Musica sintetizzata, insinuante e rarefatta di Jay Chattaway, uno che in quegli anni bazzica parecchia exploitation a stelle e strisce. Titolo rosso vivo, rosso sangue su fondo nero: «Maniac Cop». Interno oscuro, notturno. E poi, dettagli.
Distintivo e targhetta: «Cordell». Freeze frame, ed è già chiara l’identità del Maniac Cop in (s)oggetto. Guanti bianchi. Freeze frame. Fibbia. Freeze frame. Manganello. Pistola. Proiettili. Manette. Cappello. Sempre in primissimi piani. Sempre intervallati da fermi immagine con credits, tutti in rosso carminio. Infine una morbida dissolvenza incrociata, ad aprire lo scenario in cui mettere all’opera Cordell.
New York, establishing shot dall’Hudson River sullo skyline di Manhattan. Notte fonda, luci artificiali, e poco importa se gran parte delle riprese – eccezion fatta per necessari totali e qualche aerea connotativa dall’elicottero – sarà effettuata a Los Angeles. Polizia e metropoli: ascissa e ordinata di Poliziotto sadico sono già sul tavolo di lavoro e i titoli di testa non hanno ancora terminato la loro corsa. L’immediatezza iconografica di William Lustig e, più in generale, della scena underground statunitense impatta ancora oggi con la forza di una catenata.
Polizia e metropoli: corpi legati, dipendenti, comunicanti, il primo a tutela del secondo, il secondo a legittimazione del primo. Corpi marci, in cancrena, avviati a braccetto verso la fase terminale. La macchina da presa inquadra scorci di Brooklyn e Bronx maleodoranti, sfatti. Qualche carrello. Pochi in verità, perché i carrelli costano e con le produzioni di Larry Cohen e James Glickenhaus non si scherza. Meglio allora spenderli in apertura (la passeggiata della prima vittima) per buttare un po’ di fumo negli occhi, per poi adottare la camera fissa, che se ben collocata può impattare anche meglio. Anfratti putrescenti, dunque, in una notte che sembra mangiarsi il giorno. La città è in pericolo. La città è il pericolo, e dai vicoli vomita delinquenti come le due mezze tacche che aggrediscono una ragazza. Scippatori di strada, scippatori qualunque, a volto scoperto e persino sprovveduti: la ragazza se li beve a colazione, gli assesta un paio di colpi e scappa, in cerca di aiuto.
Un paio di svolte ed eccola: nel bel mezzo di un parchetto, la divisa. Polizia, garanzia di protezione e riparo. Una sagoma indefinita, in controluce tra i fumi nauseabondi esalati dai tombini, le linee dettate dagli spigoli della divisa e non dai tratti somatici di colui che la indossa. La città consegna la soluzione. La ragazza si avvicina. Il poliziotto l’afferra. La stringe. La solleva. Le spacca il collo come fosse di cristallo. Diagnosi: morte certa, della ragazza, della salvezza, delle certezze. La città ha bluffato, consegnando non la vittima al salvatore, ma la vittima all’assassino. Al maniac cop. Complici di annientamento, il corpo di polizia e il corpo urbano agiscono all’unisono. Dal produttore al consumatore, secondo logica capitalista: la metropoli fornisce una coppia in auto, al semaforo rosso, e il tutore dell’ordine compie la strage (con tanto di tergicristallo a spalmare sangue come già in Maniac [1980]); la metropoli prepara cemento fresco e il gigantesco sbirro sadico vi ci affonda il volto di un uomo fino a calcificazione. Vittime civili, innocenti. Scelte a caso, a campione, perché in questo primo atto di maniac cop l’obiettivo del killer è scatenare il panico, per colpire il sistema soltanto a caos sopraggiunto.
La città, poi, mette a disposizione i propri strumenti di comunicazione e manipolazione del pensiero per diffonderlo, questo panico: i telegiornali(sti) che si occupano del caso e i telereporter alla parata di San Patrizio – uno dei quali è interpretato da Sam Raimi: quarti di nobiltà de-genere – sono casse di risonanza indispensabili alla decostruzione delle certezze del cittadino. In parallelo, la polizia offre un maniac cop considerato un eroe dai colleghi – il giustizialista Cordell, nella “precedente vita”, era la crasi tra l’indole di Harry Callaghan, i metodi di Jimmy Doyle e l’invulnerabilità del RoboCop: «Matt credeva nel vecchio detto; prima spara e poi fai tutte le domande che vuoi» – e, nell’ordine, un commissario capo omertoso, un capitano reazionario e un tenente traumatizzato («Lei non sorride mai, tenente»), segnato da un tentato suicidio («Mi partì un colpo») in seguito alla morte di un collega. Un campionario di umanità in divisa in cui l’eroe finisce per essere l’ultimo arrivato, integerrimo nell’esercizio della professione ma marito falso, fedifrago e pericoloso («Ho paura di te», «Mi fai paura», afferma sua moglie prima di scoprirlo a letto con la collega).
«Agli sbirri piace uccidere, per questo sono sbirri»: l’uomo della strada emette la sua sentenza ai microfoni del telegiornale, attestando il decesso simbolico dei due organismi preposti alla sua sicurezza ben meglio di quanto non avesse fatto l’anatomopatologo di Sing Sing con quello di Matt Cordell, quando in carcere – nel momento di scardinante e lirica violenza espressiva restituito dal flashback nelle docce con ralenti e carillon – era stato ridotto a un colabrodo dagli stessi criminali che vi aveva sbattuto dentro, diventati bracci armati di coloro che in teoria sono la faccia sorridente della sicurezza cittadina: sindaco e capo della polizia, obiettivi ultimi del “nuovo” Cordell.
A questo proposito, lo statuto umano del maniac cop è un nucleo teorico interessante in seno alla riflessione sulle disfunzioni del corpo di polizia elaborata in sceneggiatura da Larry Cohen. Cordell, infatti, è stato salvato dalla morte dal suddetto anatomopatologo. Egli non è uno zombi, un ritornante, un mostro. Niente scorciatoie o ancore di salvezze simboliche: Cordell è (ancora) un uomo. Sfigurato da una camera ardente che aveva già iniziato il proprio lavoro, psichicamente tumefatto in via definitiva, sentimentalmente abolito, ma pur sempre uomo, contenitore di sprazzi di umana cognizione (riconosce e distingue la vecchia fidanzata Sally Noland) e sensibilità (ricorda la propria storia nella citata analessi). Soprattutto, contenitore di una violenza iperrealistica, per nulla sovrannaturale e fin troppo terrena nella sua brutale applicazione all’arma bianca. In Poliziotto sadico, dichiara Lustig, «Frankenstein incontra Il braccio violento della legge [1971, nda]», perché l’intenzione del regista e di Cohen è «realizzare il primo horror poliziesco della storia»1.
Missione compiuta, e così i conti tornano anche quando i proiettili impattano senza effetto su corpo e cranio di Cordell: come la creatura di Frankenstein, egli è Mensch e Übermensch, nel limbo di una terra di confine tra autenticità e artificio. È il prodotto di quei due corpi, uniti tanto nel pulire su di lui la propria coscienza quanto nel condannarne l’operato, mettendolo alla pubblica gogna. Ma la creatura si ribella ai creatori, facendone cibo per vermi come da spartito exploitation anni Settanta e Ottanta.
Testo a suo modo complesso, Poliziotto sadico, che dietro squarci slasher, spettacolari inseguimenti da poliziesco (il finale con salto in acqua del furgone sfoggia un comparto stunt di prim’ordine) e un marcato cerone artigianale – lo stesso che ricopre il volto del gigantesco Robert Z’Dar, che era stato poliziotto anche nella vita, affetto da cherubismo e anche perciò ideale per il ruolo2 – nasconde strati di riflessione sociale per nulla banali. Merito di un copione nato durante un pranzo che merita di essere quantomeno riassunto.
Il tavolo. Cohen e Lustig, uno di fronte all’altro. Il primo chiede al secondo perché non abbia mai pensato a un sequel di Maniac, ma questo risponde che per lui Maniac va bene così com’è. Allora Cohen rilancia, proponendo la storia di un maniaco in versione sbirro e Lustig, senza nemmeno pensarci, aderisce al progetto, chiama Bruce Campbell («Bruce, c’è un film con Larry Cohen che si chiama Maniac Cop») e dopo sei mesi si gira. In quegli anni la scena di genere underground statunitense è così, diretta come un gancio al mento, tutta entusiasmo e niente fronzoli. Cohen ha uno spiccato senso pratico, è uno che sotto pressione lavora meglio, perciò insegna al sodale i segreti dell’ottimizzazione. Il cast reclutato per l’occasione ha dell’incredibile: il divo Campbell di La casa (1981) e La casa 2 (1987, di nuovo torna fuori il nome di Raimi), mister Shaft (1971) Richard Roundtree, l’ex “nuova Marilyn Monroe” Sheree North, il carpenteriano Tom Atkins attivo anche in Arma letale (1987) e il veterano William Smith non sono propriamente nomi da serie B. A corredo, la sfiziosa apparizione di zio Jack LaMotta in veste di detective e, ça va sans dire, quella dello stesso Lustig come manager del motel.
La sceneggiatura di Poliziotto sadico è scritta in corso di pre-produzione, saccheggia un po’ RoboCop di Paul Verhoeven (1987) e un po’ il summenzionato Il braccio violento della legge di William Friedkin, un po’ Frankenstein di James Whale (1931) e un po’ i coevi horror low budget a beneficio di un costrutto originale, al punto da rendere il film un indefesso ispiratore. A partire dal lavoro cohen-lustighiano, infatti, nel giro di una manciata d’anni prende vita un vero e proprio filone che, dallo sbirro satanista (e moralista) di Psycho Cop di Wallace Potts (1989), si srotola fino a Psycho Cop 2 di Adam Rifkin (1993), passando per il Demon Cop licantropo di Rocco Karega e Hal Miles (1990), il Vampire Cop succhiasangue di Donald Farmer (1990), il post-atomico Omega Cop di Paul Kyriazi (1990) e lo Zombie Cop ritornante e super trash di J. R. Bookwalter (1991).
Dalla serie B alla Z, insomma, la polizia genera mostri in salsa action, poliziesca, slasher, thriller e horror – e i titoli citati sono solo parte di un campionario che si estende fino a Hong Kong (il Magic Cop mago-stregone di Wei Tung [1990]) e propone anche il suggestivo Samurai Cop di Amir Shervan (1991), il cui antagonista è interpretato proprio dal nostro Robert Z’Dar. Al di là della mera elencazione, questo gruppo di opere – di per sé abborracciate – testimoniano la valenza iconica di Poliziotto sadico, capace di configurare un piccolo universo di significanti e significati di immediata comprensibilità e altissimo coefficiente di impatto segnico. La divisa come catalizzatore simbolico, la società urbana e le sue ricadute come fondali tematici, l’exploitation come linguaggio estetico-musicale: intrecciando topoi con professionalità e sapienza narrativa, Cohen e Lustig segnano un punto importante nel percorso di genere statunitense.
Lo intuiscono, anzi lo sanno, dato che mettono in cantiere Maniac Cop. Il poliziotto maniaco (1990) e poi Maniac Cop 3. Il distintivo del silenzio (1993), cavalcando l’onda. Lo sanno anche altri, come appena visto. E tra quegli altri, più di quegli altri, lo sa Nicolas Winding Refn, che per anni studia il testo di partenza, la sua imperitura contemporaneità, e nel 2019 ne annuncia un reboot in forma seriale.
Tra quegli altri, però, non ci sono i distributori italiani della Penta Film, che recuperano Maniac Cop soltanto dopo avere acquistato il secondo atto nel 1991 e averlo spacciato come primo con il titolo Maniac Cop. Il poliziotto maniaco, a fronte dell’originale Maniac Cop 2. Nelle sale tricolori, quindi, l’originale – dopo un passaggio al Fantafestival nel 1988, anno di effettiva realizzazione – esce nell’agosto del 1992 con, appunto, il titolo Poliziotto sadico. Misteri e obbrobri di una distribuzione miope, che rimedia grottescamente – sbugiardando se stessa – con l’uscita home video, intitolata Maniac Cop. Poliziotto sadico nella versione vhs targata Penta Video. Matt Cordell non avrebbe avuto pietà di loro.
Note
1 Dichiarazioni rilasciate da William Lustig a Marc Toullec e contenute negli extra del dvd francese distribuito da Edito nel 2003.
2 Il cherubismo è una malattia genetica fibro-ossea caratterizzata da un’espansione bilaterale progressiva della mandibola e/o della mascella.
CAST & CREDITS
Titolo originale: Maniac Cop; regia: William Lustig; soggetto: Larry Cohen; sceneggiatura: Larry Cohen; fotografia: James Lemmo, Vincent J. Rabe; scenografia: Jonathan R. Hodges; montaggio: David Kern; musiche: Jay Chattaway; interpreti: Robert Z’Dar (Matt Cordell/Poliziotto sadico), Tom Atkins (tenente Frank McCrae), Bruce Campbell (Jack Forrest), Laurene Landon (Theresa Mallory), Richard Roundtree (commissario Pike), William Smith (capitano Ripley), Sheree North (Sally Noland), Nina Arvesen (Regina Sheperd, come Nina Aversen); produzione: Shapiro-Glickenhaus Entertainment; origine: Usa, 1988; durata: 85’; home video: Blu-ray Arrow Video (import Gran Bretagna), dvd Storm Video; colonna sonora: inedita.