Freaks of nature/Freaks of culture. Lo spettacolo della mostruosità
Roberto Della Torre
I freak intesi come mostri – letteralmente, coloro che dimostrano il meraviglioso potere del divino – hanno una lunga storia nella cultura europea. Come i mostri, vivono in una sorta di esilio metaforico, in luoghi di confine. Ma soprattutto occupano uno spazio periferico in tutte le tradizioni culturali. Il freak, come il mostro, demarca non solo il reale e l’irreale, ma anche il credibile e l’incredibile, ciò che è permesso e ciò che è proibito. La sua irruzione nel mondo normale genera problemi cognitivi e morali. Non solo ribalta le categorie concettuali, come sostiene Noël Carroll(1), ma mette in discussione i tabù culturali. Egli, infatti, unifica gli opposti morali, fisici, genetici, etnici, di gender. In questa sua confusione ontologica il freak è, in modo paradossale, non privo di attrattive e in grado di suscitare emozioni contrastanti. Charles Dickens fu il primo scrittore a interessarsi a queste creature e al loro mondo. Importante per lui fu la visita di quello che può essere considerato il più grande museo di freak della storia, ovvero l’American Museum di P.T. Barnum, in cui era possibile osservare dal vero queste “curiosità”. Nel corso dell’Ottocento il freak show abita musei, fiere (la più celebre è quella di San Bartolomeo a Londra), luna park e circhi. Ma sono i baracconi ambulanti, quelli raccontati dal film Freaks (1932) di Tod Browning – regista profondamente affascinato dal mondo circense – a proporre un vero e proprio spettacolo della malformazione: nani, giganti, pinhead, mutilati, donne barbute, uomini scheletro, fratelli siamesi, ermafroditi. Accanto a loro altri uomini senza deformazioni congenite si esibiscono in spettacoli sorprendenti come mettersi chiodi nella pelle, ingoiare vetro, infilarsi spade in gola, mangiare fuoco. E «per un certo periodo vennero esibiti anche parenti di criminali famosi, come il padre di John Dillinger o la madre di Bonnie Parker»(2). Ne nasce uno spettacolo sospeso tra realtà e illusione, capace di suggestionare e divertire, ma anche di fare assaporare con malinconia il grigiore dell’esistenza. «Il baraccone», come scrive Leslie Fiedler, «è diventato non soltanto parte integrante della cultura popolare americana, ma un tipico simbolo dell’interdipendenza tra piacere e sofferenza, tra ripugnanza e rispetto, a disposizione dei più semplici come dei più sofisticati»(3). Fiedler prosegue affermando che questo mondo è diventato rapidamente oggetto della letteratura, del teatro e del cinema, fino a diventare «materia di un’arte colta più cosciente o arte di massa più aggiornata»(4). Nel tributo di Rob Zombie al cinema dell’orrore e, potremmo dire citando Pierre Bourdieu(5), al più vasto «campo culturale» dell’horror, la figura del freak, nelle sue diverse componenti sociali e semantiche, è centrale. La deformazione fisica e/o morale, esibita o nascosta, originata da fattori diversi tra cui quello ambientale, sociale e culturale, caratterizza in particolare i personaggi di La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo. Nati da un incrocio tra il cinema horror classico e quello degli anni Settanta (in particolare Non aprite quella porta [1974] di Tobe Hooper e Le colline hanno gli occhi [1978] di Wes Craven), i mostri-freak di Zombie sono un centrifugato postmoderno di incongruenze culturali che tracciano, in qualche modo, la storia e l’uso dei freak nei media. La teologia e la scienza si interessano fin dall’antichità a questi “scherzi di natura”. Dal punto di vista teologico, si può affermare che se per i pagani partorire una creatura deforme è interpretato come una punizione divina – cui porre rimedio tramite sacrifici o mummificazioni – per la cristianità ciò assume un significato diverso. Se tutto è da considerarsi creato a immagine e somiglianza di Dio, anche queste creature hanno un rapporto con la divinità e in quanto tali devono essere rispettate. Gli studiosi di medicina, invece, danno origine alla teratologia, scienza delle malformazioni che procede alla classificazione dei freak a seconda dei loro difetti. La prima distinzione è tra anomalie fisiche e mentali, a cui seguono ulteriori sottoclassificazioni che si arricchiscono a seconda di nuovi casi e scoperte. La dimensione scientifica della malformazione gode di molti richiami all’interno del cinema horror, in particolare attraverso quella che si può considerare l’icona per eccellenza della teratologia, ovvero il feto deforme conservato in un’ampolla. Captain Spaulding, protagonista dei primi due film di Rob Zombie, è il curatore del “Museum of Monsters and Madmen” in cui sono esposti feti, ossa, corpi in formalina e deformità di ogni tipo. Questo museo manifesta un gusto ossessivo per lo spettacolo grottesco e sanguinolento del Grand Guignol, per i circhi, le fiere e gli spettacoli ambulanti che mettevano in mostra ogni tipo di deformazione umana. Spesso le malformazioni fisiche vennero ritenute segno di devianza morale, manifestazione tangibile, visibile del male che si nasconde nell’uomo. Da questa idea sono nati personaggi come l’Uomo Lupo o Mr. Hyde, ovvero quei mostri che rappresentano visivamente il lato oscuro, istintivo e irrazionale dell’essere umano. Se da una parte Zombie celebra questo tipo di mostruosità con riferimenti e citazioni al cinema classico, dall’altra guarda a quel cinema moderno che Kim Newman ritiene nascere nel 1960 con Psyco. Da questo film in avanti, infatti, la deformazione morale non ha più necessariamente una sua visibilità, ma può appartenere alla sfera mentale e psicologica nascosta dentro/dietro un’apparente normalità. È questo il ritratto del serial killer, l’assassino seriale di cui nessuno sospetta poiché perfettamente integrato nei ritmi e nelle logiche di convivenza sociale. Nel museo di Captain Spaulding sono ricostruite le vicende di alcuni tra i più importanti assassini della storia, siano realmente esistiti (come Edward Gein) oppure inventati, come il famigerato Dr. Satana. Durante il percorso nel suo “Tunnel degli assassini” il clown spiega vita e morte dei suoi paladini agli ignari visitatori e, in qualche modo, riesce a leggere in prospettiva storica e sociale il malsano ambiente in cui vive, dandogli uno spessore culturale, glorificando il gusto del macabro e, in fondo, il cinema (del terrore) a cui lui stesso appartiene. I componenti della famiglia Firefly, in particolare Otis, Baby e naturalmente Spaulding, hanno uno spiccato gusto per l’horror. Il loro momento dell’anno preferito è la notte di Halloween e appena possono guardano in tv i classici con Bela Lugosi o Boris Karloff. Riferimenti e citazioni letterarie e cinematografiche sembrano definire l’identità di Spaulding: le parole love e hate tatuate sulle dita delle mani, per esempio, rimandano al folle reverendo protagonista di La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton, mentre il suo aspetto clownesco richiama alla memoria il pagliaccio del romanzo IT di Stephen King. Inoltre, l’aspetto grottesco di casa Firefly e quello museale della stazione di servizio richiamano alla memoria altri due film di Tobe Hooper, Quel motel vicino alla palude (1977) e Il tunnel dell’orrore (1981). In qualche modo Spaulding, il cui nome deriva da un personaggio interpretato da Groucho Marx, sembra avere ricostruito la sua vita sul modello del cinema da lui amato: l’horror, il comico e il gangster movie. Per il gran finale di La casa del diavolo, infatti, il riferimento è Gangster Story (1967) di Arthur Penn in cui i cattivi, in un ultimo atto eroico, muoiono crivellati dai colpi della polizia. Ma se confrontiamo i Carter di Le colline hanno gli occhi o la famiglia di Non aprite quella porta con i Firefly, notiamo che tanto quelli erano primitivi e contadini, quanto questi sono acculturati e consapevoli. L’arredamento fatto di ossa è stato sostituito da televisori, manifesti cinematografici, poster e fotografie. I grugniti sono diventati parole: Spaulding è loquace e dotato di una retorica eccezionale, truccato e vestito per l’occasione. Le regole affabulatorie del mondo dei media sono tutte presenti in questa casa degli orrori. Non c’è, a differenza dei due riferimenti citati, una presa di distanza dal mondo civilizzato e dai suoi prodotti materiali e culturali. Anzi, se è vero che Non aprite quella porta e i suoi protagonisti rappresentano una critica al capitalismo(6) e, come sostiene Robin Wood, una denuncia del conflitto tra i valori tradizionali americani e quelli hippy – rappresentati rispettivamente dalla famiglia cannibale e dalle sue vittime(7) – i Firefly rappresentano proprio quella generazione hippy priva di preoccupazioni e ripiegata su di sé, diventata ormai essa stessa una generazione di mostri. I suoi membri, infatti, hanno ricostruito in forma grottesca un piccolo e moderno sistema capitalistico di cui usano strategie e norme: dalla seduzione al rispetto dei ruoli gerarchici, dal denaro al mito del superuomo. I loro corpi non hanno nulla a che vedere con i canoni del mostruoso, ma piuttosto rimandano a un modello borghese di bellezza alternativa e all’immaginario rock nato nella seconda metà del XX secolo. La loro cultura e la loro immagine ricordano quelle di altri tipi di freak, che durante gli anni Sessanta del Novecento, all’interno della musica rock e della cultura di strada, propongono uno stile di vita e d’identità diverso da quello nelle mani della cultura dominante. «I freak, nell’accezione che io do a questo termine, sono palesemente membri di subculture giovanili della classe media che comportano una realtà subculturale in discontinuità totale con la realtà convenzionale. I freak sono degli anti-environment ambulanti che si arrogano il diritto a un controllo assoluto del loro aspetto fisico e del proprio comportamento esteriore, riducendo a totale irrilevanza la cultura e le norme informali di coloro che vivono nell’ambito della realtà convenzionale, se non nella misura in cui se ne servono per provocare disorientamento tra i nemici culturali. Freak indica un tipo ideale che comprende le subculture hippy e Nuova Sinistra»(8). L’horror degli anni Settanta ha tematizzato questa trasformazione culturale in atto nelle nuove generazioni attraverso il tema della famiglia, ritenuta una componente fondamentale del condizionamento sociale per il successo capitalista. Svincolarsi dai valori familiari e dalla legge del padre, che ha lo scopo di prevenire l’emergere di strutture personali alternative, è proprio di un cinema horror cosiddetto progressista. La famiglia autoritaria borghese tenta di reprimere i suoi soggetti per farne prodotti conformisti. Se il processo fallisce, il bambino viene designato come mostro. Come prodotto del ritorno del represso, il mostro all’interno della famiglia o la famiglia di mostri all’interno della società rappresentano l’alternativo no ai modelli omologati. Ma i freak di Rob Zombie hanno abbandonato qualsiasi idea di controcultura per abbracciare i modelli culturali capitalistici e mediatici di cui copiano e imitano i modelli. La loro mostruosità non è opposizione critica, ma adeguamento e conformismo. La controcultura hippy si è stemperata fino a scomparire in seno a un sistema che non è in grado di generare alcuna sottocultura o pensiero difforme. L’originalità è scomparsa a vantaggio della copia, della ripetizione insensata, come gli atti stessi di violenza compiuti dagli amati, celebrati (e imitati) serial killer. A differenza delle due più famose e citate famiglie del cinema horror degli anni Settanta, i Firefly non mettono in discussione il sistema sociale in cui hanno contemporaneamente il ruolo di carnefici e vittime. Essi, inoltre, non sono sfuggenti e nascosti come i loro predecessori ma, anzi, sono alla disperata ricerca di una ribalta, garantita da un mondo che ha fatto della spettacolarizzazione della mostruosità e del dolore l’esibizione per eccellenza. Oggi il freak show può essere identificato con il mondo dei media, dello spettacolo e della politica in cui si esagera la realtà rendendola ipervisibile e distorcendola allo stesso tempo, in cui l’uguale è venduto come diverso e viceversa. I freak-serial killer di Rob Zombie incarnano perfettamente le derive della cultura dei media. La loro deformazione non è fisica, ma culturale. Nel finale di La casa del diavolo gli oscuri protagonisti, attori di uno spettacolo disimpegnato, escono alla luce del sole e, imitando ancora una volta la sequenza di un film (Gangster Story) si dichiarano rejected culturali che vivono alla periferia dell’immaginario. Freak della contemporaneità destinati a vivere di cliché, remake e déjà-vu che, come la cultura cannibale del capitalismo e i suoi mezzi di comunicazione, da una parte assorbono i prodotti culturali per normalizzarli, semplificarli e riproporli all’infinito privandoli del loro senso originario, dall’altra spettacolarizzano la realtà deformandola in modo comico, grottesco e spaventoso, trasformandone gli aspetti drammatici, tragici e folli in un macabro spettacolo pubblico.
Note
1 Carrol Noël, The philosophy of horror. Or paradoxes of the heart, Routledge, Londra-New York 1990.
2 Fiedler Leslie, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 293.
3 Ivi, p. 296.
4 Ibidem.
5 Bourdieu Pierre, Le regole dell’arte. Genesi e struttura nel campo letterario, Il Saggiatore, Milano 2013.
6 Sul rapporto tra horror e capitalismo si veda Lewitz Annalee, Pretend we’re dead. Capitalist monsters in American pop culture, Duke University Press, Durham 2006 (tr. it. Fingiamo di essere morti. Mostri capitalisti della cultura pop americana, Isbn Edizioni, Milano 2008).
7 Wood Robin, An introduction to the American horror film, in Grant Barry Keith, Sharrett Christopher, Planks of reason. Essays on the horror films, Scarecrow Press, Alexandria 1984 (Revised edition, 1994), pp. 107-141.
8 Foss Daniel, Freak culture. Life-style and Politics, E.P. Dutton, New York 1972, citato in Fiedler Leslie, op. cit., p. 316.