"Hit List. Il primo della lista". Bersaglio: magistratura
Fabrizio FogliatoL’epigrafe di D.H. Lawrence riassume lo spirito, la linfa antropologica e concettuale del cinema di William Lustig: «L’essenza dell’anima americana è dura, alienata, stoica, e assassina». All’elencazione di aggettivi il regista di New York ne aggiunge un quinto: «Ridicola».
Non a caso Hit List. Il primo della lista (1989) diluisce, lungo la sua durata, una serie di riferimenti agli Stati Uniti presenti e passati con l’intento di demistificarne la storia e l’epica: dalle citazioni ridicole di J. Edgar Hoover («Non c’è nessuna mafia») e Nancy Reagan («Dico solo no») messe in bocca al mafioso Vic Luca e al suo tirapiedi Frank DeSalvo, fino al rifugio di Caleek alla Lincoln Laundry Corp., struttura abbandonata che, nell’ultima mezz’ora, fa da controcampo ambientale all’edificio marmoreo e altrettanto spersonalizzato del palazzo della Corte Federale. Sullo sfondo, non più la New York da incubo e primitiva degli esordi, ma una Los Angeles totalmente fuori campo.
Il film relega l’immagine da cartolina della megalopoli nell’estetica in stile Miami Vice dei filtri fotografici; per il resto non ci sono immagini metropolitane di grattacieli, viali circondati da palme o locali alla moda, ma solo dissestate strade di periferia, sopraelevate di confine, ciminiere dell’industria chimica, serbatoi dell’acqua intrecciati a fatiscenti tralicci. La L.A. della pellicola è una città vista sempre in lontananza (spesso inquadrata con campi lunghi), estraniata dalla sua natura edonistica dell’epoca e straniante nell’integrazione di una società il cui unico obiettivo sembra essere l’accumulare denaro. Il tema è come sempre l’irruzione, veicolata – prima ancora che tramite quella del killer nella tranquillità domestica e fasulla da villetta con steccato bianco di Jack Collins – dall’impossibilità della scelta, derivativa del padre nobile Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin (1985), perché nella città degli angeli si possono solo fare le due cose contemporaneamente e l’alternativa è (ontologicamente) negata. Entrambe le azioni non sono scelte dell’individuo, ma situazioni deterministiche: trovarsi al posto giusto nel momento giusto (per vivere) e trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato (per morire).
In una California che trasuda i miasmi del cimitero, stretta sotto un cielo acido che ha il sapore del piombo, Lustig imbastisce un nuovo tassello della sua feroce e iconoclasta critica al sistema, ancora una volta declinando la narrazione verso la parodia. Hit List è la sagra del fallimento, dell’insipienza, dell’inettitudine e della ferocia da fumetto di terza classe: tutti sbagliano e si mettono in ridicolo, mentre ogni ambito è profanato nella sua sacralità (la sepoltura iniziale, la Corte Federale, l’azione dell’FBI, le dinamiche mafiose…). Vic Luca è un boss mafioso circondato da incapaci, che rubano duecento televisori ma si dimenticano dei telecomandi; il capo grugnisce, sbraita ma è timoroso della moglie (come dimostra l’affermazione di DeSalvo sulla malattia venerea che il mafioso ha trasmesso alla consorte dopo un rapporto con una prostituta); un boss afferma: «Quando i miei sono felici, sono felice anch’io; quando loro sono infelici, io sono infelice; e quando io sono infelice, allora chiamo te». Si rivolge a Caleek, il suo killer di fiducia nascosto dietro la rispettabile e grottesca occupazione di venditore di scarpe: forgia le sue armi dentro un garage come il dio Vulcano, guida un veicolo nero targato “1 killer”, irrompe come un ninja in una prigione federale dove fa strage di secondini e detenuti («Quel tale è così perverso che non sarà nemmeno seppellito in terra consacrata», afferma DeSalvo), per poi vanificare tutto il suo mistero e la sua abilità da villain maledetto e immortale sbagliando clamorosamente l’obiettivo del sequestro, ingannato da un numero civico la cui ultima cifra – non fissata correttamente – ruota da 9 a 6.
La fine di Caleek – dopo un incredibile inseguimento in stile Terminator (1984) – è stampata sul pannello segnalatore che riporta la scritta “ironica”: «Wrong way. Severe tire damage». Dall’altra parte della barricata gli agenti federali Tom Mitchum e Jared Riley si comportano peggio dei criminali a cui danno la caccia: non esitano a minacciare e percuotere il testimone-criminale che deve deporre contro Vic Luca, agiscono totalmente al di fuori delle regole sia ricattando il criminale («Se collabori con me, Frank… Ti sistemo per tutta la vita»), sia intimando a un sottoposto di incarcerare l’innocente Collins («Dopo che ha visto la moglie, sbattilo dentro»), il cui unico torto è di non avere fissato bene l’ultima cifra in ferro battuto del suo numero civico ed essere così diventato bersaglio inconsapevole dello spietato Caleek.
Soprattutto Mitchum – rancoroso, malato di tumore e ossessionato da Vic Luca – appare come il più incline alla violazione della legge pur di raggiungere il suo ultimo obiettivo: fare condannare il boss. In realtà, ancora una volta, Lustig – che, va detto, è un regista geniale a scartamento ridotto, ad autonomia limitata – spariglia le carte perché ribalta in positivo l’atteggiamento di Mitchum in relazione all’ambiente in cui si muove: corrotto, popolato da colleghi pronti a tradire e a mettersi al servizio del crimine nascondendo microfoni nel suo ufficio; una polizia che – come ricorda Frank – è la prima a doversi sedere sul banco degli imputati: «Ho dato più da mangiare io ai poliziotti che il fondo pensioni della polizia».
Ma il bersaglio grosso del cult-director del Bronx – (anatomo)patologo del corpo di polizia di N.Y. con il trittico Maniac Cop – questa volta è un altro: la magistratura. Il pubblico ministero che rivolge le domande a DeSalvo è imbelle, pavido e ridicolo quando, parlando di crimine organizzato, chiede al testimone se abbia o meno partecipato ad attività illegali o immorali (accento parodistico sul puritanesimo made in Usa), ma è un gigante al confronto del giudice federale che, accusando apertamente Vic Luca di essere un criminale, cancella l’imparzialità del suo essere giudice, annulla in pochi secondi la proaia deontologia professionale e, soprattutto, fa miseramente naufragare il processo e assolvere Luca, mortificando il duro lavoro di Mitchum e soci. A loro non resta che la dignità: offrono a DeSalvo la loro macchina per correre in aiuto di Collins alla ricerca del figlio, neutralizzare Caleek e reinventarsi (forse) una vita da “regolare”. Mitchum, a questo, aggiunge la vendetta: uccidere Luca e gettare pistola e distintivo alle ortiche.
Prima dei titoli di coda, Lustig riafferma dunque la sua filosofia politically uncorrect di sempre: quando la giustizia legale non produce risultati entra in gioco quella morale. E l’uomo della strada fa giustizia. God Bless America.
CAST & CREDITS
Titolo originale: Hit List; regia: William Lustig; soggetto: Aubrey K. Rattan; sceneggiatura: John F. Goff (come John Goff), Peter Brosnan; fotografia: James Lemmo (non accreditato); scenografia: Pamela Marcotte; montaggio: David Kern; musiche: Garry Schyman; interpreti: Jan-Michael Vincent (Jack Collins), Leo Rossi (Frank DeSalvo), Lance Henriksen (Chris Caleek), Charles Napier (Tom Mitchum), Rip Torn (Vic Luca), Harold Sylvester (Brian Armstrong), Jere Burns (Jared Riley); produzione: Cinetel Films, Hit List Productions; origine: Usa, 1989; durata: 87’; home video: Blu-ray inedito, dvd inedito, vhs Warner Bros.; colonna sonora: inedita.