Occhi bistrati e veletta nera, Claudia Caselli è l’aristocratica Clara Vestri Musy di Il signor Diavolo (2019). Un esordio molto scuro per l’attrice con Pupi Avati, che l’ha diretta per la prima volta.
Com’è nata la vostra collaborazione?
È stato tutto molto bello e curioso. L’avevo incontrato molti anni fa ma non era successo nulla, né da parte sua, né da parte mia. Era la notte dei tempi del mio inizio carriera: lui bolognese, io bolognese, ci siamo stretti la mano dal di qua e dal di là di una scrivania e basta. Dopodiché l’ho reincontrato per caso. Ero in giuria al Festival di Bari, lui era lì per una serata in suo onore: abbiamo chiacchierato, ci siamo stati reciprocamente simpatici. C’è stata poi l’occasione di cercare di fare un lavoro assieme, che non andò a buon fine. Fu il primo sassolino. Pensai: «Ma che persona, che regista interessante, duro e accogliente nello stesso tempo, mi piacerebbe lavorarci».
E a Il signor Diavolo com’è arrivata?
Dopo qualche mese mi ha chiamata: «Sto preparando un film, sarei felice che tu ne facessi parte. Ti mando la sceneggiatura». L’ho letta d’un fiato: strepitosa, forse la più straordinaria sceneggiatura che abbia letto nella mia vita. Architettata nei dialoghi, nei tempi, nella costruzione. Perfetta. Ma rispetto al mio personaggio, non mi interessava quello che mi stava offrendo. Era la madre della vittima. L’ho chiamato e sono stata sincera: «Mi dispiace, non voglio fare la madre straziata, non lo sono nella vita, non voglio farlo. Però c’è un personaggio che mi piacerebbe molto fare». E parto con un pippone sulla Signora. Perché sto capendo con l’esperienza che, se c’è qualcosa che ti tocca, anche senza capire come, prima di razionalizzare è meglio se segui il tuo istinto. Gli ho detto di come quel personaggio mi entusiasmasse, mi toccasse, avrei potuto mettere lì dentro delle cose che mi premevano. Mi aveva colpito l’ombra, questo grumo nero che si porta dentro. Il buon Pupi mi ha fermata: «Chiara ferma, non c’entri niente. Tu sei solare, carnale, allegra. Non c’entri con quell’ombra, è un personaggio che deve fare paura, tu sei da abbracciare». «Pupi, guarda che ti sbagli, abbi fiducia, io ti posso portare l’ombra più ombra che tu abbia mai visto». Lui di nuovo no, non è possibile. Allora gli dico in bocca al lupo, hai scritto un capolavoro, ci penserò, a naso ti direi di no, e metto giù. La mattina dopo, alle 9, squilla il telefono. È lui: «Caselli, ci ho pensato tutta la notte. Sei sicura? Continuo a non vedertici nella parte. Ma se tu mi garantisci che quella cosa ce l’hai, e che puoi fare l’accento veneto…».
È un regista molto presente, noto per la sua capacità di dirigere gli attori. Com’è andata sul set?
Il giorno prima delle riprese mi richiamò dicendo poche parole: «Caselli, non mi rovinare il film». Lì l’ho amato alla follia. Ha questo modo ruvido di esprimere i sentimenti, i suoi noir sono fortissimi perché è una persona profondamente buona, a modo suo. Ha un modo non buonista di essere buono, e questa sua ruvidezza l’ho sempre amata. Sul set mi ha detto poche cose, ma quelle che servivano: «Caselli non ti posso aiutare, non so come portarti su quella strada (il che non era vero per niente), ti dico solo tre cose: deve parlare veneto, è nutrita da un dolore immenso, e soprattutto deve fare paura». E mi ha raccomandato di tenere la voce bassa, che anche la voce venisse da una zona d’ombra. Queste tre cose sono state la guida nella costruzione del personaggio. Arrivata sul set, la prima volta era per un monologo di sei minuti. E lui: «Caselli, come sei messa con la memoria?». «Bene». «Allora giriamo». «Come giriamo?». Bramm: buona la prima, arrivederci e grazie. Con me è andata così tutte le volte. Quando sono sul set, mi piace sentire il regista fisicamente vicino. Il più delle volte però deve stare al monitor, lontano dal tuo raggio visivo. Spesso con Pupi lo sentivo lì. Non vuol dire che ti dicesse delle cose, ma sentivi di avere il suo sguardo presente, molto attento. È una sfida reciproca, lui mette l’asticella molto alta per poi lanciarsi in questi ciak spesso di lunga durata. In una scena dove ero alla vista del figlio morto, squartato sul tavolo di cucina, dovevo avere una reazione che non si sapeva cosa sarebbe potuta essere, solo accennata nella sceneggiatura. Ce l’avevo accanto, mi faceva dei gesti come per dire «Vai, vai», come un direttore d’orchestra, e anche lì buona la prima. È stata in qualche modo una collaborazione. Mentre giravo sentivo che quello che iniziavo a fare era esattamente quello che lui voleva nel suo film. Certo, dipende da chi ha davanti. L’ho visto lavorare con il bambino e lì entrava nel merito della singola battuta, la diceva con la cadenza e il ritmo giusti, di modo che lui potesse ripeterla.
Entriamo nel merito del suo personaggio, una donna molto diversa da lei. Anche fisicamente: com’è andata con il trucco e con il dialetto veneto?
«La Signora è uno di quei personaggi di cui si parla e si parla, e poi all’improvviso arrivano, un po’ come il Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now (1979). E quando se ne parla è sempre presentata come una presenza inquietante, misteriosa. A noi donne è difficile facciano fare la parte del cattivo, che è una cosa meravigliosa. Dai forma a quello che tutti abbiamo, la parte oscura. Quanto all’aspetto, la costumista Mary Fassari e la truccatrice hanno avuto subito l’idea giusta. Sono molto diversa da come sono. Una figura nera, con veletta e cappello, ho solo un costume in tutte le scene e un trucco che richiama gli anni Venti, con questo nero sugli occhi. Quando mi sono vista ho pensato: «È la Signora», con la esse maiuscola. Per la cadenza dialettale non ero preoccupata, fa parte del mestiere. Mi sono ricordata di aver lavorato con Bobo Citran. Era piena estate, Bobo era in tournée, non avevo in mente altri attori a cui chiedere. Era un dialogo molto lungo, lui l’ha registrato e me l’ha mandato con Whatsapp. Meravigliosa tecnologia, a tratti è una dannazione ma qui mi ha sbloccata. Ho passato dieci giorni a sentire la cadenza, poi ho registrato e gli ho chiesto un feedback anche per le diverse opzioni – tra la semplice cadenza e il profondo accento veneziano c’è un abisso, in una prova ero incomprensibile. Ma avere obblighi tecnici è sempre molto divertente per un attore. E il divertimento è nell’appropriarti di qualcosa che non ti appartiene. Basta che non prenda il sopravvento sulla verità del personaggio.
Nel cast ci sono alcuni attori feticcio di Avati. Come ci si è trovata?
Con Cavina e Haber non ho avuto nessuna scena. Ho lavorato con il giovane, Gabriele Lo Giudice, che non conoscevo e non avevo mai incontrato: una faccia perfetta, lunga, emaciata, sul set ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte il personaggio, più che l’attore. Ma la cosa che mi ha colpita di più è lo strano, originalissimo sodalizio tra Pupi e il fratello. Anche se sul set il regista è Pupi, con la sua sicurezza e il suo piglio la presenza di Antonio è forte. È un ottimo osservatore, fa commenti molto pertinenti.
Ha visto il film? Che impressioni ha avuto?
Non amo mai quando mi rivedo, non lo sopporto. Ma il film è un gioiello, e c’è un finale in cui Pupi ha cambiato una cosa molto importante rispetto alla sceneggiatura: quando l’ho vista mi è rimasto dentro per settimane quel misto di angoscia e paura. E di ammirazione: ma porca miseria, mi sono detta, guarda cos’ha tirato fuori il grande Pupi proprio nell’ultima inquadratura.
Lavorerebbe ancora con lui?
Presumo che a tutti e due piacerebbe lavorare di nuovo insieme. Io mi sono profondamente divertita, forse grazie a un personaggio così ho capito che mi piace ancora fare l’attrice per altri, l’ultima cosa che avevo fatto, eccetto alcune cose alimentari, era Molly Bloom in un mio corto che ho portato a Venezia nel 2016. Era da un po’ che non lavoravo per un regista. Bello: intuisci un quadro di cui tu sei una macchia di colore. Fantastico. E poi Pupi sul set, se me lo immagino in una metafora che lo racconti, è una grande roccia scura, ruvida, forse ha a che vedere anche con la sua mole fisica. Una presenza granitica. Non è una persona che fa complimenti. È affettuoso in maniera molto sua, se fossi la ragazzina che per fortuna non sono più la sua ruvidezza potrebbe ferirmi. E invece no, sono una donna, e capisco che dietro le sue parole ci sono stima e affetto profondo. Il nostro rapporto si è basato su una stima reciproca fatta di poche parole. Né lui né io siamo persone che fanno moine. Niente ipocrisie. Abbiamo una certa età, suvvia.