«E poi, Bologna, è molto più bella immaginarla o reinventarla,
piuttosto che frequentarla realmente»
Pupi Avati
«Componente centrale della poetica avatiana, il ricordo è l’elemento comune ai racconti bolognesi del cineasta, evocazioni romantiche e malinconiche del tempo che fu, che assumono i connotati a tratti elegiaci o fiabeschi con cui il regista tratteggia le immagini della città natale e della provincia legate alla sua giovinezza o a quella dei parenti prossimi. Avati attinge ai racconti dei genitori e dei nonni, a quelli degli amici e degli amici degli amici […] storie locali ancorate a esperienze veramente vissute e saporosamente tramandate, appena appena trasfigurate dal piacere di abbellire, dalla nebbiolina della lontananza e da quel tocco di “arcano incantatore” che appartiene ai protagonisti delle storie stesse, prima che alle corde del nostro regista»1.
Bologna diventa così un luogo dell’anima, città nascosta – e forse perduta – frutto di un personale modo di viverla e dunque interpretarla, «da lui stesso descritta da angolazioni sempre diverse eppure sempre riconducibili a una sorta di sottile ma acuto disagio, tipico dell’insicurezza di chi avverte di essere fuori posto nel proprio ambiente d’origine (…)»2; «Avati ci propone l’immagine di un’esperienza di esclusione, da parte di un piccolo gruppo: un’esclusione dalla “grande storia” che è, per se stessa, storia da esplorare più attentamente»3.
Le vicende e i personaggi di Jazz Band, Cinema!!!, Aiutami a sognare (1981), Una gita scolastica (1983), Festa di laurea (1985), Storia di ragazzi e ragazze (1989), Dichiarazioni d’amore (1994) o La via degli Angeli (1999) sono esempi del “piccolo mondo antico” a cui Avati ama tornare ciclicamente. Un microcosmo rappresentativo anche di un preciso atteggiamento verso il presente, radicato in un personale rapporto conflittuale tra l’accogliente tradizione contadina – assimilata dal regista negli anni d’infanzia – e l’irrinunciabile modernità urbana che racchiude in sé quella spinta innovatrice che rompe con il passato di conseguenza vivo solo nel ricordo. Un’ineluttabile, amara sconfitta «che non cede mai però al pessimismo, lascia sempre spazi e orizzonti di speranza»4 quale permanenza dei grandi valori morali di cui il cineasta si fa portatore.
Proprio La via degli Angeli rappresenta un significativo cambiamento nella narrazione memoriale della provincia bolognese secondo il regista: è questo, a oggi, il suo ultimo racconto corale. Nei successivi Il cuore altrove (2003), Il papà di Giovanna (2008), Gli amici del bar Margherita (2009) o Un matrimonio i protagonisti mancano infatti di una qualsivoglia complementarità a un gruppo (o comunità) più ampio: non c’è relazione tra loro e l’universo che li circonda, manca l’idea di collettività, di grande famiglia (tipica, nuovamente, della tradizione contadina) alla base delle ideali “foto di gruppo” del filone avatiano. Non a caso il film del 1999 è dedicato alla memoria dell’amatissima madre scomparsa poco tempo prima, e ne rievoca un’estate a Sasso Marconi quando si innamorò del futuro marito. È come se Pupi chiudesse il discorso inerente un contesto culturale e sociale di cui la genitrice era stata testimone diretta: l’inevitabile canto del cigno delle proprie radici. Ecco dunque motivato il tono malinconico che pervade il film, la cui coralità di vicende e personaggi è simbolicamente l’omaggio commosso al mondo della madre, incarnato da lei stessa, dai suoi ricordi e racconti. E come un racconto, il film dimostra un’attenzione particolare alla narrazione, rimarcata – come in tante altre pellicole del regista – dall’uso della voce fuoricampo, qui associata al personaggio della madre Ines, in una forma di intima e ingenua confessione quasi diaristica. Il tormentato sentimento di “Ines di via degli Angeli” (dalla strada bolognese in cui la ragazza abita, ma anche tenero riferimento all’amato Angelo, figlio dell’antiquario presso cui lavora come dattilografa); l’estate sull’Appennino tra l’aristocratica villa della vedova Simony – con la quale Ines instaura un rapporto di intima confidenza e che si adopererà con Angelo perché i due possano incontrarsi – e la casa della nonna, dove assieme alle cugine la fanciulla attende il grande ballo annuale di inizio estate, pretesto per consentire a uomini e donne della valle del Reno di socializzare; infine il viaggio del fratello di Loris, il gestore della balera, incaricato come ogni anno di radunare il maggior numero possibile di scapoli più o meno giovani e condurli in tempo al ballo, ognuno con il proprio bagaglio di esperienze e speranze. Alternando tre storie parallele e convergenti nel finale, Avati ritrae dunque – come in una foto “venuta benissimo” – un’immagine certo idealizzata ma sincera della gente di Sasso, uomini apparentemente «piccoli e insignificanti, qualche volta perfino ridicoli, ma gli unici in grado di salvaguardare, valorizzare e quindi trasmetterci (…) valori e patrimoni (…)»5 altrimenti destinati all’oblio, «angeli testimoni di un mondo e una cultura che, con la morte di nostra madre – per quel che ci riguarda – scompaiono definitivamente. Con la morte di nostra madre, visualizzata nella morte di Cavina [il fratello di Loris, nda], nessuno scenderà più dalla montagna. E nessuno salirà più in montagna a cercare qualcuno che venga a ballare»6.
Sasso Marconi, e in senso più ampio Bologna, diventa allora per il regista una parentesi di mitizzate memorie in cui rifugiarsi ancora una volta, ma che per sua stessa natura è destinata a chiudersi. Il tempo del ricordo cede il passo alla realtà. Non resta che tornare a osservare il quotidiano con una consapevolezza sempre maggiore di quel che è stato e si è stati, in una personale geografia della nostalgia che coglie il presente per guardare al passato in prospettiva futura.
Note
1 Maraldi Antonio, Il cinema di Pupi Avati, Il ponte vecchio, Cesena 2003, p. 168.
2 Comuzio Ermanno, La via degli angeli, in «Cineforum», n. 390, dicembre 1999, p. 41.
3 Sarno Antonello, Pupi Avati, Il Castoro, Milano 1993, p. 18.
4 Renzi Renzo, Perché è vera la Bologna falsa di Pupi Avati, in «Bolognaincontri», n. 1, gennaio 1980, p. 17.
5 Martini G., Il cinema di Pupi Avati, tra antropologia e lirismo, in Il grande incantatore. Il cinema di Pupi Avati, Atti del convegno – Ravenna novembre 2004, Regione Emilia-Romagna 2005, p. 91.
6 Ivi, p. 90.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Antonio Avati, Pupi Avati, Ines Vigetti, Marco Bernardini; sceneggiatura: Antonio Avati, Pupi Avati; fotografia: Cesare Bastelli; scenografia: Carlo Simi; costumi: Katia Dottori; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Gianni Cavina (fratello di Loris), Valentina Cervi (Ines), Libero De Rienzo (Angelo), Carlo Delle Piane (Nello Apicella), Mario Maranzana (padre di Angelo), Eliana Miglio (Enrichetta Simony), Chiara Muti (Gabriella Simony); produzione: DueA Film, Medusa Film; origine: Italia, 1999; durata: 121’; home video: Blu-ray inedito, dvd Medusa; colonna sonora: inedita.