Introduzione: perché Walt Disney?
Gianfranco de Turris
Perché mai Antarès si dovrebbe occupare del signor Walter Elias Disney da Chicago, un volgare fumettaro, un pupazzettaro, dopo aver dedicato i suoi fascicoli a nomi come Tolkien, Lovecraft ed Eliade, o a temi impegnativi come l’economia alternativa, l’America o l’Occidente “occulto”? Quello che durante il deprecato regime venne definito “il Raffaello del cattivo gusto”, che nel dopoguerra fu accusato dai pedagogisti di disabituare i ragazzini a leggere, scrivere e parlare con i suoi “fumetti” (mentre oggi, invece, grazie ai messaggini telefonici e ai cinguettii di centoquaranta caratteri, sanno parlare, scrivere e pensare assai meglio) e che addirittura, per lavare l’onta di bieche classificazioni politiche, esattamente dieci anni fa è stato recuperato e “redento” a sinistra? Proprio perché Mr. Disney non è affatto questo, è assai di più e lo si deve interpretare nei suoi molteplici aspetti e sfaccettature.
Ecco l’idea di fondo di questo numero, messa in pratica con un manipolo di critici e narratori, proponendo, oltre a racconti di grande originalità, soprattutto saggi variegati e documentati che non si peritano d’imboccare strade inconsuete e perigliose agli occhi dei conformisti e degli ortodossi, esperti di fumetti o meno che siano (ovviamente i più intransigenti sono i primi, i quali non amano che si entri nel loro hortus conclusus). Dovranno farsene una ragione.
Come sempre, sin dal suo numero zero, Antarès va controcorrente, cercando percorsi inusuali e per certi versi proibiti, ma che sollecitino curiosità e stuzzichino l’intelligenza. Anche stavolta lo fa.
Walt Disney è noto per essere non solo l’inventore di una lunga e celeberrima serie di personaggi dei fumetti, animali parlanti – cani, gatti, topi, cavalli, mucche – come quelli delle favole classiche, per di più umanizzati e via via con sempre maggiori problemi “umani”, al punto che alcuni di essi, come Paperino, sono diventati emblematici di un certo tipo di carattere e personalità; non solo il creatore/ispiratore di cartoni animati entrati nella storia del cinema e dell’Immaginario Collettivo che resteranno immortali (a mio parere soprattutto Fantasia, un capolavoro assoluto, di cui il successivo Fantasia 2 è solo una pallida imitazione che pochi ricordano); non soltanto il creatore di luoghi come le varie Disneyland, dai più considerate il trionfo del kitsch capitalistico americano, ma in realtà qualcosa d’altro che qui ci si propone di indagare e che di certo sorprenderà e magari indignerà i luogocomunisti a destra e a manca. Antarès si è prefissata proprio questo compito, quello di occuparsi di temi e personaggi che sollevino domande, incredulità e indignazione in una cultura – alta, media e bassa – che ormai dell’ovvio, dello scontato e della banalità ha fatto la propria regola. Guai a chi esce dai binari, sporge il capo dalla finestra, scavalca i recinti, sega le sbarre. Cioè osa guardare, e poi andare oltre, nei territori che vengono definiti “proibiti” dalla Psicopolizia.
Antarès ha idee ben chiare su cosa ha intenzione di trattare e su come lo farà. Per osservare il mondo della cultura in maniera diversa dal conformismo generale ed esporre interpretazioni non sentite già mille e una volta, è necessario andare a vedere quel che c’è dietro e oltre i dati culturali intesi in senso lato: ciò è possibile soltanto con una interpretazione simbolica, simbolico-tradizionale o al limite esoterica, quando ci siano buoni motivi ed appigli, e, perché no, anche ermetica e junghiana. Per quale motivo non sarebbe legittimo farlo? Chi lo impedisce? La Psicopolizia, appunto?
Non per questo, però, a differenza di certi Gran Maestri Senzanome della Rete, escludiamo per principio altri tipi di analisi, come tutti i precedenti fascicoli della rivista e anche il presente dimostrano. Dal nostro punto di vista nessuna interpretazione esclude l’altra: se esposte seriamente e non in modo settario, possono risultare anche complementari. Pur credendo nella efficacia della analisi simbolica (ed esoterica) rispetto ad altre, non ne rifiutiamo alcuna a priori, non abbiano pregiudizi, mentre altri, altezzosamente e immotivatamente, a quanto pare sì. Buon pro gli faccia.
I fumetti e i cartoni animati a firma Disney hanno allevato generazioni di lettori piccoli e grandi sin dagli anni Trenta, e negli anni Cinquanta e Sessanta sono stati la lettura quasi regolare di certe fasce di età. Dagli anni Sessanta in poi sono giunti i fumetti “adulti” e “intelligenti”, poi i manga giapponesi, quelli sperimentali e così via, come è naturale che accada. Ma i personaggi disneyani sono sopravvissuti, anche grazie al rinnovamento di molti e bravissimi disegnatori italiani. Quindi la “firma” di Walt rimarrà, pur se si è cercato di farlo diventare addirittura “impegnato”, con storie a fumetti (italiane) che si sono occupate di vari problemi cogenti della nostra società e con relativa eco sulla stampa quotidiana.
A noi questo non importa. A noi interessa presentare un Walt Disney uomo, artista e imprenditore, diverso e inaspettato, che pochi conoscono perché poco se ne parla; anzi, spesso si cerca di nasconderlo, quasi si trattasse di peccati mortali della sua personalità, in cui certuni sono andati a frugare con morbosa e strumentale curiosità.
Tutto dipende dal punto di vista in cui ci si pone e dai valori in cui si crede. Come al solito, soprattutto in questo ex Bel Paese, l’unico strumento di valutazione che conta è quello del “doppio standard”, ovvero del doppiopesismo, di cui la nostra intellighenzia culturale, politica e giornalistica è diventata maestra. Non ci stancheremo mai di ripeterlo.