La RAF, Frazione dell’Armata Rossa (Rote Armee Fraktion) – giornalisticamente nota anche come Banda Baader-Meinhof – è stata la più importante organizzazione armata clandestina operante nella Germania Ovest, ai tempi in cui i due stati tedeschi erano separati dal muro di Berlino.
Responsabile di molte azioni di sangue e della morte di 34 persone, la RAF, che si definiva un gruppo di «Guerriglia urbana comunista e antimperialista impegnato nella resistenza armata contro lo Stato fascista», dichiarò il proprio scioglimento il 20 aprile 1998 con una lettera inviata via fax all’agenzia di stampa Reuters in cui si leggeva: «Quasi ventotto anni fa, il 14 maggio 1970, nacque la RAF con un’azione di liberazione. Oggi concludiamo questo progetto. La guerriglia urbana nella forma della RAF fa adesso parte della storia».
La scelta del nome (Frazione) mirava a chiarire da subito come gli esponenti si ritenessero parte di un unico grande movimento di lotta internazionale al quale partecipavano organizzazioni della sinistra extra-parlamentare di altri Paesi. La RAF, come afferma Valerio Morucci, non aveva, a differenza delle BR italiane, alcuna ispirazione marxista, ma solo antimperialista1.
Co-fondata da una donna, Gudrun Ensslin, l’organizzazione si caratterizzò nel tempo per una forte componente femminile, in coerenza con la contemporaneità di anni che vedevano un numero elevato di protagoniste di sesso femminile all’interno del fenomeno internazionale della lotta armata2.
La nascita ufficiale riporta la data del 14 maggio 1970, ma per comprenderne le origini occorre fare un passo indietro e tornare a circa tre anni prima, ovvero a un giorno decisivo per lo sviluppo del futuro Sessantotto tedesco. Era il 2 giugno 1967.
Quel giorno era in visita ufficiale a Berlino Ovest, con la moglie Farah Diba, lo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, al potere dal 1941. Per protesta contro il regime repressivo e socialmente iniquo applicato in Iran, il giornale di estrema sinistra «konkret» aveva pubblicato un articolo molto duro firmato dalla giornalista Ulrike Meinhof, la quale aveva sposato nel 1961 il militante comunista Klaus Rainer Rohl.
Per l’occasione, il movimento studentesco aveva organizzato un picchetto fuori dal teatro dell’Opera dove la coppia imperiale era stata invitata, con tutti gli onori, ad assistere a una rappresentazione del Flauto magico di Mozart.
All’arrivo della delegazione si raccolse una vasta folla di manifestanti, che la polizia tedesca e lo SAVAK (i servizi segreti del regime iraniano) caricarono con lacrimogeni e manganelli. Durante i violenti scontri un agente si lanciò all’inseguimento di quello che venne identificato come il capo degli agitatori, portandosi al seguito anche l’ispettore in borghese Karl-Heinz Kurras del primo reparto della polizia politica. Armato di una pistola calibro 7,65, quest’ultimo sparò da distanza ravvicinata al ventiseienne studente Benno Ohnesorg, colpendolo alla testa e uccidendolo sul colpo (per questo delitto fu assolto il 23 novembre dello stesso anno).
A seguito del fatto, in una riunione della Lega Socialista degli Studenti Tedeschi, la militante Gudrun Ensslin denunciò la Germania Ovest come uno Stato fascista: «Ci uccideranno tutti. Sapete bene con quale tipo di maiali stiamo combattendo. Questa è la generazione di Auschwitz. Non si può discutere con le persone responsabili di Auschwitz. Loro hanno le armi e noi no. Dobbiamo armarci!».
Quarta di sette fratelli, Gudrun Ensslin era nata in un piccolo paesino del Baden-Württemberg sul bordo del Giura svevo. Il padre Helmut Ensslin, pastore della Chiesa evangelica tedesca, in gioventù aveva fatto parte del movimento culturale dei Wandervogel, costituito da un gruppo di studenti medi e universitari, fondato nel 1896 con il proposito di «liberarsi dalle restrizioni imposte dalla società borghese per tornare alla libertà di natura» e ritenuto tra i pionieri del naturismo inteso come la Freikörperkultur (cultura del corpo libero).
Nella sua famiglia, come dirà in seguito Gudrun, le ingiustizie sociali del mondo furono spesso discusse e tutti i figli vennero sensibilizzati sin dalla giovane età ai problemi esistenti non solo nella Germania Occidentale, ma in tutto il mondo.
Da piccola, Gudrun frequentò la scuola di Tuttlingen dedicandosi allo studio della Bibbia. Nel 1958, quando la sua famiglia si trasferì a Bad Canstatt, un sobborgo di Stoccarda, perché al padre fu affidata la locale chiesa luterana, la ragazza si trovava negli Stati Uniti per un anno di studio, ospite di una comunità metodista in Pennsylvania. Qui, nel 1959, venne premiata nel gruppo d’onore alla Warren High School, ma al suo ritorno si espresse in modo molto critico nei confronti del modo di vivere il protestantesimo oltreoceano.
Gudrun iniziò a studiare scienze dell’educazione, lingua e letteratura inglese e tedesca all’Università di Tubinga e nel 1963 si iscrisse al College of Education di Schwaebisch Gmuend. Dopo il primo esame di Stato per l’insegnamento alle scuole primarie, optò per gli studi post-laurea alla Freie Universität di Berlino.
In quello stesso anno conobbe a Tubinga Bernward Vesper, figlio di Will Vesper, poeta e critico letterario, nonché editore della rivista letteraria filo-nazista «Die Schöne Literatur». Con Bernward, Ensslin intraprese una relazione sentimentale e cominciò una collaborazione editoriale con una piccola casa editrice chiamata Studio Neue Literatur (studio della nuova letteratura), il cui primo lavoro era stato una raccolta di poesie contro il nucleare a cui avevano collaborato numerosi poeti.
Nell’estate del 1964, Gudrun e Bernward si trasferirono a Berlino, dove lei iniziò a insegnare in una scuola elementare e, grazie anche a una borsa di studio della Fondazione Accademica Nazionale Tedesca, ottenuta per particolari meriti universitari, si laureò alla fine dello stesso anno con una tesi sul drammaturgo Hans Henny Jahnn.
Nel 1965 la coppia conobbe il poeta marxista Günther Maschke, marito della sorella minore di Ensslin, Johanna, nonché importante membro dell’Internazionale Situazionista, movimento politico e artistico «per una Bauhaus immaginista» fondato nel 1957. Tra le fila dell’Internazionale vi era anche l’anarchico radicale Rudi Dutschke, leader del SDS (Movimento Studentesco Tedesco), che l’11 aprile del 1968 verrà gravemente ferito da un esaltato, Joseph Bachmann, influenzato dalla massiccia propaganda dei mass media controllati dall’editore Axel Springer. Questi diventerà il bersaglio preferito delle principali invettive critiche del Movimento Studentesco in Germania.
Alla fine del 1965, la coppia lavorò nel comitato elettorale della SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) per le imminenti elezioni parlamentari, insieme allo scrittore e futuro premio Nobel Günther Grass. Il 13 maggio del 1967 nacque il loro figlio Felix Robert ma, in quello stesso anno, Gudrun conobbe Andreas Baader, giunto a Berlino nel 1963 per sfuggire alla giustizia di Monaco di Baviera, dove aveva testato sulla propria pelle la durezza dei centri di detenzione per minorenni.
Nel libro Vita e morte di Ulrike Meinhof, si legge che Bernd Rabehl definiva così Andreas Baader: «Un ribelle che non sarebbe mai arrivato al movimento studentesco per convinzione teorica, ma dal fondo del suo stile di vita antiborghese e ribelle. Nei dibattiti politici del SDS non avrebbe trovato niente, avrebbe sempre espresso commenti a sproposito, definendo con scherno i presenti come chiacchieroni e a ogni piè sospinto invocando l’azione. Il movimento studentesco, tuttavia, non sarebbe stato possibile senza tipi come Baader»3.
Gudrun abbandonò la SPD entrando a far parte del movimento studentesco di opposizione extraparlamentare Apo (Außerparlamentarische Opposition) e il 2 giugno 1967, mentre Andreas si trovava in carcere per una violazione al codice della strada, era in prima fila tra i partecipanti alla protesta davanti all’Opera di Berlino contro la visita dello scià di Persia.
L’anno dopo, a febbraio, Gudrun comunicò a Bernward – che tre anni più tardi sarebbe morto suicida – la fine del loro rapporto. Il 20 marzo lei e Andreas lasciarono Berlino e il 2 aprile, in segno di protesta «contro il capitalismo, il consumismo e la loro indifferenza per la guerra del Vietnam» i due incendiarono, insieme ai militanti Thorwald Proll e Horst Söhnlein, due grandi magazzini di Francoforte.
Quello stesso mese furono tutti e quattro arrestati, a Francoforte sul Meno, dove il 31 ottobre 1968 vennero processati e condannati a tre anni di reclusione, ciascuno per incendio doloso.
Il 25 maggio del 2005 la radio nazionale austriaca ORF manderà in onda una trasmissione in cui la voce di Gudrun Ensslin, registrata durante il processo di Francoforte, dice che nelle sue azioni non ci sarebbe stata l’intenzione di «mettere in pericolo degli individui», bensì di scuotere l’indifferenza con cui nella Repubblica Federale Tedesca generalmente sarebbe stato accettato «il genocidio in Vietnam».
Nel libro Anatomia di una rivolta è scritto che nel carcere di Francoforte, «al contrario di Baader, nel periodo di detenzione Gudrun Ensslin mette ampiamente alla prova il proprio ethos pedagogico. Mietendo lodi. Decisa, fervente, instancabile. Partecipa a gruppi di lavoro con le altre detenute». La direttrice del carcere di Preungesheim, Helga Einsele, la descrive inoltre come «un essere umano che colpisce per la sua natura assoluta, pronto in caso estremo a rendere conto con la vita delle proprie convinzioni». Sempre Einsele ricorda come «si impegnasse fino all’estremo in favore delle sue compagne» e che nel circolo di discussione politico-letteraria che si teneva all’interno del carcere fosse in breve divenuta «un personaggio guida, animata da un vero e proprio eros pedagogico»4.
Anche il direttore della chiesa evangelica (Diakonische Werk) di Francoforte ebbe parole di apprezzamento per le capacità umane della detenuta e per l’eccezionale qualità del suo impegno nel progetto con i giovani provenienti dagli istituti educativi assistenziali e dai riformatori della regione, dichiarando: «Se avesse ottenuto la grazia, le avrei senz’altro offerto un impiego nel Diakonische Werk come assistente sociale. Ero seriamente interessato a un concreto lavoro comune a lungo termine».
In realtà, al suo avvocato Ernst Georg Heinitz, docente di legge a Berlino, che si dichiarava disposto ad aiutarla a trovare un impiego in una casa editrice, proponendole anche di riflettere su un suo possibile inserimento nella carriera universitaria, Gudrun rispose: «Non si prenda troppo a cuore il mio caso, un’esistenza borghese è l’ultima cosa cui aspiro».
Nel frattempo, anche Ulrike Meinhof decise di separarsi dal marito e si trasferì con le due figlie a Berlino, dove iniziò a scrivere articoli di sostegno alla lotta armata. In uno di questi si legge: «Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più».
La svolta avvenne nel 1970, l’anno dopo il rilascio (in giugno) di Gudrun e Andreas, in attesa della decisione del ricorso alla Corte Federale. Entrambi si erano resi subito latitanti, assumendo i nomi di battaglia di Hans e Grete, ma dopo un breve soggiorno in Italia, il 3 aprile del 1970, Andreas fu arrestato a Berlino in occasione di un casuale controllo di polizia stradale. Da quel momento Gudrun si attivò, con l’appoggio di Ulrike Meinhof, per organizzare la liberazione del suo compagno.
Meinhof accettò di fingere di volere intervistare Andreas Baader all’Istituto Centrale Tedesco di Berlino per un libro sugli “adolescenti marginali” secondo lo studio dello scrittore Dieter Wunderlich, e il 14 maggio 1970 entrò nell’edificio (una villa) accompagnata da due funzionari.
Nel giro di pochi minuti fecero irruzione tre persone armate che, dopo avere ferito un funzionario, liberarono Andreas Baader saltando attraverso una finestra aperta al piano terra. Quel giorno, insieme all’avvocato Horst Mahler – che aveva fondato Il Collettivo Legale Socialista (Sozialistische Anwaltskollektiv), associazione assimilabile al nostrano Soccorso Rosso – e a Ulrike Meinhof, che decise di seguirli, Baader ed Ensslin costituirono l’organizzazione armata clandestina Rote Armee Fraktion (RAF), procurandosi il denaro necessario per il suo iniziale sostentamento con un’azione simultanea. Nell’arco di 24 ore, infatti, organizzarono rapine in tre differenti banche di Berlino.
Ulrike Meinhof entrò quindi in clandestinità, lasciando le due figlie al marito, dopo avere scritto un ultimo articolo che destò non poco scalpore. In esso affermava: «Ovvio che diciamo che i poliziotti sono dei maiali. Un uomo in uniforme è un maiale, non un essere umano, dobbiamo affrontarlo. Non dobbiamo parlargli. È ovvio che potrebbe capitare di sparare». Poco tempo dopo i quattro fondatori si recarono in Giordania per ricevere un breve addestramento da campo alla guerriglia da parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), anche se le prime azioni si sarebbero limitate a colpire con bombe incendiarie alcuni luoghi simbolo del capitalismo imperialista.
Horst Mahler venne arrestato l’8 ottobre 1970, il 16 luglio 1971 la polizia di Amburgo uccise la ventenne militante Petra Schelm. Nel maggio del 1972 la RAF collocò in poche settimane alcune bombe a Francoforte, Augsburg, Monaco di Baviera, Karlsruhe, Amburgo e Heidelberg, provocando quattro morti e alcuni feriti, e dopo l’arresto del 1° giugno 1972 a Francoforte sul Meno di Andreas Baader, Holger Meins e Jan-Carl Raspe, anche Gudrun Ensslin fu messa in manette il 7 giugno, in un negozio di abbigliamento di Amburgo. Il 15 giugno, a Langhenhagen – nei pressi di Hannover – venne tratta in arresto Ulrike Meinhof, che fu subito internata in una cella di isolamento interamente bianca e illuminata da una luce elettrica accesa 24 ore su 24.
Meinhof descriverà così l’esperienza: «Una folle aggressività per la quale non esiste alcuna valvola di sfogo. È questa la cosa peggiore. La chiara consapevolezza di non avere alcuna possibilità di sopravvivere; la totale impossibilità di comunicare questa certezza. La sensazione che il tempo e lo spazio siano incastrati uno nell’altro, la sensazione di trovarsi in una stanza con specchi deformanti, di sbandare»5.
Pochi mesi dopo l’arresto dei quattro membri fondatori, si registrò un primo tentativo eclatante di ottenerne la liberazione, cui, come vedremo, ne sarebbero seguiti altri, tutti falliti.
La notte del 4 settembre 1972 un gruppo armato di Settembre Nero penetrò nel villaggio olimpico a Monaco e, dopo avere ucciso due atleti della compagine israeliana, ne prese in ostaggio altri nove, chiedendo in cambio la liberazione di alcuni detenuti, tra cui i militanti RAF. Il tutto, però, si concluse nella notte tra il 5 e il 6 con una strage all’aeroporto di Fürstenfeldbruck, nella quale morirono tutti gli atleti sequestrati, cinque fedayyin e un poliziotto tedesco.
Nel frattempo, sulla scia della RAF, era nato in Germania un altro importante gruppo armato denominato Movimento 2 giugno (Bewegung 2. Juni), fondato da alcuni membri del circolo di controcultura berlinese Il Blues, ma anche in questo caso occorre risalire a un precedente: le uccisioni, da parte della polizia, di due militanti della Croce Nera Anarchica. Precisamente, di Georg von Rauch il 4 dicembre 1971 a Berlino e di Thomas Weisbecker il 2 marzo 1972 ad Augusta. Quest’ultimo fu colpito a morte mentre stava uscendo da una birreria insieme alla compagna Carmen Roll.
Dopo essersi procurato denaro con due rapine alla cassa di risparmio di Berlino e alla Technische Universität, il 3 marzo 1972 il Movimento 2 giugno compì un attentato dinamitardo all’LKA come risposta all’assassinio di Weisbecker avvenuto il giorno precedente, rivendicandolo con un volantino intitolato «Ora basta», che faceva riferimento anche alle morti di Petra Schelm e Georg von Rauch.
Alla luce degli arresti del 17 maggio 1972 di alcuni fondatori, il ritrovamento del 4 giugno 1974 del corpo di un ex membro del Movimento, Ulrich Schmücker, fece pensare a un’esecuzione “interna” per avere collaborato con la polizia dopo l’arresto.
Il 10 novembre 1974 il Movimento 2 giugno uccise a Berlino il giudice Günther von Drenkmann e il 27 febbraio 1975 sequestrò a Zehlendorf il candidato CDU alle elezioni comunali Peter Lorenz, ottenendo in cambio la scarcerazione dei militanti Verena Becker, Gabriele Kröcher-Tiedemann, Ingrid Siepmann e Rolf Heissler, che si rifugiarono in Yemen.
Horst Mahler, invece, rifiutò lo scambio. Il 1° marzo 1975, condannato a quattordici anni per le rapine e per la liberazione di Baader, dichiarò al telegiornale della ARD: «Il rapimento del nemico del popolo Peter Lorenz come mezzo per la liberazione di prigionieri politici è espressione di una politica originata dalle lotte della classe operaia, politica che deve necessariamente terminare in un vicolo cieco. La strategia del terrore individuale non è la strategia della classe operaia. Nel corso del processo farsa contro me, Becker e Meinhof nel settembre dell’anno scorso, ho chiarito in una critica pubblica, che era anche un’autocritica, che il mio posto è al fianco della classe operaia rivoluzionaria. Sono fermamente convinto che attraverso la lotta delle masse rivoluzionarie, le porte delle carceri si apriranno per tutti i prigionieri politici e che le accuse di terrorismo nei miei confronti verranno spazzate via. Per questo motivo rifiuto di essere portato fuori dal mio Paese in questo modo. Avanti con il KPD».
Il 7 luglio 1976 evasero dal carcere i militanti Inge Viett, Juliane Plambeck, Monika Berberich e Gabriele Rollnik e il 29 ottobre del 1977 il Movimento sequestrò a Vienna l’industriale Walter Palmers, procurandosi un riscatto di quasi 5 milioni di marchi. Successivamente fece evadere Till Meyer dal carcere di Tegel, ma alla fine del 1980 Inge Viett e Juliane Plambeck sciolsero il Movimento 2 giugno per confluire nella RAF.
Tornando alla Rote Armee Fraktion, il 5 febbraio 1974, dopo venti mesi di isolamento, Gudrun fu condotta in una cella vicina a quella di Ulrike Meinhof nel carcere di Ossendorf, prima che i principali membri della RAF venissero trasferiti nel supercarcere Stammheim di Stoccarda, appositamente costruito su un precedente campo di patate. Qui, anche le finestre erano vigilate per 24 ore al giorno da un elicottero.
A un’amica che era andata a trovarla in carcere, Gudrun scrisse: «Quando mi hai chiesto se dovessi venire ancora a trovarmi, io ho risposto di sì e l’ho fatto in modo semplice e spontaneo. Nel frattempo, ci ho riflettuto sopra a lungo e ho capito che devo fare una differenza tra due tipi di visitatori: quelli che mi vengono a trovare come fossi un’ammalata, qualcuno di bisognoso. Sii onesta, non rientri forse anche tu in questa categoria? Questo però mi opprime, perché è così falso! I visitatori dell’altro tipo sono gli amici e i compagni, loro sanno quello che penso, anzi pensano la stessa cosa e quindi sono lontani mille miglia da categorie come quella del tragico e del destino».
Il 9 novembre 1974 morì nel carcere di Wittlich un componente del nucleo storico della RAF: Holger Meins, in sciopero della fame da oltre due mesi per protesta contro le condizioni disumane dei detenuti politici. Artista, cineoperatore e fotografo, nome di battaglia Starbuck – come quello del timoniere della nave Pequod nel romanzo Moby Dick di Herman Melville – Meins era detenuto dal 1° giugno 1972 e ormai pesava meno di 45 chili. Pochi giorni prima di morire aveva scritto in una lettera: «O il problema o la soluzione. In mezzo non c’è nulla».
La morte di Meins venne vista come un suicidio imposto dalle condizioni disumane in cui i detenuti politici erano costretti a vivere. Nel corso della conferenza-stampa successiva al decesso, il suo avvocato parlò senza mezzi termini di assassinio, documentando le sue affermazioni con il fatto che il Ministro Regionale della Giustizia, Martin, avesse ordinato il blocco della distribuzione dell’acqua agli “scioperanti della fame”, dichiarando che chi non avesse voluto mangiare non avrebbe avuto diritto a bere. Soltanto l’immediata reazione del collegio di difesa – e di parte dell’opinione pubblica – costrinse il ministro Martin a ritirare il provvedimento.
Il legale aggiunse che, sulla scia dell’insegnamento nazista, il medico incaricato di nutrire forzatamente i detenuti si sarebbe servito di una cannula di dimensioni pari a quelle del tubo digerente, che avrebbe provocato agli imputati lesioni interne inguaribili.
Il 24 novembre 1974 Ulrike Meinhof fu condannata a otto anni di prigione per l’incendio alla Axel Springer di Amburgo e venne trasferita nel carcere di Stammheim con Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe. Nel suo saggio Rote Armee Fraktion. Il caso Baader-Meinhof, Stefan Aust definisce così il penitenziario: «Isolamento di gruppo perfetto di quattro persone che vivono come sotto una cappa di vetro che non offre alcuna compensazione per la quantità di interazione che potrebbe offrire una normale detenzione»6. Questa dinamica detentiva fu foriera di ripetuti screzi tra quei quattro prigionieri sempre più stremati, al punto da indurre Meinhof a scrivere: «Non si tratta di essere fatalistici quando dico che non ce la faccio più. Per me è insostenibile che non mi possa più difendere. Mi passano davanti delle cose, tante cose su cui non dico più niente, ma che mi fanno scoppiare, per tutta la loro cattiveria e falsità».
Il 4 aprile 1975 fallì un secondo tentativo di ottenere la liberazione dei militanti in carcere. A Stoccolma un commando armato RAF formato da Karl-Heinz Dellwo, Siegfried Hausner, Hanna-Elise Krabbe, Bernhard Rössner, Lutz Taufer e Ulrich Wessel irruppe nella sede dell’ambasciata tedesca chiedendo la scarcerazione di 26 prigionieri politici in cambio del rilascio di 12 ostaggi. Helmut Schmidt si rifiutò di trattare e morirono l’addetto militare Andreas von Mirbach, quello al settore economico Heinz Hillegaart e i militanti Wessel e Hausner.
Il 21 maggio 1975 ebbe inizio a Stoccarda il processo a carico di Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Ulrike Meinhof e Jan-Carl Raspe. Ensslin, durante un’udienza in tribunale, affermò: «Noi abbiamo imparato che i discorsi a cui non seguono delle azioni sono ingiusti. Io non vedo le ragioni per cui si dovrebbe continuare ad agire come si è agito per secoli, una volta che si è riconosciuto come questo fosse sbagliato, ossia fare come se non si potesse fare nulla. L’ho detto ai giudici, io so perché loro dicono che non si può fare nulla, è perché non vogliono fare nulla. Ma io al contrario voglio fare qualcosa».
L’anno dopo, mentre a Stoccarda era in corso un secondo processo a carico dei militanti RAF, nella notte tra l’8 e il 9 maggio Ulrike Meinhof fu trovata impiccata nella sua cella a Stammheim.
«Non aveva nessuna intenzione di suicidarsi», dichiarò subito dopo l’avvocato Klaus Croissant, che le aveva parlato giusto due giorni prima. Poco dopo i suoi compagni spiccarono un comunicato: «Siamo sicuri che si tratti di un assassinio, come per Holger Meins e Siegfried Hausner, un’esecuzione concepita da anni. Ai detenuti non è stato permesso di vedere la loro compagna morta, la sua salma è stata precipitosamente portata via quando il primo avvocato, quello di Gudrun Ensslin, si è presentato alla prigione; l’autopsia è stata eseguita senza dare la possibilità agli avvocati e ai familiari di vedere la salma; non è stata permessa la presenza di un medico legale nominato dalla sorella, durante l’autopsia; dopo la prima autopsia la salma era talmente massacrata che il medico incaricato di effettuare la seconda non era più in grado di arrivare ad accertamenti precisi. Sulle gambe però sono stati accertati numerosi segni di violenza esterna dovuti a un corpo contundente; il carattere delle ferite degli organi interni del collo esclude in pratica la morte per impiccagione».
In un’intervista condotta da Ron Augustin Wienke Meinhof, sorella di Ulrike, dichiarerà: «Ulrike mi aveva detto chiaramente, quando ancora si trovava a Colonia-Ossendorf: “Se muoio in carcere, significa che mi hanno uccisa; io non mi ammazzerò mai”. Le conclusioni della Commissione Internazionale di Inchiesta, presentate in una conferenza stampa a Parigi nel 1979, avevano rivelato tali contraddizioni all’interno dei rapporti ufficiali per cui ogni sforzo risultava orientato a occultare la vicenda. Non voglio entrare nei dettagli per l’ennesima volta, ma Ulrike si sarebbe impiccata alle sbarre di una finestra che si trovavano dietro una spessa lastra metallica. Le foto della polizia mostrano che il suo piede sinistro era ancora appoggiato su una sedia quando fu trovata. La corda alla quale era appesa era così fragile e lunga che avrebbe dovuto rompersi, o la testa avrebbe dovuto scivolare fuori nel salto. L’assenza di sanguinamento e altri indizi sembrava indicare un intervento esterno, e la Commissione Internazionale di Inchiesta concluse che mia sorella doveva già essere morta quando fu impiccata. Posso fare ipotesi. Ma c’era una scala di soccorso del tutto indipendente dal circuito carcerario, che dall’esterno portava vicino alla sua cella, al settimo piano. Chiunque avrebbe potuto arrivarci. Il 9 maggio alle 9 del mattino i mezzi di informazione riferivano che Ulrike si era suicidata. Con l’avvocato Axel Azzola mi precipitai a Stammheim. Al nostro arrivo il corpo era già stato portato via. Gudrun Ensslin avrebbe voluto vederla, ma il procuratore federale non gliel’ha permesso. Io ho dovuto identificarla prima dell’autopsia, ma a parte questo non c’è stata un’altra occasione»7.
Nel 1977 i militanti RAF a piede libero intensificarono le loro azioni: il 7 aprile venne ucciso a Karlsruhe, nel quartiere di Neureut, il procuratore federale Sigfried Buback, mentre si stava dirigendo in auto alla sede della Corte Costituzionale. Il 30 luglio il Presidente della Dresden Bank, Jürgen Ponto, fu ucciso nella propria abitazione di Oberursel, vicino a Francoforte sul Meno. Il 5 settembre si consumò l’azione più eclatante: il sequestro del capo degli industriali Hanns-Martin Schleyer, gestore delle industrie del protettorato di Boemia e Moravia al tempo dell’occupazione tedesca e, successivamente, membro della CDU. L’agguato e il sequestro furono opera del Commando Siegfrid Hausner, composto da Sieglinde Hofmann, Willy Peter Stoll, Stefan Wisniewski e Peter-Jürgen Boock.
Infine, a Palma di Maiorca, il 13 ottobre un gruppo di quattro guerriglieri palestinesi dirottò un Boeing 737 della Lufthansa, prendendo in ostaggio 91 persone. La RAF, che aveva contribuito all’organizzazione del dirottamento, chiese la liberazione dei propri militanti in carcere in cambio della vita degli ostaggi dell’aereo e dell’industriale tedesco. Il governo tedesco non accettò lo scambio e il 17 ottobre la squadra antiterrorismo Gsg-9 assaltò l’aereo, fermo sulla pista dell’aeroporto di Mogadiscio, uccidendo tre dirottatori e ferendo il quarto. Gli ostaggi furono liberati.
La stessa sera del 17 ottobre 1977, presso il supercarcere di Stammheim, nelle rispettive celle vennero trovati morti Andreas Baader e Gudrun Ensslin, il primo ucciso da un colpo di pistola alla nuca e la seconda impiccata a un filo elettrico. Jan-Carl Raspe, in fin di vita a causa di una botta in testa, morì il giorno seguente in ospedale.
Irmgard Möller, unica sopravvissuta, uscirà di prigione nel 1994, pubblicando un libro nel quale smentirà la versione del suicidio collettivo: «Sono convinta che sia stata un’azione dei servizi. Il BND poteva entrare e uscire liberamente da Stammheim e aveva (dimostrato) installato da noi le apparecchiature per le intercettazioni ambientali. Il personale del carcere era stato cambiato durante il blocco dei contatti. Le telecamere del corridoio poi non funzionavano la notte. Penso che il governo fosse coinvolto e che anche all’interno della Nato se ne fosse discusso. Al tempo c’era l’unità di crisi anche negli Usa, che si teneva in continuo contatto con Bonn. Loro avevano un grosso interesse che noi non ci fossimo più. Il metodo di far apparire un omicidio per un suicidio appartiene alle modalità della CIA».
Il 18 ottobre la RAF fece ritrovare il corpo senza vita di Schleyer nel bagagliaio di un’auto a Mulhouse.
La vicenda delle “morti collettive” nel carcere di Stammheim ebbe ripercussioni anche nel conflitto armato in quegli anni in corso in Italia: il 30 ottobre 1977 morì a Torino il giovane militante Rocco Sardone, a causa dell’esplosione di un ordigno rudimentale che stava trasportando a bordo di una Fiat 850 insieme ad altri due ragazzi, per un’azione dimostrativa in risposta alle morti in carcere dei militanti della RAF. Sempre nel capoluogo piemontese, il 16 novembre 1977, venne ferito mortalmente da un commando delle Brigate Rosse Carlo Casalegno, direttore del quotidiano «La Stampa», che aveva appena pubblicato un articolo molto critico verso l’organizzazione armata tedesca. Per quanto riguarda le modalità dell’operazione-Schleyer, l’anno successivo sarà evidente l’analogia operativa militare tra RAF e Brigate Rosse nel sequestro compiuto il 16 marzo 1978 a Roma (l’agguato di via Fani) ai danni di Aldo Moro, nonché nelle modalità del ritrovamento dei corpi del Presidente della Democrazia Cristiana e del membro della CDU tedesca.
Quanto ai rapporti con le organizzazioni armate operanti a quel tempo in Italia, è risaputo che la RAF ebbe sporadici contatti con le Brigate Rosse, perché nella base milanese di via Monte Nevoso – scoperta il 1° ottobre del 1978 dal nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – vennero reperiti atti relativi al processo di Stammheim con alcune dichiarazioni dei detenuti dell’organizzazione: quella di Andreas Baader; lettere dattiloscritte di Ulrike Meinhof; una pubblicazione in lingua tedesca datata settembre-ottobre 1977; una cartella contenente documenti relativi alla storia della RAF (memoriali, verbali dibattimentali, strategie di guerriglia); due «cassette di cui una iniziata con una voce femminile che parla lingua tedesca». È stato altresì accertato che, nel novembre del 1979, il brigatista Mario Moretti si recò a Parigi insieme a Laura Braghetti, incontrando – al Cafè de la Paix di Place de l’Opéra – lo Stewart di Alitalia Carlo Brogi per una concordata consegna di tre passaporti falsi, destinati a militanti della RAF. A tal fine, sempre Brogi, tramite Braghetti, affittò a suo nome e per qualche mese un appartamento a Parigi in rue des Dames.
In questa seconda fase della RAF spicca la storia di una terza donna, Elisabeth von Dyck, nata l’11 ottobre 1950 a Borstel.
Figlia di un meccanico, dopo un’esperienza nella chiesa dei mennoniti si fidanzò nel 1971 con il futuro militante Klaus Jünschke. Nel 1974 si laureò ad Heidelberg e, in seguito, frequentò il Movimento Socialista Collettivo, militando poi nel comitato contro la tortura dei prigionieri politici in Germania che solidarizzò con i primi militanti RAF arrestati.
Nel 1975 fu spiccato contro di lei un mandato di cattura per contrabbando di armi dalla Svizzera alla Germania. Von Dyck trascorse sei mesi nella prigione di Ossendorf e, una volta liberata, si recò ad Aden, nello Yemen, in un campo di addestramento del palestinese Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).
Nell’estate del 1977 un nuovo mandato di cattura la costrinse a entrare in clandestinità, e il 22 settembre, durante il sequestro Schleyer, era a Utrecht con Knut Folkerts, in seguito arrestato e condannato all’ergastolo. Al processo contro i membri della RAF, Monika Seckendorf dirà di avere vissuto, dopo il sequestro Schleyer, con Friederike Krabbe ed Elisabeth von Dyck in una casa di Baghdad.
Il 4 maggio 1979 von Dyck fu uccisa dalla polizia a Norimberga, dopo un appostamento al numero 40 di Stephanstraße. Secondo il rapporto dell’autopsia, il proiettile fatale risultò sparato alla schiena e addosso le venne ritrovata – come annota Oreste Grani sul sito web Leo Rugens – una carta d’identità rubata nei primi anni Settanta in un comune della provincia di Como: Sala Comacina.
«C’è come un ripensamento in Germania Federale, mi sembra. L’uccisione di Elisabeth von Dyck con il solito colpo sparato dal solito poliziotto scelto, nel solito stato di legittima difesa, alla schiena della presunta terrorista, questa volta ha suscitato maggiore indignazione, domande, inquietudine», si leggerà in un articolo pubblicato su «Lotta Continua» il 24 maggio 19799.
Il nome della militante verrà utilizzato dal gruppo guerrigliero francese Action Directe denominato “Elisabeth Von Dyck Commando”. Sarà uno dei suoi componenti a uccidere, il 25 gennaio 1985, il generale René Audran.
Le ultime azioni armate della RAF furono consumate nel 1991: a febbraio, un attacco contro l’ambasciata statunitense di Bonn, in opposizione alla Guerra del Golfo; il 1° aprile, l’omicidio di Detlev Karsten Rohwedder, politico del SPD (progressisti) a capo dell’agenzia tedesca per la privatizzazione delle proprietà della ormai ex DDR. Sulla paternità di quest’ultimo delitto non fu mai fatta totale chiarezza: la nebulosa è ben espressa e ricostruita dalla miniserie docu-fiction Un omicidio irrisolto: il caso Rohwedder (A Perfect Crime, Jan Peter, Georg Tschurtschenthaler, 2020).
Gundrun Ensslin fu sepolta il 27 ottobre del 1977 presso il cimitero 121 Dornhaldenfriedhof di Stoccarda, come Baader e Raspe, dopo un imponente funerale a cui parteciparono migliaia di persone.
Nel 1978 uscì un film documentario dal titolo Germania in autunno (Deutschland im Herbst), prodotto dalla cooperativa di autori tedeschi Filmverlag der Autoren su iniziativa di Theo Hinz, uno dei direttori, in seguito al rifiuto degli organismi statali di finanziare un film sulla RAF diretto da Reinhard Hauff. Un gruppo di autori aderenti alla cooperativa, tra cui Reiner Werner Fassbinder, decise così di realizzare una serie di episodi. In quello diretto a due mani da Volker Schlöndorff e Alexander Kluge compare un’intervista alla sorella di Gudrun Ensslin.
La figura di Gudrun ha molto interessato il cinema tedesco ed è stata interpretata dall’attrice Barbara Sukowa in Anni di piombo (Die bleierne Zeit, Margarethe von Trotta, 1981); da Sabine Wegner in Stammheim. Il caso Baader-Meinhof (Stammheim, Reinhard Hauff, 1986); da Corinna Kirchhoff in Die Reise (Markus Imhoof, 1986), basato sulle memorie di Bernward Vesper; da Anya Hoffmann in Todesspiel (Heinrich Breloer, 1997); da Johanna Wokalek in La Banda Baader Meinhof (Der Baader Meinhof Komplex, Uli Edel, 2008), candidato agli Oscar come miglior film straniero e vincitore del 66° Golden Globe; infine, da Lena Lauzemis in Wer wenn nicht wir (Andres Veiel, 2011), vincitore del Premio Bauer Alfred e il premio del German Art House Cinemas al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Nel libretto dell’opera La piccola fiammiferaia, tratto dalla fiaba di Hans Christian Andersen, il compositore Helmut Lachenmann inserisce alcuni passaggi presi da una lettera di Gudrun in prigione a Stammheim accanto a un testo di Leonardo da Vinci, e giustifica la propria scelta dicendo di riconoscere, nelle parole di Gudrun, «quell’amore per l’individuo che sprofonda nel suo scontrarsi con la società. Gudrun Ensslin per me rappresenta una variante della mia bambina trasformata all’estremo».
In occasione dell’uscita del film Wer wenn nicht wir, il 20 marzo 2011 la «Bild» ha pubblicato un’intervista di Annika Trost al 43enne Felix, figlio di Gudrun Ensslin e Bernward Vesper, oggi professore di estetica all’Accademia di Belle Arti di Stoccarda, dal titolo Es hätte auch anders enden können? (Poteva finire diversamente?). Alla domanda se, nel caso i suoi genitori fossero rimasti insieme, le cose sarebbero potute andare a finire in modo diverso, Felix ha risposto: «La separazione dei miei genitori e la loro morte sono due questioni diverse. Naturalmente ci sono stati momenti in cui avrei voluto che i miei genitori rimanessero insieme, e quelli in cui avrei voluto averli ancora nella mia vita. Ma mio padre non era il padrone di Gudrun e credo che la sua separazione da Bernward non sia collegata al suo successivo sì a Baader e alla RAF. Se si leggono le loro lettere dopo la separazione, ci si rende conto che le cose sarebbero andate a finire allo stesso modo».
Alla domanda su quando avesse saputo chi fossero in realtà i suoi veri genitori, Felix ha detto: «Avevo dieci anni e non avevo mai visto mia madre in tv perché i miei genitori adottivi sono stati molto prudenti e quindi in casa non avevamo la televisione. Infatti, io non sapevo nulla, e ricordo che giocando con altri bambini è capitato che qualcuno di loro mi dicesse: “Ehi, tua madre è in carcere”. E io gli rispondevo: “No, è seduta al chiuso in cucina”».
Ulrike Meinhof, invece, dal 19 dicembre 2002 è stata sepolta nel cimitero evangelico di Mariendorf. Nel novembre 2012 la figlia, Bettina Rohl, ha rivelato di avere scoperto che il cervello di sua madre si trova all’Istituto di Psichiatria e Medicina Psicosomatica dell’Università di Magdeburgo, conservato in un contenitore di vetro inviato nel 1997 da un neuropatologo dell’Università di Tubinga, il professor Jurgen Pfeiffer. In quell’occasione, Bettina ha pubblicamente denunciato il Ministro degli Interni Otto Schily – l’avvocato difensore di Gudrun Ensslin a Stammheim – e la Commissione Internazionale Indipendente, creata per accertare le cause della morte di Ulrike Meinhof, per avere nascosto i risultati del rapporto del professor Pfeiffer che, per primo, aveva analizzato l’organo nel quadro dell’autopsia. Nella relazione di cui Bettina è entrata in possesso, dopo oltre venticinque anni, Pfeiffer riportava un’analisi del professor Bernhard Bogerts, per il quale il cervello della Meinhof sarebbe stato danneggiato nel 1962 dalla rimozione di un tumore benigno. Secondo la figlia, qualora accertato in sede processuale, questo dato avrebbe potuto comportare il riconoscimento di una parziale o totale infermità mentale della madre.
Note
1 La video-intervista citata compare negli extra del dvd italiano del film La Banda Baader Meinhof di Uli Edel (2008), edito da Bim.
2 Negli Stati Uniti, Berardine Dohrn aveva fondato nel 1969, unitamente al marito Bill Ayers, i Weather Underground e qualche anno più tardi Assata Shakur il Black Liberation Army. In Italia Margherita Cagol aveva dato vita nel 1970, unitamente al marito Renato Curcio, alle Brigate Rosse. In Giappone era stata Fusako Shigenobu a fondare nel 1971 l’Armata Rossa Giapponese (cfr. Steccanella Davide, Le indomabili. Storie di donne rivoluzionarie, Paginauno, Milano 2017).
3 Krebs Mario, Vita e morte di Ulrike Meinhof, Kaos Edizioni, Milano 1991.
4 Grieco Agnese, Anatomia di una rivolta, Il Saggiatore, Milano 2010.
5 Bruckner Peter, Stato autoritario e movimenti alternativi in Germania. Passato e presente della repubblica federale, Einaudi, Torino 1982.
6 Aust Stefan,Rote Armee Fraktion. Il caso Baader-Meinhof, Il Saggiatore, Milano 2009.
7 Augustin Ron, Il piombo degli anni, in «il manifesto», 10 maggio 2016.
8 Tolmein Oliver, RAF, das war für uns Befreiung: Ein Gespräch mit Irmgard Möller über bewaffneten Kampf, Knast und die Linke, Konkret Literatur Verlag, Amburgo 2002.
9 Stoccarda, in «Lotta Continua», 24 maggio 1979.