
L’ultima fatica di Spike Lee, BlacKkKlansman, è stata osannata da pubblico e critica, ricevendo il Gran Prix Speciale della Giuria a Cannes 2018 e il Premio del Pubblico al Festival di Locarno 2018: ma la carriera del regista americano è costellata di pietre miliari, come Lola Darling e Jungle Fever, oltre che di documentari e tv-movie, spot e videoclip.
Abbiamo chiesto a Lapo Gresleri, critico e storico del cinema, dal 2009 collaboratore esterno della Cineteca di Bologna e autore del recente saggio Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana (Edizioni Bietti Heterotopia, 2018), una panoramica su temi, stile, carriera e prospettive artistiche di questo stra-ordinario autore.
Come nasce il tuo interesse per Spike Lee e il suo cinema?
Spike Lee è un regista di rottura, che sin dagli esordi si è dimostrato capace di guardare con il dovuto distacco ma mai con estraneità alla complessità della società americana contemporanea, evidenziandone gli aspetti più conflittuali e contraddittori, quali sessismo, razzismo, relazioni e conflitti interrazziali, da un punto di vista mai incondizionatamente schierato da una parte o dall’altra, ma che anzi critica vittime e carnefici, bianchi o neri che siano. Di entrambi, l’autore mette in discussione concezioni e atteggiamenti semplicistici e passivi, visti come cause primarie dei contrasti che ancora ne minano i rapporti già di per sé difficili, facendone in definitiva le due facce della stessa medaglia, le due parti da cui deve partire la spinta verso una reale comprensione e accettazione dell’altro. Lentamente rivalutato in patria ad autore di rilievo nel panorama cinematografico coevo, in Italia la sorte del regista è stata opposta, finendo presto snobbato da buona parte della critica quasi non avesse altro da dire oltre a quanto già espresso nei primi film e dunque non necessitasse di ulteriore attenzione. Niente di più sbagliato, guardando alla prolifica produzione del cineasta e alla sua immutata capacità di graffiare la dura pelle americana, riaprendo ferite e sollevando questioni problematiche, spesso trascurate o ignorate volutamente per negligenza o comodità, ma che ora più che mai necessitano di un’urgente soluzione.In quali forme si esplicita, nel cinema di Spike Lee, l’orgoglio e il pregiudizio (cui fa riferimento il titolo del libro) che attraversano parallelamente la società americana?
Sono i limiti che maggiormente minano il vivere civile delle comunità di ogni contesto multirazziale. L’orgoglio è quello di appartenere al proprio gruppo etnico, caratterizzato da un insieme di valori e tradizioni limitato e riduttivo, perdendo così l’occasione di aprirsi a un quadro sociale più ampio, inclusivo e non esclusivo, che tenda a superare le differenze fisiche e culturali verso una non facile ma necessaria convivenza tra le parti. Il pregiudizio, invece, caratterizza la visione che ogni gruppo ha degli altri, attraverso un filtro che è il risultato della sommatoria di ignoranza e paura, che porta a inquadrare il diverso secondo preconcetti negativi presi tendenzialmente per veri perché comodi, dato che sviliscono l’altro e non chi li applica. Spike Lee rintraccia questi due atteggiamenti in tutto il contesto statunitense, non solo nei complicati rapporti interrazziali (come in Fa’ la cosa giusta, Jungle Fever, Bamboozled, Inside Man o BlacKkKlansman), ma anche all’interno delle singole comunità, tra ceti d’appartenenza (Aule turbolente, Bus in viaggio, Il sangue di Cristo), sessi (Lola Darling, Girl 6 – Sesso in linea, Lei mi odia), scelte e stili di vita (Mo’ Better Blues, He Got Game, S.O.S. Summer of Sam – Panico a New York, La 25a ora).
Quali sono le coordinate – sia a livello estetico che narrativo – necessarie per orientarci nel cinema di quest’autore così prolifico, spesso caustico e provocatorio, impegnato a raccontare la complessità della società in cui vive o in cui si sono avvicendate le generazioni precedenti?
Quello di Spike è un cinema stratificato, che può essere fruito sì sul piano lineare del racconto, ma anche e soprattutto in profondità, attraverso i numerosi rimandi visivi e sonori che il regista dissemina nei suoi lavori e accessibili in base alle conoscenze pregresse in materia da parte dello spettatore. Per comprendere appieno i film di Lee, non basta infatti conoscere la storia e la tecnica del cinema. Serve anche possedere un notevole bagaglio di nozioni storiche, politiche, sociali e culturali americane e ancora di più afro-americane, dove quel trattino tra le due parole funge da trait d’union tra il contesto originario africano e quello bianco di matrice europea assimilato dai neri fatti schiavi e poi rielaborato in una nuova forma che, mantenendo vive credenze, usi e saperi tradizionali, li ha combinati con quelli imposti dai padroni in una coscienziosa e orgogliosa manifestazione di un’identità “altra”, diventata con il tempo parte fondante della cultura statunitense e, di conseguenza, di quella occidentale (si pensi all’influenza di blues, jazz e rap e alle mode loro connesse). Un cinema intelligente e acculturato, la cui raffinatezza si nasconde spesso sotto l’aspetto di tradizionali e al tempo stesso innovativi film di genere.
Nel tuo lavoro racconti anche lo Spike Lee regista pubblicitario e televisivo: quali le sue opere maggiori in quest’ambito ed esistono delle differenze sostanziali rispetto la sua produzione per il cinema?
Spike Lee è un autore molto coerente, capace di portare avanti il proprio discorso e un personale punto di vista in qualsiasi campo dell’audiovisivo, dal cinema alla televisione, passando per spot pubblicitari e videoclip. La sua produzione televisiva, che siano documentari o regie di spettacoli dal vivo, si è sempre sviluppata parallelamente a quella di finzione, riallacciandosi alle tematiche centrali affrontate nelle diverse fasi della sua opera, riprese e trattate da un punto di vista alternativo, più neutrale ed equilibrato. Uno sguardo quindi apparentemente più distaccato, ma non meno partecipe verso i grandi temi della blackness a stelle e strisce, che offre agli afroamericani la possibilità di raccontare in forma diretta le proprie esperienze in fatto di razza, sia dal punto di vista comunitario (4 Little Girls, The Original Kings of Comedy, When the Levees Broke o Passing Strange), sia attraverso il ritratto di miti della storia e della cultura nera, sdoganandoli dagli stereotipi loro tendenzialmente attribuiti dai media (A Huey P. Newton Story, Jim Brown All-American, Mike Tyson – Tutta la verità o Michael Jackson: viaggio dalla Motown a “Off The Wall”).
Un discorso simile vale per i lavori pubblicitari, nei quali l’autore, mediando tra artisticità, etica e commercio, si fa tramite tra le imprese e il pubblico specifico che queste desiderano raggiungere, tentando – come insegnava Malcolm X – di responsabilizzare la comunità nera anche in fatto di moda e consumi, liberandola dal giogo della conformazione al sistema bianco con la proposta di modelli alternativi, espressione di una piena coscienza individuale e collettiva: un’affermazione socio-identitaria a cui anche gli afroamericani possono aspirare, come dimostrano la serie di spot Nike con Michael Jordan, quelli per l’Associazione United Negro College Found o quello per la campagna delle primarie di Bernie Sanders dal titolo emblematico Wake Up!.
Anche nei videoclip, Spike non manca di ascrivere i lavori al proprio universo culturale sin dalla scelta degli artisti con cui collabora, portatori di un messaggio positivo e costruttivo, coscienti del proprio ruolo comunicativo ed esempi consapevoli del passato afroamericano di cui si fanno eredi più o meno diretti, da Miles Davis a Kevon Carter, passando per Branford Marsalis, Stevie Wonder, Prince, Public Enemy, Arrested Development, Michael Jackson, Tracy Chapman, Naughty By Nature, Steve & The Negro Problem. Un’immagine dunque, quella di Lee, sempre in linea con i propri intenti, divenuta negli anni una sorta di marchio di un preciso modo di vedere e vivere la propria blackness, differenza evidente di cui andare orgogliosi, fondamento di un ideale confronto e dialogo.
Nella ricca filmografia di Lee c’è un film che tu ami particolarmente o che giudichi un vertice dal punto di vista della maturità artistica ed espressiva?
La produzione di Spike Lee può essere suddivisa in diverse fasi ognuna caratterizzata da un preciso intento, un fil rouge che collega tra loro le singole opere, naturale evoluzione di un ragionamento critico che, di film in film, partendo dal contesto specifico afroamericano arriva a parlare dell’intera società nazionale. La scelta di un solo titolo rappresentativo dell’intero percorso non è cosa facile, ma se dovessi suggerire da quale pellicola partire per avvicinarsi all’autore, la mia scelta ricadrebbe senz’altro su Fa’ la cosa giusta, per l’originalità stilistica, la ricercata costruzione delle immagini e la sceneggiatura curata nel dettaglio, che commistiona con perizia dramma e ironia conducendo lo spettatore, con abile ars retorica, all’unica possibile conclusione presentata sullo schermo, lasciandolo però libero di trovare da sé la cosa giusta da fare, la posizione da prendere verso lo scottante tema dell’integrazione nel complesso contesto contemporaneo. Dovendo invece indicare un vertice della maturità artistica dell’autore, opterei per La 25a ora, dramma interiore che si fa metafora dell’America ferita dopo l’11 settembre, costretta a fare i conti con il proprio passato, stavolta necessariamente da rielaborare e non rimuovere. L’immagine straziante di un Paese che troppo spesso ha guardato solo al proprio tornaconto secondo una logica conquistatrice e arruffona che per anni l’ha posto come unico portatore di libertà e giustizia, e che ora si trova smaccatamente sconfitto nei suoi ideali ed eroici modelli, qui mostrati in tutta la loro fragilità.
Lee guarda sempre al presente con l’intento di smascherare ipocrisie e falsi miti, portando alla luce le grandi questioni sociali irrisolte che caratterizzano il contesto americano e, in forma diversa, quello odierno europeo. Attento osservatore della realtà circostante, Spike vuole incessantemente fare aprire gli occhi allo spettatore, scuoterlo dal torpore passivo tipico dello spettacolo cinematografico, affinché si ponga domande e cerchi le proprie risposte, dentro sé e soprattutto nel confronto con gli altri. BlacKkKlansman è questo: un grido d’allarme sulle conseguenze a cui il Paese rischia di andare incontro con la pericolosa politica suprematista cavalcata da Trump. Penso che oggi più che mai, un cinema come quello del regista afroamericano sia indispensabile per fornirci strumenti utili a orientarci nella sempre più complessa società contemporanea; ma è compito nostro recepire tali segnali ed essere disposti a un gesto intellettuale che vada oltre la semplice visione.
Spike Lee in tre aggettivi?
Ironico, caustico, provocatorio.