Tutti i colori del thrilling. Le radici letterarie del giallo martiniano
Stefano Di Marino
Classe 1938, prolificissimo, accreditato con 66 opere tra cinema e tv su IMDb, Sergio Martino è uno dei pilastri del cinema di genere italiano. Di tutti i filoni, per la verità: dalla commedia all’avventura. Per noi resta un maestro del giallo.
All’estero lo chiamano italian giallo, un filone che tra gli anni Sessanta e Ottanta (con numerose e interessanti incursioni sino a oggi) ha caratterizzato quella produzione nostrana di genere che esplorava il mistero fermandosi poco prima dell’horror. Ai tempi l’aggettivo thrilling fu storpiato e trasformato in sostantivo, al posto di “thriller”. Questo fatto può magari far sorridere, ma identifica l’unicità della nostra produzione che s’ispirava certamente a quella anglosassone, ma riusciva sempre a spingersi un po’ oltre, mostrando qualche centimetro di carne nuda in più, affondando più a fondo la lama con conseguente fiotto di sangue. Ma il rapporto tra il giallo (termine mutuato dal colore attribuito sin dall’anteguerra alle copertine dei libri della celebre collana mondadoriana di mystery) e il nostro cinema “de paura” è sempre stato stretto. Tra i molti registi che si sono cimentati con questo genere, Martino mostra interessanti interazioni con la letteratura: non solo con quella di puro intrigo, ma anche, come vedremo in un caso particolare, con la costola identificata con il noir. Quando, nel 1971, esce Lo strano vizio della signora Wardh, il cinema del brivido italiano risente ancora pesantemente delle influenze anglosassoni, letterarie e cinematografiche. È proprio questo il film che preferisco, quello in cui sono meglio equilibrati l’intrigo, le emozioni tipiche del genere esaltate dalle produzioni a venire e quelle pennellate (definirle “sfumature” sarebbe riduttivo, considerata l’ubertosa procacità della Fenech, ampiamente mostrata) di erotismo che costituiscono uno dei tratti caratterizzanti del thrilling. Non va dimenticato l’apporto in sceneggiatura di Ernesto Gastaldi, già veterano del genere nonché autore – con lo pseudonimo di Julian Berry – per le collane «Urania» e «I gialli Mondadori». La storia, all’interno della quale si sviluppa la red herring (falsa pista) del maniaco, è una riuscita rivisitazione di classici come Delitto per delitto (L’altro uomo) (1951) e Rebecca. La prima moglie di Alfred Hitchcock (1940). Non a caso e non per copiare formule di successo. L’apoteosi della follia celebrata da Dario Argento ancora deve venire e il pubblico cerca, accanto al brivido, un intreccio… Meglio se di tipo familiare con spruzzate di ambiguità sessuale. Così Jean/Ivan Rassimov, amante perverso, getta frammenti di vetro sul corpo nudo di Julie Wardh/Edwige Fenech, incatenandola a un vizio che mescola piacere e dolore… Una stanza chiusa di cui solo lui ha la chiave (mentale). Idea, quest’ultima, talmente efficace da diventare in seguito il titolo di un altro film. Forse il pubblico s’identifica meglio nel personaggio interpretato da George Hilton, che della bella signora Wardh approfitta più tradizionalmente sul divano, in un’altra celebre inquadratura. Intorno c’è Vienna: parchi, piazze, case moderne e antiche. Uno scenario variegato in cui i personaggi si muovono come in un labirinto di ricatti, menzogne, falsità borghesi. L’azione poi si trasferisce sulla costa mediterranea – altra ambientazione cara al giallo erotico dell’epoca, forse per ispirazione francese – ma la tensione non si abbassa, anzi sale. La povera Edwige, moglie infedele, asservita alle sue pulsioni eppure così candidamente comprensibile nelle sue debolezze da diventare eroina, cede. Sta diventando pazza? È uno dei temi ricorrenti del romanzo giallo classico di ogni tempo: prima di morire la vittima deve soffrire, quasi convincersi di avere varcato la soglia della follia, non solo per assicurare un alibi agli assassini, ma anche per coinvolgere il pubblico. E il meccanismo riesce in pieno… Tanto da ribaltarsi nella sequenza finale in cui i due “maschi cattivi”, ormai convinti di averla fatta franca, sembrano ritrovare il fantasma di una donna che, letteralmente, visse due volte. La seconda, ci auguriamo per lei, felice tra le braccia del buon dottore che l’ha compresa e aiutata. Un giallo che sarebbe stato perfetto anche in forma scritta. Sempre del 1971 è La coda dello scorpione. Ormai il fenomeno Argento è esploso anche nella titolazione, tanto da imporre il “bestiario del delitto” pure in questa vicenda che, invece, rivendica radici nel giallo classico. Alla sceneggiatura partecipa anche Gastaldi: il risultato, volendo, presenta persino qualche richiamo a Hitchcock nel farci pensare a una protagonista che, perdendo la vita, passa il testimone a un’altra. Si tratta di un intrigo stimolato dal guadagno nel quale si inserisce un assassino mascherato (elemento, anche questo, probabilmente imposto dalle mode del momento). Scenari glamour tra Londra e Atene, assicurazioni e doppi giochi retti benissimo da Evelyn Stewart (Ida Galli), Anita Strindberg, George Hilton e Luigi Pistilli. Tutti i colori del buio (1972) esce nel momento in cui il thrilling argentiano è ormai affermato e, forse proprio per questo, merita un plauso perché se ne discosta in modo evidente, tracciando anche una linea di demarcazione netta rispetto ai due gialli precedenti del regista. Sicuramente è ravvisabile l’influenza di Rosemary’s baby. Nastro rosso a New York – il film di Roman Polanski del 1968 ma, mi piace pensare, anche il romanzo pubblicato da Ira Levin l’anno precedente. L’appassionato di narrativa del brivido, però, non può esimersi dal rintracciare nella libreria ideale di Martino alcuni romanzi inglesi a sfondo satanistico. Qualche anno dopo Dennis Withley e Ramsey Campbell creeranno un vero e proprio universo di moderne sette e adoratori di entità malvage attingendo alla tradizione folklorico-superstiziosa britannica. E sempre in Inghilterra è ambientato l’intreccio che vede ancora una volta Edwige Fenech al centro di una macchinazione. Nel film il primo passo, forse più inquietante del delitto stesso, è la perdita della cognizione del reale, il sospetto, sempre più radicato, che il mondo sia evanescente, che la ragione vacilli. Se a questo aggiungiamo un complotto nel quale la protagonista non si può fidare letteralmente di nessuno e una figura carismatica e malvagia – il solito Ivan Rassimov, qui con occhi innaturalmente cerulei – il gioco è fatto. Non stupisca che, in un’epoca in cui il thrilling cerca sempre più spesso ambientazioni italiane, Martino insista su quelle europee, per noi esotiche. L’amante del giallo, dell’intrigo è ancora legato a scenari che giudica lontani, anche se europei. La scelta dell’Inghilterra per un intreccio a sfondo satanistico – nonostante ci sia una spiegazione razionale che regge benissimo – è un vero e proprio omaggio alla tradizione, nonché la dimostrazione che una buona storia e un regista “di genere” (un regista cioè in grado di fare il suo mestiere) possono operare in ogni contesto. Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972) è forse uno dei thrilling più originalmente costruiti e ricchi di riferimenti nella produzione di Martino. Il gatto nero di Edgar Allan Poe ritorna molte volte nella produzione horror-gotica italiana: in questo caso il racconto svolge una funzione risolutrice, ma getta anche un’ombra tra il magico e il terrificante in una vicenda che vanta parecchi spunti. Sempre con la complicità di Gastaldi, Martino riesce a creare una suggestiva commistione di generi tra il thrilling italiano, prima di tutto, ormai orgogliosamente ambientato nelle nostre città (qui siamo in un borgo veneto, con tutti gli stilemi del giallo di provincia), e il classico complotto erotico criminale che prende i natali dai gialli di Boileau-Narcejac ma attinge anche al filone incentrato sui vizi e sulla decadenza della borghesia italiana. Oliviero Rouvigny, ex professore di liceo un tempo scrittore di successo, schiavo dell’alcol e del ricordo morboso della madre, consuma letteralmente la sua esistenza in un’inquietante villa di campagna. La moglie Irene lo detesta, ma ne è succube. Intorno a lui si muovono personaggi che alludono quasi a una commedia di costume a sfondo sessuale: l’ex allieva sedotta e ora amante esigente, la prostituta appena arrivata dalla città, il libraio subdolo e la robivecchi che si abbinano a un circolo di hippy seguaci del libero amore che animano le serate di Oliviero, senza dimenticare la cameriera nera e il gagliardo lattaio. Insomma: gruppo di cittadini in un interno. Presto, però, le atmosfere gotiche della villa (sottolineate da piogge intense, cigolii e dalla presenza inquietante del gatto Satana) sono turbate da una serie di delitti maniacali che rimandano al puro thrilling di quegli anni. Persino la presenza di Ivan Rassimov ci suggerisce tenebrosi presagi. Poi arriva la Fenech nei disinibiti panni della nipotina Floriana e il gioco… si fa duro. Oliviero, sempre più ossessionato dai propri fantasmi, perde le redini del gioco perverso. Persino la pista del maniaco si rivela falsa, come già avveniva in Lo strano vizio della signora Wardh. I pezzi s’incastrano in un riuscitissimo mosaico di generi letterari e cinematografici. La passione si mescola all’avidità, mentre astuzie e doppi giochi si sommano sino al finale che, appunto, richiama il racconto di Poe. Il conto dei morti sale, ma è l’atmosfera sessualmente malata a tenere banco. Certo, gioielli ed eredità sembrano costituire il movente di base, ma la vera calce del racconto è la follia… Lo stesso ossessivo disagio mentale che porta Oliviero ad anticipare il Jack Torrance protagonista di Shining di Stephen King, ripetendo frasi ossessive alla macchina da scrivere. Più ancora di quel «Vendetta» che nel finale risulta quasi una sottolineatura, a turbare è l’«Uccidere e seppellire in cantina» che viene ripetuto su ogni pagina con macabra classicità gotica. La filmografia thrilling di Martino non si arresta qui ma, probabilmente perché la produzione cinematografica di quegli anni prende una via autonoma, si distacca dalle proprie radici letterarie. I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), noto internazionalmente come Torso, rappresenta quasi l’inaugurazione di un nuovo genere. Benché siano presenti alcuni elementi del giallo classico (a partire dal famoso foulard dai colori rivelatori), lo slasher assume qui una rilevanza predominante. Il film si distacca anche dai modelli argentiani, coniugando efficacemente le suggestive ambientazioni nella provincia italiana e quel pizzico di provocazione sessuale tipico del nostro cinema. Morte sospetta di una minorenne (1975) riesce persino ad avvicinare il thrilling – ormai consolidato genere nostrano – al poliziottesco in una maniera originale e spigliata che non poco deve alla figura del commissario Cassinelli, interpretato da Paolo Germi in una delle sue prove più convincenti. Assassinio al cimitero etrusco (1982, firmato Christian Plummer) va analizzato nella sua versione completa, che affonda le radici più nello sceneggiato giallo italiano dei primi anni Settanta che nel cinema del periodo in cui è realizzato. A dieci anni di distanza, infine, dopo innumerevoli esperienze in altri generi, Sergio Martino ci propone Spiando Marina (1992), girato con lo pseudonimo di George Raminto. Più che un thrilling, è un noir che sfrutta atmosfere decadenti e un bell’abbinamento tra le grazie di Debora Caprioglio e le immagini di Buenos Aires… Difficile individuare una radice romanzesca. Resta tuttavia palpabile per lo spettatore l’impressione che nel lavoro di Martino riaffiorino letture e suggestioni legate al cinema e alla letteratura neri.