La coda dello scorpione. Un posto al sole rosso come il sangue
Mirco Moretti
L’11 settembre, ma del 1958, viene ritrovato in casa il cadavere di Maria Martirano, strangolata. È l’inizio del caso Fenaroli, uno dei primi misteri di cronaca nera capaci di appassionare e dividere il popolo italiano. Sembra scritto da un team di sceneggiatori in stato di grazia: un vedovo titolare di un’impresa che sta per fallire, una polizza sulla vita della defunta moglie che ammonta a 150 milioni, il passato della signora Maria nelle case di tolleranza, firme false, sicari assoldati o forse no, tangenti, sottosegretari e addirittura l’ombra dei servizi segreti. E in effetti proprio un team di sceneggiatori italiani in stato di grazia ha tratto ispirazione da questa storia nerissima, come Dino Risi aveva fatto anni prima con Il vedovo (1959). Si tratta di Eduardo Manzanos Brochero, Sauro Scavolini ed Ernesto Gastaldi: tutti veterani dei generi (Gastaldi in particolare, poiché la sua penna è responsabile dei tratti costitutivi del giallo italiano e della commistione tra il classico whodunit e l’erotismo morboso e rosso sangue). Il risultato è uno script ricco – oltre che di citazioni, omaggi e sacrosanti furti a Hitchcock, Antonioni, ovviamente e spudoratamente a Dario Argento, addirittura al Diabolik (1968) di Mario Bava – di spunti originali e coraggiosi: La coda dello scorpione (1971), che diventa il secondo lungometraggio di Sergio Martino nel genere. Lo scorpione – che pure si fa desiderare comparendo, coda compresa, dopo oltre un’ora, per battezzare con il suo veleno il terzo e conclusivo segmento di pellicola – viene presentato in pompa magna come indizio decisivo, ma si rivelerà uno dei tanti trucchi e inganni di cui il film è farcito. La scelta del titolo è da imputarsi semmai al successo di L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento (1970), cui seguirà una ridda di lucertole, tarantole, farfalle e altre bestiole (tutte comunque apparse dopo lo scorpione, spesso in maniera totalmente gratuita) a infestare i titoli di parecchie pellicole italiane destinate a ingrossare l’elenco dei gialli e thriller a sfondo erotico nei primi anni Settanta.
Si comincia seguendo una donna per le vie di Londra. La mdp è da principio attaccata alla sua nuca e poi si allontana a inquadrare il vistoso cappello rosso, quindi l’intera silhouette (altro inganno: il vestito grigio e anonimo suggerisce sobrietà e castità). Intanto la musica di Bruno Nicolai, ripresa nel 2009 dalla coppia Cattet-Forzani in Amer, la accompagna fino a casa. Lisa Baumer (l’allora ventinovenne Ida Galli, bella e algida) riceve il suo amante e, mentre i due si baciano e i loro corpi si intrecciano, vediamo le immagini alternate di un aereo in volo. Quando l’orgasmo sta per arrivare, l’aereo esplode. Al suo interno si trovava il marito, più vecchio e tanto ricco da lasciare alla per niente inconsolabile vedova una polizza sulla vita da un milione di dollari. Lisa si reca ad Atene per incassare, la compagnia assicurativa è sospettosa e incarica l’agente Peter Lynch (George Hilton) di investigare sul caso. Lisa viene assassinata; i soldi spariscono; polizia, Interpol e la giornalista Cléo Dupont cercano di scoprire cosa sia successo, mentre gli omicidi si moltiplicano. Il commissario Stavros ha il volto di Luigi Pistilli, l’agente dell’Interpol quello di Alberto de Mendoza e a vestire – e svestire – i panni di Cléo è Anita Strindberg, una tra le prime attrici a rifarsi il seno, puntualmente e generosamente esibito. Doveva esserci la Fenech al suo posto, assente per gravidanza, e chissà che questo cambio non abbia influito sulla scelta di ridurre, rispetto a Lo strano vizio della signora Wardh (1971), il tasso di erotismo torbido e morboso. È comunque il plot, ricco e serrato, a trattenere Martino con i piedi per terra, azzerando la dimensione onirica. Per una volta, inoltre, si ha un finale che – nonostante le urla «sei pazzo, sei malato» – non tira in ballo il solito psicopatico demente o con traumi infantili irrisolti. Sono i soldi a scatenare il massacro, e basta. Un’altra delle scelte spiazzanti e coraggiose riguarda la location dell’epilogo: una spiaggia, gli scogli, il mare della Grecia, sotto un sole che più caldo e luminoso non si può. Il regista si sbizzarrisce, sperimenta prospettive anomale e compie evoluzioni acrobatiche con la macchina da presa, riservando alle scene degli omicidi il trattamento più elaborato e scioccante. Il primo sangue che scorre appartiene proprio a Lisa, sebbene l’inizio ingannevole del film la presenti come una final girl. L’assassino, in muta nera e cappello, con il coltello a serramanico prima squarcia la gola, poi apre la pancia. Dopo di lei tocca a Lara, amante greca del defunto signor Baumer con il volto e il corpo di Janine Reynaud, estremamente sexy e protagonista di una scena memorabile: zoom, slo-mo, POV del killer, inquadratura voyeuristica attraverso il buco della serratura, lama che si infila nella porta – prima con movimenti sinuosi, poi sventrando il legno – e assassino vestito proprio come Diabolik. La lama taglia la gola, il sangue schizza sul vetro della finestra. Poi le labbra e il volto di Lara premono anch’essi sul vetro, raggiungendo per pochi secondi vette di morbosità inaudite. Sotto la luce dapprima rossa della camera oscura, poi splendidamente verde, è quindi Cléo a ricevere la visita dell’assassino, che però riesce solo a ferirla grazie al “provvidenziale” intervento di Peter. Muoiono anche uomini: personaggi di contorno (come un tossico e un tirapiedi) o importanti come l’amante di Lisa, assassinato nella scena più truculenta, quando una delle onnipresenti bottiglie di J&B, rotta e scheggiata, viene conficcata nel suo globo oculare, seguita da un colpo letale al cuore che sembra quasi compassionevole, mentre alla televisione una sfilata di majorette americane incita all’ottimismo e alla gioia di vivere.
George Hilton cita sempre La coda dello scorpione come uno dei suoi preferiti tra gli oltre 60 film nei quali ha recitato: la sua prova merita ogni elogio, dal momento che l’attore riesce a dare al doppio volto del suo personaggio una credibilità assoluta. È quindi Cléo Dupont la final girl. Giornalista, sessualmente spregiudicata, intelligente, volitiva e capace di risolvere il caso: un personaggio femminile che è frutto delle contestazioni degli anni Sessanta e che interrompe una lunga lista di donne-vittime, in quello che è l’ennesimo spunto coraggioso di questa pellicola. E tra le spiagge rocciose e il mare verde-azzurro delle isole greche, Anita Strindberg è bella, bellissima, nonostante i seni che paiono palloncini per colpa del bisturi.
CAST & CREDITS
Regia: Sergio Martino; soggetto: Eduardo M. Brochero; sceneggiatura: Eduardo M. Brochero, Ernesto Gastaldi, Sauro Scavolini; fotografia: Emilio Foriscot; scenografia: Galicia, Cubero; costumi: Luciana Marinucci; montaggio: Eugenio Alabiso; musiche: Bruno Nicolai; interpreti: George Hilton (Peter Lynch), Anita Strindberg (Cléo Dupont), Alberto de Mendoza (John Stanley), Ida Galli (Lisa Baumer, come Evelyn Stewart), Janine Reynaud (Lara Florakis), Luigi Pistilli (ispettore Stavros); produzione: Copercines, Cooperativa Cinematográfica, Devon Film; origine: Italia, Spagna, 1971; durata: 95’; home video: dvd Aegida; colonna sonora: Digitmovies.