street volge il proprio sguardo alla testa del sistema evitando, come detto, di considerare le ripercussioni dei modelli economici sulla realtà quotidiana dell’uomo medio americano.

A questo aspetto pensa invece John Carpenter l’anno successivo con They Live (Essi vivono, 1988), saggio cine-economico “dal basso” narrato dal punto di vista della gente comune. Carpenter metaforizza l’imperante pratica del consumismo in un contesto sci-fi, nel quale una Los Angeles colonizzata dagli alieni invia messaggi subliminali ai suoi cittadini, visibili soltanto attraverso particolari occhiali rivelatori. Le figure aliene ben simboleggiano la distanza – espressa ugualmente, ma in modo diverso, da Stone – che intercorre tra i piani alti e bassi di un sistema economico inintellegibile, i cui ordini sono seguiti auto(no)ma(tica)-mente da individui ignari. «Consuma»; «Obbedisci»; «Segui i consigli per gli acquisti»; «Guarda molta Tv»: questi gli input, celati dai comuni cartelloni pubblicitari, con cui l’economia postmoderna condiziona le menti dei suoi sudditi. Essi vivono si pone nei confronti della mente assuefatta al modus pensandi televisivo esattamente come gli occhiali speciali permettono di vedere oltre. Invita lo spettatore contemporaneo a stare molto attento a ciò che lo circonda e in lui si insinua, mascherandosi da cellula sana.

Nei testi di Carpenter e Stone, sospesi tra cinema, sociologia dei consumi e della finanza, emergono abissi di profetica attualità che si spalancheranno definitivamente con la crisi del 2008, diretta emanazione dello yuppismo anni Ottanta come ben esplicitato dal documentario su speculazioni immobiliari e bolle economiche Inside Job (Id., Charles Ferguson, 2010). Gli scenari borsistici di fine XX secolo subiscono gli stessi surriscaldamenti che avevano reso liquida la solidità di inizio Novecento. La materia postmoderna varia, di nuovo, evaporando allo stato gassoso. Il XXI secolo diventa il regno dell’intangibile, della virtualità e della rivoluzione dei rapporti spazio/temporali, riconfigurati sulla base delle sdoganate dinamiche di rete. L’economia americana, come sempre, è tra i territori simbolici più flessibili ai mutamenti, sempre pronta a ricollocare l’istanza capitalista nei nuovi scenari disponibili. Il cybercapitale diviene aleatoria e completa astrazione di denaro. Non solo viene a mancare il corrispettivo materiale (la banconota, sostituita del tutto, o quasi, dalla carta di credito) ma passano in secondo piano anche i luoghi deputati a operazioni di alta e media finanza (la Borsa, gli uffici di brokeraggio). L’immaginario contemporaneo si svincola dalla geografia reale, a beneficio di un’inedita mappatura immateriale.

La crisi del 2008 non impedisce al nuovo stadio evolutivo di affermarsi con decisione, tuttavia ne mina i presupposti aprendo possibili scenari fallimentari. Come sempre, i cineasti più attenti alle dinamiche del loro tempo sono in prima linea nel restituirle, deformandole fino a scoprirne i nervi e i punti deboli.

Adattando lo spiazzante romanzo omonimo di Don De Lillo, David Cronenberg realizza Cosmopolis (Id., 2012), testo di punta per comprendere – per quanto possibile – le logiche di un sistema votato all’azzeramento del fattore umano. Il regista canadese adotta un linguaggio criptico, verboso, nel quale le parole e i monitor sostituiscono le azioni e gli uffici. Campi e controcampi invece che steadicam e panoramiche; dialoghi (in)interrotti e straniamenti all’interno di un’automobile in perenne isolamento acustico. L’opera più estrema dell’autore porta alle estreme conseguenze simboliche e visive la logica economica attuale, configurando l’affarista 2.0 come una variazione spersonalizzata del suo predecessore.

L’atrofia emozionale di Eric Packer, (s)oggetto misterioso e totalmente estraneo alla realtà, è lontana dalle pulsioni cannibali di Gordon Gekko, archetipo di impossibile riattualizzazione, come dimostra l’anacronistico Wall Street: Money Never Sleeps (Wall Street. Il denaro non dorme mai, O. Stone, 2010), sequel di Wall Street che mette in scena lo stato liquido (ampiamente superato) delle cose. Il fattore umano, nel cybercapitalismo, è sterilizzato dall’inconsistenza dei dati, che fluttuano su schermi da guardare svogliatamente. La distorta ricchezza della gabbia dorata di Packer, però, viaggia verso l’autodistruzione assieme alla sua limousine, senza che il protagonista possa fare niente per impedirlo. Anzi, è Packer stesso a incoraggiare (inconsapevolmente?) l’annientamento del sistema che presiede, portato alla rovina proprio a causa di una mancata considerazione dell’elemento umano, dell’imprevedibile fattore naturale rappresentato tanto dalle oscillazioni inspiegabili dello Yen, quanto da una metaforica asimmetria alla prostata della quale il protagonista non ha mai compreso le ragioni. E se nel capitalismo gassoso del terzo millennio le ragioni della crisi sono incomprensibili persino agli occhi dei loro responsabili, è ben chiaro quanto il comune cittadino americano (mondiale) sia distante da ogni logica finanziaria, tagliato fuori da un mondo che, di fatto, nemmeno esiste sulla Terra.

Estrema e complessa, la pellicola di Cronenberg rende conto dell’endemica disfunzione alla radice dei collassi globali e chiude la prospettiva su nuovi, (im)possibili scenari, spalancando le porte del baratro. È il neozelandese Andrew Niccol, autore da sempre in anticipo sui tempi, a prefigurare un ulteriore scarto futuro nel suo In Time (Id., 2011), ambientato alla fine del XXI secolo in un mondo in cui la logica economica odierna, ormai completamente naufragata, avrà lasciato il posto al tempo come unità monetaria di scambio. Ma anche questo sistema postapocalittico, ancora una volta a matrice capitalista, sarà destinato all’inevitabile implosione, provocata dai giochi di potere dei nuovi Gordon Gekko temporali.

Solido, liquido, gassoso, immateriale: semplice questione di stati della materia, del tempo, delle cose. Questione totalmente ininfluente, nella rotta suicida verso la prossima crisi.

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