Il Natale del tempo presente. "Regalo di Natale" e "La rivincita di Natale"
Fabrizio FogliatoRegalo di Natale (1986) è l’inizio di una storia al tempo presente, La rivincita di Natale (2004) è la riproposizione di un tempo cristallizzato in cui società, persone e ambienti sono riproduzione meccanica – incattivita, incartapecorita e inferocita – delle conseguenze di quella storia. Il primo film inizia con un fugace amplesso coniugale prima della partenza di Franco (Diego Abatantuono). Marito e moglie sono vestiti e si comunicano a vicenda che da troppo tempo non fanno l’amore: qualcosa che ha a che fare con una routine lavorativa in cui non c’è più spazio per sentimenti e corpi. Diciotto anni dopo, quella dimensione frettolosa e candida nella sua immediatezza ha lasciato il posto a un soggiorno borghese. Accanto a Franco c’è una nuova moglie – più soprammobile o biglietto da visita per l’ingresso nella società bene, che reale compagna – e la polenta con il tartufo è servita a tavola da uno chef fatto giungere apposta da Alba. Lo scarto tra i due film è già tutto qui. Quella cena borghese in un salotto di Milano all’inizio del nuovo millennio è il frutto di una società cinica, avida di paccottiglia che ha annegato sentimenti ed emozioni (anche quelle più malvage ma, comunque, sincere) nel calice dell’apparenza, del successo a tutti i costi e del denaro come unico strumento di autoaffermazione. Pecunia ergo sum. Le due pellicole sono dunque legate da un eterno presente che genera e acuisce la pietrificazione dei sentimenti, inaridisce i rapporti personali e definisce, nell’arco dei diciotto anni (gli stessi che intercorrono tra nascita e maggiore età), la fine del sistema di una generazione perdente, capace di generare epigoni che sono solo peggiori. Una storia in cui l’amicizia è finzione necessaria per mascherare un rancore sordo, represso e, continuamente, alimentato dall’invidia per il successo. Franco, quello che ha fatto i soldi, è il giocatore attorno a cui Ugo (Giannni Cavina), Lele (Alessandro Haber) e Stefano (Luigi Montefiori) costruiscono una messa in scena (la villa, il professionista, il poker) per (ri)prendersi, da perdenti, quanto ritengono gli sia stato tolto dalla vita. In questi tre lustri il fallimento è la costante, l’incomunicabilità la cifra del cinismo e l’avidità il cancro che divora. Uomini soli, stretti attorno a un tavolo verde che parlano volgarmente di donne – sogno, rimpianto, desiderio nel 1986; prezzolate escort di lusso nel 2004 – mangiano piatti freddi e preconfezionati, parlano senza gioia né tristezza, maneggiano cifre iperboliche senza averne la possibilità in un gioco al massacro marcio e malato in cui non c’è differenza tra l’ingannare sé o gli altri. La posta si è alzata notevolmente: non c’è più solo il rancore della provincia – che non ha nulla di godereccio, né di passionale – nei confronti della città, ma c’è solo un potenziale guadagno, una ludica transazione finanziaria coperta da assegni circolari provenienti dal racket del gioco clandestino che succhia l’anima, il sangue e la dignità dei disperati Ugo e Lele – al punto che quest’ultimo non esita a mettere in scena un tumore (diagnosticato da un oncologo fittizio), pur di riuscire a rimanere a galla.
Pupi Avati, con questo dittico, costruisce un’architettura cinematografico-metaforica incardinata sulla permanenza del possibile (desiderio destinato a rimanere tale e a lacerare, definitivamente, vite distrutte – o, forse, mai costruite) e sulla riproducibilità di un presente che è quello dell’istante della puntata al tavolo da gioco; poi i tempi si dilatano, nell’attesa, nella frustrazione del pensiero della vincita o della sconfitta, nel constatare amaramente l’ennesimo fallimento. Il professionista, l’avvocato Santelia (Carlo Delle Piane), il giocatore che lavora con le carte ma soprattutto con i cervelli degli altri, in Regalo di Natale è l’elemento perturbante necessario a scompaginare – con lucida razionalità illuminista e cinico dovere della convenienza – la sicumera di Franco e la sua anima imprenditoriale. L’ultima puntata, quella del “tutto o niente”, rappresenta il culmine di una strategia della tensione esistenziale animata da una finta amicizia, fa emergere destini già scritti, rimpianti per la lunga serie di meschinità commesse in passato e restituisce il sapore amaro della sconfitta: quella di avere gettato alle ortiche la vita. All’alba, mentre le luci dell’albero di Natale perdono intensità, i perdenti hanno vinto e i vincenti hanno perso (con l’inganno, ovviamente).
In realtà, come detto, quella storia è un inizio, perché il vero epilogo – quello di La rivincita di Natale – è ancora tutto da scrivere: sono i ricchi a uscire vincitori e i poveri a venire umiliati e offesi. L’atmosfera da lieto fine in cui si consuma il dramma restituisce al film del 2004 l’immagine imperante e trionfante della videocrazia che muoveva i primi passi sui piccoli schermi a tubo catodico, perennemente accesi nel primo film, e che, diciotto anni dopo, non ha più bisogno di schermi ma si rappresenta nella società italiana di tutti i giorni senza bontà, né passato. Tutto è peggiore, al punto che la presenza di Santelia risulta persino pleonastica e ininfluente così come la partita a poker è relegata all’ultima mezz’ora d’opera, come elemento residuale e marginale di una finzione che è, ormai, connaturata alla routine quotidiana. Il fallimento ha prodotto solo frutti irranciditi e velenosi. Franco si è rialzato dalla sconfitta – grazie all’intervento del suocero – e dalla monosala del 1986 è passato alle multisale del nuovo millennio, perché chi sa fare i soldi non perde mai il vizio. Stefano si fa mantenere dal suo compagno, un ricco antiquario che lui sfrutta sia economicamente che moralmente; Ugo, dalle televendite notturne su scalcinate emittenti locali, è sprofondato ulteriormente e si ritrova a fare il cameriere in un ristorante africano alle dipendenze di titolari extracomunitari; Lele, licenziato dal giornale in cui firmava le recensioni come “vice”, ha trovato lavoro presso un ufficio del comune in cui visiona vecchie videocassette. Sempre uomini soli, più vecchi, disillusi e rancorosi, che cercano di affogare amarezze e livori nella ricerca disperata di felicità materiale. La provincia soccombe di fronte alla città, il ricordo è mortificato dalla finzione, la sete di denaro è il termometro che misura il grado di meretricio della società.
E allora Martina, che nel primo film rispondeva a Santelia che gli chiedeva se era una prostituta («No, mi dispiace»), era già il segno tangibile e incontrovertibile che qualcosa stava avvenendo e che Avati lo aveva colto benissimo. L’albero di Natale nel 1986 è un vero albero, addobbato nel giardino della villa; nel 2001 c’è posto solo per una finta installazione domestica e per una capanna del presepe da autogrill: il nostro Natale.
CAST & CREDITS
REGALO DI NATALE
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, Alessandro Haber, George Eastman; produzione: DueA Film, DMV Distribuzione; origine: Italia, 1986; durata: 101’; home video: dvd Sony Home Entertainment; colonna sonora: Triple Time Music (compilation Le colonne sonore originali di Riz Ortolani per Pupi Avati).
LA RIVINCITA DI NATALE
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, Alessandro Haber, George Eastman; produzione: DueA Film, Medusa Film; origine: Italia, 2004; durata: 99’; home video: dvd Warner Bros.; colonna sonora: ConcertOne (compilation Riz Ortolani. La rivincita di Natale/Il cuore altrove).