Su Disney, l’Alchimia e infine Apollo

Sebastiano Fusco
Walt Disney – Il mago di Hollywood n. 10/2015
Su Disney, l’Alchimia e infine Apollo

«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?» chiede la perfida regina Grimilde al suo magico strumento. Lo specchio aveva sempre risposto: «Sei tu». Ma stavolta, con malcelata soddisfazione, inaspettatamente la gela: «È Biancaneve». Comincia così una delle più famose – se non la più famosa – tra le fiabe di tutti i tempi. Perché Biancaneve era diventata la più bella? Perché nel frattempo aveva incontrato il Principe Azzurro e se n’era innamorata. Trasfigurata dall’amore, aveva superato in bellezza la matrigna. A questo punto, per diventare la più bella, non le resta altra via che uccidere la figliastra. Gli eventi si susseguono rapidamente: chi è incaricato del crudele assassinio non se la sente e risparmia la fanciulla innocente. Biancaneve fugge e trova riparo presso i nani, sennonché la regina, trasformatasi in strega, la raggiunge e le offre una mela avvelenata. Biancaneve muore, ma un bacio del suo principe la fa rivivere. Se la fiaba di Biancaneve è così famosa, lo si deve non tanto alla versione trascritta dai fratelli Grimm, quanto al fatto che nel 1937 Walt Disney, con la sua trasposizione in cartone animato a colori, ne fece la vera pietra d’angolo sulla quale costruì uno dei più grandi imperi mediatici e dell’entertainment contemporanei. Il riferimento alla “pietra d’angolo” non è casuale: da decenni circola la leggenda che Walt Disney fosse un massone d’alto grado, bene addentro nei risvolti esoterici delle dottrine circolanti presso i “figli della vedova”, e che nei suoi cartoni animati facesse opera di diffusione di simbolismi nascosti, atti a veicolare le giovani menti verso un tipo di conoscenza e di acquisizione del sapere ben diversi da quelli praticati dalla gioventù americana dei suoi tempi (per non parlare di quella di oggi). Internet pullula delle più strane teorie “cospirative” nei confronti di Disney, cui non si perdona di essere stato uno dei più fieri sostenitori e finanziatori della destra americana, ed esiste una folta saggistica in cui si arriva ad affermare che sia stato un satanista, intento a predisporre gli imberbi fruitori dei suoi film ad accogliere l’avvento dell’Anticristo. Tutte stupidaggini, ovviamente. L’unica cosa accertata è che, da adolescente, s’iscrisse a un’associazione studentesca di filiazione massonica intitolata a Gilles de Molay, l’ultimo Gran Maestro dei Templari, che morì martire sul rogo. In rete circola anche un cartoon in cui si vede Topolino inaugurare i lavori di una rusticana “loggia de Molay” in cui sono esibiti simboli massonici come la croce templare e l’acacia.

Andare a cercare la verità in documenti di difficile reperimento e dubbia autenticità è, tutto sommato, inutile. A mio modo di vedere, per capire un artista (ed è indubbio che Disney, a suo modo, lo fosse) più che studiare il suo curriculum, palese o nascosto, è opportuno sviscerare i significati, palesi e nascosti, delle sue opere. Mi è parso significativo, in questo senso, andare a vedere quali conclusioni possano trarsi dall’esame, dal punto di vista del simbolismo tradizionale, dell’opera sulla quale costruì la sua fama e la cui lavorazione, secondo i biografi, seguì con maniacale attenzione, ovvero Snow White and the Seven Dwarfs, in italiano Biancaneve e i sette nani.

Cominciamo dall’aspetto della protagonista, che è piuttosto anomalo rispetto alle altre eroine disneyane: contravvenendo alle convenzioni di Hollywood, infatti, ha i capelli neri. Nel cinema americano, specie nella prima metà del secolo scorso e in buona misura fino ad oggi, le eroine belle e virtuose erano bionde, mentre le maliarde perverse erano brune. La chioma dell’innocente e dolcissima Biancaneve è insolitamente corvina e rappresenta un unicum nella produzione disneyana: Cenerentola è bionda, la Bella addormentata nel bosco è bionda, Alice è bionda, la Wendy di Peter Pan è bionda, la Sirenetta ha i capelli rossi, la protagonista de La Bella e la Bestia è castana. Si è trattato di una scelta audace, che rischiava di suscitare un moto di antipatia nei piccoli spettatori, abituati ad associare il nero alla malvagità, tanto più che questo è anche il colore che connota la perfida Grimilde, annullando così il contrasto immediato e percepibile fra nero/male e biondo/bene. Per capire le ragioni della scelta, bisogna rifarsi all’antefatto della fiaba, per come narrato dai fratelli Grimm. La vera madre di Biancaneve, anche lei regina, mentre sta ricamando ai margini di una foresta innevata, si punge un dito. Vedendo la goccia di sangue sulla neve depositata fra i tronchi anneriti dall’inverno, esprime il desiderio di avere una figlia con i capelli neri come l’ebano, la pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue. Viene esaudita, ma muore nel darla alla luce. Su questo antefatto – che, se non esplicitato, non permette di capire molte cose, compreso il nome della protagonista – Disney non si dilunga, ma accoglie, a suo rischio, la versione dei Grimm. Decisione singolare, se si pensa che in altri casi non ha esitato a modificare, anche profondamente, la trama delle fiabe da cui aveva tratto ispirazione. Ma anche scelta obbligata, se ci riferiamo al simbolismo tradizionale: i tre colori che caratterizzano Biancaneve sono infatti basilari nell’operazione alchemica che mira alla trasmutazione del Sé: l’Opera al nero, l’Opera al bianco e l’Opera al rosso.

Partendo da ciò, ci si rende conto che tutto il film, cioè la vicenda di Biancaneve, è la metafora di una trasmutazione alchemica. S’inizia con il presagio di morte, ovvero l’intenzione di uccidere Biancaneve da parte della regina. Se fate caso alle sequenze del film, le tonalità cromatiche (fattore al quale Disney prestava estrema attenzione) di questa sequenza sono tutte impostate sul cupo, sul tenebroso. Quando compare, Biancaneve è un’isola chiara in un mare di buio. Per gli alchimisti questa fase è detta Notte Nera dell’Anima o Opera al nero: la profonda disperazione che ci coglie quando ci rendiamo conto di esser vissuti, fino a quel momento, del tutto inutilmente, destinati soltanto a scomparire. Mutatis mutandis, è la disperazione che coglie Dante quando si scopre nella “selva oscura” e comprende di aver smarrito la “retta via” verso la trascendenza.

Quella selva che Biancaneve è costretta ad attraversare, fuggendo alla cieca. Non ha un Virgilio a guidarla e scappa via, finché non cade a terra, esausta. Allora le si raccolgono intorno gli animaletti del bosco, che vegliano su di lei, la confortano e infine la conducono alla casetta dei sette nani. Anche qui, il simbolismo è palese. In questa seconda fase, che gli alchimisti chiamano Opera al bianco, si deve fare chiarezza dentro di sé. Bisogna portare alla luce (al bianco) tutte le istintualità positive, tutte le pulsioni verso l’alto, le indicazioni della “retta via” che, ignote a noi stessi, sono nascoste nel nostro profondo, nei recessi della “selva oscura”, vista come lo strato infimo del nostro inconscio, se vogliamo usare un’interpretazione di tipo junghiano. Non dobbiamo cercarle deliberatamente: come le creaturine del bosco, saranno loro a presentarsi a noi, con un moto spontaneo. Dobbiamo solo riconoscerle e accoglierle: ci guideranno verso un approdo sicuro.

Quest’ultimo è la casetta dei nani, creature che scavano nelle gallerie di una miniera per estrarne diamanti, traendo la luce dal buio. Il senso di questa metafora è talmente ovvio che non vale la pena di dilungarvisi. Si può tuttavia sottolineare che i nani, per loro natura, sono forze ctonie, che dimorano e agiscono nel profondo. Sono ambivalenti: possono trascinarci verso il basso, in gallerie sempre più interne ed oscure, se non abbiamo fatto chiarezza entro noi stessi; oppure possono essere gli strumenti chiave della nostra elevazione, se sappiamo catturarne la benevolenza.

I nani illuminano il buio delle gallerie con il fuoco rosso delle torce: saperli gestire è la terza fase, l’Opera al rosso. Essi sono le forze agenti che guidano il nostro psichismo profondo. L’alchimista deve prendere contatto con esse, comprenderne la natura e utilizzarle per emergere dalla miniera. Nel film Disney ogni nano ha una sua caratteristica: uno è saggio, l’altro è iracondo, un terzo è gioviale, un altro cupo e così via. Chi conosce il simbolismo magico non tarderà a vedere in ciascuno di essi l’aspetto di una delle sette forze cosmiche, rappresentate anche dalle sette divinità e dai sette pianeti, che secondo l’antica cosmologia tradizionale governano l’universo. Queste forze permeano l’Essere, tanto nella sua struttura generale quanto in ogni sua più piccola partizione. Si trovano anche, ovviamente, nell’uomo, Microcosmo in cui si stempera e sintetizza il Macrocosmo. L’alchimista, il mago, deve individuarle entro di sé grazie alla rossa luce del fuoco interiore e imparare a rapportarvisi. In altre parole, deve “ballare con loro”, come fa Biancaneve coi nani.

A questo punto l’aspetta una prova. Biancaneve è sola nella casetta e si sente al sicuro, protetta dagli animali della foresta, tranquillizzata dal rapporto con i suoi nuovi amici (che peraltro le avevano raccomandato di “non aprire a nessuno”). Le si presenta Grimilde, trasformatasi in una vecchietta dall’aspetto non certo piacevole ma innocuo, offrendole un bel frutto profumato: una mela. La tentazione è forte (sul simbolismo della mela come metafora della tentazione non mi pare il caso di spender parole, avendoci già pensato il Padreterno). Poiché la natura umana è debole, se le prove che ha superato non sono state sufficienti a rafforzarla adeguatamente, è fatale che ceda alla tentazione, ovvero al richiamo della vita terrena, simboleggiata dal gusto di un frutto delizioso (i frutti nascono dalla terra). Biancaneve apre la porta, spezzando il guscio protettivo creato intorno alla sua anima, e morde la mela, che è avvelenata. Muore.

È il destino di chi s’incammina lungo la via della trascendenza senza essere ancora sufficientemente forte per sovrastare tutti gli ostacoli: si tratta di un iter impervio, come ben sa chi lo pratica. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. In Alchimia, la prova fallita da Biancaneve si chiama uccisione dell’Etiope. L’Etiope è l’Uomo Nero, simbolo della nostra metà oscura, che si ribella al tentativo d’annullamento e lotta per riottenere il predominio. Jung lo chiamava Ombra, il doppio oscuro di noi stessi: celato nel profondo dell’inconscio, manovra invisibili fili che determinano il nostro comportamento. In pochi, come s’è detto, sono in grado di fronteggiarlo: Biancaneve cede, senza neppure tentar di resistere alla lusinga della strega vestita di nero.

A questo punto, però, la fiaba presenta una svolta improvvisa e straordinaria. La fanciulla è chiusa in una bara di cristallo, con intorno i nani e le creature del bosco, che la piangono. Si avvicina il Principe Azzurro, scomparso all’inizio del film, che la bacia, restituendola alla vita. Si chiude così un cerchio meraviglioso. La vicenda inizia con Biancaneve che, trasfigurata dall’amore per il principe, acquisisce la suprema bellezza, ovvero il principale attributo, come asserì Platone, anzi l’identificazione stessa, di Dio. Ed è quello stesso amore a ridarle la vita, superando anche la debolezza umana.

Letto in questa chiave, cui ho appena accennato – ci sarebbero da scrivere centinaia di pagine a proposito – il film di Disney è una narrazione iniziatica che regge (e, a mio parere, supera) il confronto con le Nozze Chimiche. È abbastanza interessante notare come la conclusione sia del tutto difforme da quella della fiaba, nella versione dei Grimm. Nel loro testo il Principe Azzurro non compare all’inizio, ma soltanto alla fine, e il suo bacio non ha alcuna funzione salvifica: semplicemente, mentre viene trasportato il sarcofago di Biancaneve, uno dei portatori inciampa in una radice, la bara s’inclina e dalla bocca della fanciulla esce il morso della mela avvelenata, facendola rivivere. Il principe la vede bellissima, e la sposa. Punto. Questo mutamento cruciale della trama, che ne approfondisce sostanzialmente il significato, potrebbe essere un indizio a favore di quanti sostengono come Disney possedesse vaste conoscenze in campo esoterico. Ma potrebbe anche essere soltanto un inconsapevole colpo di genio degli sceneggiatori.

D’altra parte, ci sono ulteriori indizi. Ne cito soltanto due, fra i molti che mi sono divertito a individuare, per non fare di questo modesto scritto un trattato sul simbolismo esoterico.

Il primo è la descrizione dello specchio magico di Grimilde. Se nella fiaba è semplicemente uno specchio parlante, nel film è invece uno strumento per evocare, con un rito magico, uno spirito, di cui s’intravvedono le fattezze, che fornisce responsi al suo evocatore. Questa procedura, illustrata da diversi grimori come la Chiave di Salomone, consisteva nel richiamare dal suo remoto intermundio un’entità disincarnata per interrogarla, costringendola non in un cerchio magico ma in uno specchio o un cristallo. Non sono in molti a conoscere una simile procedura e mi sorprende che negli anni Trenta vi fosse qualcuno a Hollywood che ne sapesse qualcosa.

Il secondo indizio è la palese identità tracciata fra Grimilde e Biancaneve. Le due figure, in realtà, sono facce opposte della stessa persona, la polarità positiva e quella negativa di un’unica individualità. Ognuno di noi è un mix di due identità diverse, e la personalità che si manifesta spesso varia a seconda che prevalga l’una o l’altra. Compito del mago che agisce su se stesso è valorizzare al massimo la polarità positiva, traendo da quella negativa soltanto i tratti che servono ai suoi scopi (o viceversa, se ci si sente più attratti dal male che dal bene). Ci sono molte procedure che indicano come far ciò, tutte piuttosto complesse, descritte nei trattati sullo psichismo magico. Sarà un caso, ma nel film non c’è alcuna scena nella quale si vedano insieme Grimilde e Biancaneve: quando compare l’una, l’altra svanisce. L’unica eccezione è la scena in cui Grimilde offre a Biancaneve la mela avvelenata: ebbene, in quel caso non è più la regina ma la strega cattiva, ovvero la quintessenza della polarità negativa, estrinsecatasi completamente grazie a un’operazione magica dal mix Grimilde-Biancaneve.

Non so, francamente, se quanto ho scritto porti acqua al mulino di quanti sostengono la tesi del Disney esoterista. Per la verità, non era neanche mia intenzione andare ad accertarlo: che cosa fosse Disney non m’interessa per nulla, m’interessa soltanto ciò che si può leggere in filigrana nella sua opera.

A questo proposito vorrei chiudere con una piccola osservazione personale. So benissimo, anche perché mi è stato rimproverato molte volte da parte di critici benpensanti, che questo mio modo di analizzare i testi, fondato su simbolismi arcaici come quelli dell’alchimia e della teurgia, dia l’impressione di un esercizio da acchiappanuvole, perché vuol trarre significati particolari da forme che si prestano a un’infinità d’interpretazioni, quasi tutti completamente estranei alle intenzioni e alla cultura degli autori. Risponderò citando uno fra i miei più cari e compianti amici, il grande scrittore e divulgatore Isaac Asimov, con il quale ho avuto un continuo rapporto epistolare e telefonico durato vent’anni e più, quando mi occupavo di varie riviste di divulgazione scientifica come «Test/Scienza 2000», «Teknos» e «Mysteri», per le quali lui scriveva in ogni numero un articolo originale.

Nel primo volume della sua biografia, intitolato In Memory Yet Green, racconta un episodio. Ancora giovane, aveva acquisito una certa fama per aver scritto uno splendido racconto di fantascienza intitolato Nightfall. Un giorno, passando davanti a una sala per conferenze a New York, vide con stupore che era in programma una dissertazione sul suo racconto, da parte di uno stimato professore di letteratura tedesco. Entrò senza farsi riconoscere e ascoltò la lunga esposizione dell’accademico, che illustrò una serie di significati, simbologie, metafore e conclusioni che si traevano dal testo. Alla fine Asimov si avvicinò al professore, gli rivelò di essere l’autore della storia e gli disse che la sua conferenza era tutta sbagliata. «E perché mai?» chiese. «Perché nessuna delle cose che ha detto mi sono mai sognato di pensarla, mentre scrivevo il racconto» ribatté lui. «Giovanotto» gli rispose il professore, «mi spieghi perché mai lei ritenga di conoscere tutti i significati inerenti a quel che ha scritto per il solo fatto di averlo scritto.» All’inizio Asimov prese la risposta come una battuta. Poi, ragionandoci su, si rese conto che lo stimato professore tedesco aveva ragione: buona parte dell’elaborazione letteraria avviene a livello inconscio. L’autore non sa da dove gli vengano le idee, sa soltanto che gli vengono. Lavorare sui simboli significa appunto portare alla luce associazioni di significati elaborate inconsapevolmente. E nelle profondità di noi stessi ci sono cose di cui non sospettiamo nemmeno l’esistenza.

Nel corso di una delle mie lunghe conversazioni telefoniche transoceaniche con Asimov richiamai l’episodio e gli chiesi se fosse ancora dello stesso parere. Mi rispose che lo era più che mai, anche perché ogni volta che rileggeva un suo testo per inserirlo in un’antologia vi scopriva significati che lui stesso non sospettava. È proprio per questo motivo, gli dissi, che gli Antichi avevano preposto un dio alla creazione artistica: Apollo, che è anche il dio della rivelazione profetica, quello che parla attraversi i vati. Mi rispose che, a lui, del “vate” non glielo aveva mai dato nessuno, e ci facemmo una bella risata.

Ovviamente, neanche Disney era un vate. Ma credo profondamente che dalla sua opera, come da quella di molti altri artisti, si possa cogliere una scintilla della luce di Apollo, con buona pace dei benpensanti.

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