Disney e Dalí: una questione di «Destino»
Luca SiniscalcoLungo un paesaggio onirico, avvolto nel mistero, due tartarughe avanzano lentamente, sino a congiungersi. Gli animali trasportano due “ritratti molli”, forme svuotate di materia e sostenute da grucce che garantiscono supporto ai loro profili evanescenti. I due ritratti si avvicinano sino a formare l’immagine stilizzata di una ballerina. Nel processo metamorfico, un particolare non può sfuggire all’astante: la loro identità. Si tratta proprio di Walt Disney, riconoscibile dal cappello rosso indossato che rimanda a Biancaneve e i sette nani, e Salvador Dalí, con gli indimenticabili baffi “antinietzschiani” rivolti verso l’alto. I due personaggi appaiono così trasfigurati all’interno del cortometraggio Destino, frutto della collaborazione dei due geni novecenteschi ed emblema di una relazione amicale e progettuale le cui radici possono essere riscontrate su due binari eterogenei e insieme sovrapposti: da un lato il piano storico e biografico, dipanatosi in quegli incontri e coincidenze che li fecero conoscere e collaborare; dall’altro il livello sovrastorico e ideale, il tessuto di quel mondo immaginale cui le Weltanschauungen di Disney e Dalí si abbeverarono per crescere, secondo rispettive peculiarità, in profonda sintonia.
Il primo contatto fra i due risale al 1936, quando le loro opere s’incontrano a una mostra presso il MoMA (Museum of Modern Art) di New York, “Fantastic Art, Dada and Surrealism”, che ospita i lavori di Dalí e alcune testimonianze della “Silly Symphony” Three Little Wolves (I tre porcellini e i tre lupetti). L’anno successivo, in una lettera ad André Breton, Dalí dichiara la propria affinità coll’ideatore di Mickey Mouse, asserendo: «Sono venuto a Hollywood e ho incontrato tre grandi surrealisti americani: i fratelli Marx, Cecil B. De Mille e Walt Disney» (1). Giudizio avventato, semplice boutade nello stile tipico dell’estroso pittore spagnolo?
Eppure, il temperamento surrealista di Disney non dovrebbe destare sorprese in uno spettatore avvertito. Bastano alcune celebri scene del film Dumbo a testimoniare come il mondo onirico e la dimensione inconscia costituiscano un elemento cardine della sua poetica. Il delirio alcolico vissuto dall’elefantino ripristina una visione caotica ed elementare entro cui diversi piani del reale si confondono e sovrappongono, evocando il perturbante e includendolo nel processo di crescita individuale del personaggio. Questi percepisce nelle proprie visioni un circo infernale di piccoli elefanti mutanti che, con Mariuccia Ciotta, si potrebbe indicare quale «pantheon di fantasmi rosa degno di Salvador Dalí» (2), operante quale conditio sine qua non nella formazione e individuazione – in senso junghiano – dello stesso Dumbo: Walt, infatti, «nel processo di trasformazioni di forme e di caratteri in quel suo andare oltre la copia del reale produce un altro senso, un’altra specie vivente, un “mostro” composto di pezzi diversi. “È il ritorno della forma. E quando essa passa attraverso tutti i suoi stati, prende il bel nome di metamorfosi” (Daney)» (3). Questo processo dai tratti alchemici presenta numerose analogie con la pittura daliniana, la cui sintonia con il lavoro di Disney diverrà chiara nel 1945, anno del primo incontro fra i due. Entrambi sono invitati a un party organizzato dal produttore Jack Warner: Disney gioca in casa, mentre Dalí si trova a Hollywood per disegnare l’insert di Io ti salverò di Hitchcock. I due si conoscono e scocca la scintilla: la progettualità di Disney vede nel genio immaginifico di Dalí una potenzialità eccezionale per rivoluzionare il mondo dell’animazione. Nasce così il progetto di Destiny. Differenti le interpretazioni del lavoro proposte alla stampa, eppure rivelatrici di due chiavi di lettura capaci di completarsi piuttosto che escludersi: «La semplice storia di una ragazza alla ricerca del suo amore» (Disney) viene presentata da Dalí come «una magica esposizione della vita nel labirinto del tempo» (4).
Se il ruolo di Disney nell’universo cinematografico è arcinoto, può risultare interessante introdurre le esperienze di Dalí nella “Settima Arte”, a testimonianza di come l’impegno del pittore nella creazione di Destino non sia casuale né eccezionale ma si inserisca in una linea di continuità che vede nella nuova tecnica comunicativa e artistica un mezzo straordinario per esprimere quel contenuto immaginifico, utopico e mitopoietico che proprio la modernità tende a espellere dai propri confini. In tale convinzione Dalí non è certo isolato: basti pensare al surrealista André Breton, che descrive il nuovo mezzo cinematografico come l’«unico mistero assolutamente moderno», sostenendo che «non solo ci presenta esseri in carne e ossa, ma anche i sogni di questi esseri trasformati in carne e ossa». Esso «raggiunge quel punto dello spirito in cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il presente, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso, cessano di essere percepiti in modo contraddittorio» (5).
È per la medesima ragione che questo medium esercita un forte fascino su Dalí: si tratta, nella sua ottica, da un lato del supporto artistico per eccellenza della modernità, nonché del mezzo perfetto per diffondere la propria immagine di esibizionista compulsivo; d’altro canto, è uno spazio utopico, nel senso etimologico del termine, un non-luogo in cui la dimensione reale lascia varchi aperti sull’onirico e sull’immaginario, nella contraddizione ossimorica inscritta nell’essere.
È nel 1928 che ha luogo l’esordio daliniano nel cinema, con la sua proposta all’amico Buñuel di concepire un film secondo il procedimento surrealista della scrittura automatica. Nasce Un chien andalou, sintesi roboante di paure, traumi e immagini archiviate nella memoria, ideato in poche settimane, secondo la testimonianza di Buñuel, a partire da due sogni sperimentati dagli autori (6). Dalla medesima collaborazione scaturisce L’Âge d’or (1930), dedicato ai temi della violenza e del potere del desiderio, analizzati all’interno del rapporto fra due amanti la cui unione è impedita da limitazioni sociali, proprio quegli ostacoli piccolo borghesi contro cui si scaglia l’invettiva surrealista, in una dura critica rispetto all’ordinamento sociale e politico del mondo contemporaneo.
Tematiche simili vengono discusse anche all’interno di Babaouo, film incompiuto – terminato soltanto nel 1998 da Manuel Cussó-Ferrer – la cui sceneggiatura, iniziata da Dalí intorno ai primi anni Trenta, narra la storia di due amanti accostando un linguaggio aspro e violento a un’iconografia potente e brutale. Sempre incompiuto è un progetto ideato in ambiente americano: si tratta di The Surrealist Mysteries of New York, dedicato alla violenza nelle metropoli urbane e influenzato dal filone gangster.
Nel 1940 Dalí realizza alcuni disegni preparatori per una sequenza di Moontide, diretto dal celeberrimo Fritz Lang: le creazioni oniriche, giudicate troppo pessimistiche nel clima del secondo conflitto mondiale, verranno rifiutate, anche in seguito alla sostituzione di Lang con Archie Mayo.
Sei anni dopo, il grande riscatto: il pittore crea sceneggiatura e scenografie per un flashback onirico del film Io ti salverò di Hitchcok. Era «un’alcova perfetta per la fantasia daliniana, basandosi interamente sull’idea che le esperienze di vita represse potessero causare nevrosi nell’individuo. […] Hitchcok si mostrò molto felice di collaborare con Dalí soprattutto perché credeva che l’incisività segnica del catalano potesse rendere molto meglio il mondo onirico rispetto agli escamotage solitamente utilizzati nel mondo del cinema. […] Anche Dalí fu molto impressionato dal regista, un uomo con una forte personalità e un’aura di mistero» (7).
Quel medesimo mistero che Dalí ravvisa in Disney, con il quale progetta Destino con serietà – lavorandovi quotidianamente per otto mesi – ma anche con lo scanzonato e paradossale stile del provocatore surrealista. Ne è prova un aneddoto riportato in una curiosa intervista da John Hench, grande talento creativo dello Studio Disney (8). Dalí aveva bisogno delle immagini di un cigno per realizzare una scena del progetto, ispirata alla posa plastica dell’iconica figura di Leda e il cigno: per soddisfare le bizzarre esigenze del pittore di Figueres, Hench gli procura l’animale, trasportandolo in auto sino al suo studio di Carmel. Pittoresca la scena conclusiva: Hench guida la propria decappottabile con a bordo l’animale, il quale, appena liberatosi dal tetto della vettura, offre un’immagine perfetta per un dipinto di Dalí. E la storia non finisce qui! «Quando Dalí tornò in Spagna, si portò anche il cigno! E in seguito fu salvato da una brutta situazione proprio dal cigno: la casa reale lo adottò, diede un titolo a Dalí, e dei soldi, perché Gala, sua moglie, soffriva di Alzheimer, e tutto il denaro messo da parte e investito in banche svizzere era andato perso quando lei si era dimenticata il codice segreto. Il re di Spagna, Carlos, gli conferì delle cariche ufficiali, che gli procurarono soldi e lo salvarono. Perché Dalí aveva tante idee, ma nessuna per fare soldi. Walt era fatto allo stesso modo» (9).
Quest’attitudine così lontana dal materialismo capitalista si rivela in tutta la sua portata nella sorte del celeberrimo Fantasia (1940). Nonostante la pessima ricezione Disney non si scoraggia, fiero di un progetto che ancora una volta incorpora svariati elementi affini al surrealismo: dalla libera associazione d’idee e immagini prive di una precisa funzione narrativa al recupero di mitologemi tradizionali, dall’esasperazione della figura della metamorfosi alla ricerca sinestetica, in linea con la migliore lezione delle avanguardie, dal futurismo al dadaismo. Viene così superato il giogo del razionalismo: la musica di Stokowski chiama in essere, all’interno della potenza delle immagini, simboli onirici e numinosi. Si tratta del medesimo retroterra presupposto da Destino, cui Dalí e Disney lavorano intensamente: il primo, in particolare, realizza centinaia di disegni e bozzetti, supportato da Hench, con l’intenzione di sintetizzare il proprio stile e l’impronta disneyana. Il corto, che segue la musica del compositore messicano Armando Dominguez e riprende il tema dell’incontro amoroso caro a Dalí, non viene tuttavia terminato a causa dei problemi economici connessi agli esiti disastrosi della Seconda Guerra Mondiale. Lo scarso successo di Fantasia, che spinge per un certo tempo Disney a ridimensionare le proprie aspirazioni estetiche e ad avvicinarsi ai gusti del pubblico, non aiuta certo la promozione del progetto, che verrà portato a termine soltanto nel 2003 grazie alla passione di Hench. Quest’ultimo aveva infatti realizzato un breve test d’animazione di circa diciotto secondi, costituito da centotrentacinque schizzi, auspicando che potesse essere terminato successivamente.
L’idea prende piede nel 1999, durante la realizzazione di Fantasia 2000, quando il nipote di Walt, Roy Edward, riscopre Destino. Grazie al supporto dell’ormai novantaduenne Hench, accompagnato da un team di circa venticinque animatori, le criptiche indicazioni di Dalí vengono decifrate sino a creare il capolavoro da cui oggi possiamo trarre diletto. Prodotto da Baker Bloodworth e diretto dall’animatore francese Dominique Monfrey, Destino colpisce il pubblico del nuovo millennio, che lo ammira per la prima volta il 2 giugno 2003, all’apertura del Festival internazionale del film d’animazione di Annecy. «Alla luce della nostra analisi possiamo dire che effettivamente il corto è un’eccellente trasposizione dello spirito surrealista, eclettico, del pittore Dalí, e dell’animo sognante, mistico e affabulatore del maturo Disney, non senza quella nota oscura tipica di entrambi i suoi creatori: della vena più cupa di Salvador, quella legata alla sfera magica e oscura dell’Es, e della cupa tristezza di certi personaggi disneyani» (10).
Quell’ambiguità, cifra del paradosso dell’esistenza e di quel “vivere contro l’evidenza” di cui noi umani siamo protagonisti, per impiegare un’espressione cara a Emil Cioran, si riverbera nell’opera proteiforme e magmatica dei due autori. La sua carica antimoderna traspare pertanto in numerose suggestioni da cui una visione del mondo comune, inattuale nella sua contraddittoria attualità, emerge con prepotenza. È ancora una volta quel mutevole crinale che nell’epoca della postmodernità pone i riflettori sulla crisi e sull’interregnum per aprire squarci di luce e aperture verso un possibile superamento mediante il ripresentarsi dell’originario. Si è già accennato alla rilevanza che la dimensione onirica riveste tanto nel surrealismo di Dalí quanto in quello di Disney: il metodo paranoico-critico teorizzato dal primo, benché ispirato al freudismo e soggiacente a tutti i suoi limiti, rivendica nei riguardi dell’essenza dell’uomo una lucidità interpretativa che si contrappone nettamente al paradigma scientista e quantitativo vigente. Nella prospettiva di una reintegrazione dell’uomo nella sua complessità pluridimensionale, i temi dell’immaginazione, della meraviglia e dell’utopia aprono così orizzonti affascinanti lungo la scia avanguardista del ripristino di elementi spirituali all’interno di quella cultura di massa che, secondo l’interpretazione materialista di Adorno e Lukàcs, avrebbe invece univocamente indotto il soggetto-massa a un’irrefutabile alienazione. I sogni, che per Disney “son desideri”, possono concedere l’epifania di quella meraviglia che secondo Platone e Aristotele segna il sorgere della filosofia occidentale. Lo stupore incide sulla realtà, la smembra e trasfigura, ne mostra i lati invisibili e le possibilità. «Il mio obiettivo?» annota Dalí, «sistematizzare la confusione e contribuire all’assoluto discredito del mondo reale» (11).
Se la realtà è «semplice amnesia di meditazione» (12), il criterio squisitamente oggettivo e misurabile non può più spiegare la totalità dell’esperienza: interviene pertanto l’arte, «macchina da guerra al servizio del desiderio nella sua lotta contro la supremazia del principio di realtà» (13). Ne consegue, profetizza Dalí, che «la realtà, in un prossimo futuro, sarà considerata unicamente come un semplice stato di depressione e di inattività del pensiero» (14). Risuonano echi mistici e intuizioni schopenaueriane in veste postmoderna, secondo un’affinità col “realismo magico” teorizzato da Pauwels e Bergier nel Mattino dei maghi che si palesa in molteplici luoghi dell’opera daliniana e dineyana. La svelano tra l’altro i cartoons, nei quali la nostalgia verso un indefinito passato scuote lo spettatore con la rievocazione di simboli sempre vigenti, così come la provocazione surrealista – già incarnata dalla volontà duchampiana di riaffermare la centralità di un “originale inafferrabile” da cui possa scaturire un’arte ispirata all’armonia formale e non alla dimenticanza di ogni regola (15) – evidente nell’“iperrealismo metafisico” coniato da Dalí per riattualizzare il misticismo spagnolo. L’approdo al sacro del pittore – che fu persino ricevuto da Pio XII, nel 1949, e da Giovanni XXIII, dieci anni dopo – in tutta la sua confusione dottrinaria colpisce per l’intensità contemplativa: «La visione binoculare è la trinità della percezione fisica trascendente. Il Padre, l’occhio destro, il Figlio, l’occhio sinistro, e lo spirito Santo, il cervello, il miracolo della lingua di fuoco, l’immagine luminosa virtuale divenuta incorruttibile, puro Spirito Santo» (16).
È una mitopoiesi strettamente connessa alla potenza cosmogonica. Tale «dono arcangelico» (17), per usare un’espressione daliniana, si realizza nella spiritualizzazione della realtà, secondo un intervento attivo e creativo dell’uomo che si fa medium fra terra e cielo, giacché, quasi ermeticamente, «il cielo non si trova né in alto, né in basso, né a destra, né a sinistra, il cielo è esattamente al centro del petto dell’uomo che ha fede!» (18). Questa funzione pontificale della persona, mediatrice per eccellenza fra immanenza e trascendenza, si radica in Dalí all’interno di una spiritualità corporale, che percorre erotismo e fisicità per unire microcosmo e macrocosmo, opponendosi al nichilismo trionfante dei pittori moderni, che «non credono a niente» (19) e finiscono col dipingere il niente. Ecco perché i baffi daliniani, «affilati, imperialisti, ultrarazionalisti e puntati verso il cielo, come il misticismo verticale» (20), invocano un’opposizione all’astrattismo novecentesco in nome di un ritorno a quell’arte figurativa, in principio rinascimentale, tramite cui il genio può imprimere senso e bellezza alla comunicazione estetica.
Allo stesso modo le immagini di Disney rievocano miti e archetipi di una memoria collettiva ancestrale, immettendo lo spettatore in una fiaba che è rammemorazione di una storia ancora e sempre in metamorfosi. La plasmaticità delle figure disneyane, così simile a certe trovate daliniane, riprende l’archetipo classico di Proteo e mostra un principio inscritto nelle strutture cosmiche come nel fare poetico: la trasmutazione. Afferma Dalí, suscitando scompiglio fra i modernisti a oltranza: «La mia metamorfosi è tradizione, perché la tradizione è esattamente cambiamento e reinvenzione di un’altra pelle. Non si tratta di chirurgia estetica o di mutilazione, ma di rinascita» (21).
Questa metamorfosi perenne si rivela pienamente nel gioco, che secondo Disney è una necessità antropologica (22), e attraversa la sfida avanguardistica di entrambi gli autori. La loro critica alla mediocrità borghese, al materialismo capitalista e al dogma del progresso va proprio letta quale conseguenza inevitabile di una mentalità ispirata alla passione verso l’alterità fantastica e alla tutela del rapporto magico fra individuo e collettività.
Contro il conformismo e l’incapacitante accettazione del già dato, Dalí e Disney affrontano ogni evento con la saggia leggerezza del fanciullo, secondo un principio di ottimismo che assurge a trasfigurazione volontaristica del reale. Disney incita a non arrendersi al sudiciume del presente e a guardare con ottimismo al futuro, consapevole che la tempesta è il prezzo dell’arcobaleno. Ugualmente sappiamo, grazie alla testimonianza di John Hench, che Dalí era in grado di riprendersi da qualsiasi sventura nel giro di quarantacinque minuti e, considerando l’evento nelle sue possibili conseguenze positive, profetizzava esiti fausti che spesso incredibilmente si realizzavano (23). Superficialità, escapismo o altro? Forse siamo di fronte a un’esperienza interiore che riecheggia il monito jüngeriano, secondo cui «l’ottimismo, in sé, è cosa grande. È un evidente sintomo di salute ed è tanto più meritorio quanto più distintamente vede il pericolo. In ogni caso, la speranza conduce più lontano della paura» (24).
Questa vicinanza teorica s’irradia negli sviluppi storici del rapporto fra i due, amicizia che il fallimento temporaneo di Destino non andò mai a inficiare. Se Disney decorò le pareti della propria dimora di Palm Springs con opere di Dalí, incontrato nuovamente durante una vacanza in California nel 1951, il genio di Figueres ospitò Walt e sua moglie a casa sua, durante un viaggio in Spagna del 1957. Un destino, il loro, che non smette di dare i suoi frutti: ne sono affascinanti emblemi la storia pubblicata su «Topolino» (n. 2861, settembre 2010), in cui la vicenda dei due viene illustrata in pura foggia “Mickey Mouse” (25), e una mostra, intitolata “Disney and Dalí: architects of the imagination”, a cura di Ted Nicolaou, che sino al 3 gennaio 2016 introdurrà il visitatore del Walt Disney Family Museum di San Francisco alla collaborazione tra i due geni.
Una storia seducente, un intarsio di junghiane coincidenze significative, che, proprio nello stile di Disney e Dalí, dimostrano poco o nulla, eppure spalancano mondi sorretti dalla potenza del significato simbolico e dell’autoevidenza.
- Cit. in Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2010, p. 62.
- Ivi, p. 86.
- Ibidem.
- Cit. in ivi, pp. 279-281.
- Cit. in Trent’anni di avanguardia spagnola. Da Ramón Gómez de la Serna a Juan-Eduardo Cirlot, a cura di Gabriele Morelli, Jaca Book, Milano 1988, p. 216.
- Cfr. Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano 1991, p. 113.
- Francesca Adamo, Caterina Pennestrì, Il Destino di un incontro. Salvador Dalí e Walt Disney, introduzione di Matteo G. Brega, Mimesis, Milano 2010, p. 47.
- Cfr. Mariuccia Ciotta, op. cit., pp. 280-283.
- Ivi, pp. 282-283.
- Francesca Adamo, Caterina Pennestrì, op. cit., p. 93.
- Salvador Dalí, La droga sono io. Aforismi e pensieri di un artista eccentrico e geniale, Castelvecchi, Roma 2007, p. 40.
- Ivi, p. 44.
- Ivi, p. 57.
- Ivi, p. 59.
- Cfr. Francesca Adamo, Caterina Pennestrì, op. cit., p. 13.
- Cit. in ivi, p. 49.
- Salvador Dalí, op. cit., p. 26.
- Ivi, p. 34.
- Ivi, p. 77.
- Ivi, p. 85.
- Ivi, p. 68.
- Cfr. Mariuccia Ciotta, op. cit., pp. 287-288.
- Cfr. ivi, pp. 283-284.
- Ernst Jünger, Al muro del tempo, tr. di Alvise La Rocca e Agnese Grieco, Adelphi, Milano 2012, p. 282.
- Si tratta di una storia scritta da Roberto Gagnor e disegnata da Giorgio Cavazzano. Topolino, Paperino e Pluto spiano la collaborazione di Walt e Salvador finché non cadono in una delle tavole del pittore, perdendosi nel mondo daliniano.