Il Medioevo raccontato da Pupi Avati. "Magnificat" e "I cavalieri che fecero l’impresa"
Rocco Moccagatta
Subito un’ipotesi da dare in pasto agli avatiani di comprovata fede e di stretta osservanza (e sono tanti, come quest’occasione dimostra): e se il dittico medievale (Magnificat e I cavalieri che fecero l’impresa), più che un tertium datur (uno dei tertium datur possibili) della filmografia avatiana – com’è noto molto compatta e coerente, anche nei suoi sconfinamenti apparentemente più fragranti, tutta abbarbicata intorno al principio carissimo dell’autobiografia menzognera (come ebbe a dire il regista stesso in un’intervista d’oltralpe anni fa) – fosse, invece, un luogo d’incontro e di ricomposizione dei due Pupi Avati che di solito si contrappongono (anche con relative tifoserie), quello del ripiegamento nostalgico sul passato (privato e non) e quello gotico-orrorifico delle favole macabre? D’altronde, con il senno di poi, i ricordi (spesso crudeli e sadici) del primo filone germogliano da quella medesima cultura contadina, intrisa di morte e di superstizione, che alimenta le case dalle finestre che ridono e i terreni K.
Ora, i due film di ambientazione medievale, in momenti molto diversi della carriera avatiana, condividono questa naturale inclinazione a un quotidiano intriso di fantastico; e proprio in ragione di un periodo storico che – nell’essere sinolo indissolubile di sacro e violenza, quindi insieme di apertura sul divino e sull’oltremondano e d’impantanamento nella carnalità terrena – naturalmente attrae Avati, al punto da costituire una sorta di matrice della sua poetica cinematografica.
Anzi, pur nella loro siderale differenza, i due film in parola ricoprono, nella percezione del regista ma anche di tanta critica, il ruolo di titoli spartiacque, che segnano altrettanti punti fermi nella sua filmografia.
Magnificat, innanzitutto, l’unico film di Avati sotto gli scudi della Penta Film (l’improbabile joint venture Berlusconi-Cecchi Gori che dal 1989 al 1994 fece sognare una major internazionale battente bandiera italiana), in concorso a Cannes 1993, arriva dopo un decennio abbondante di amarcord emiliani, culminati in una parentesi oltreoceano (Fratelli e sorelle [1991] e Bix-Un’ipotesi leggendaria [1991]). È, quindi, una storia di ragazzi e di ragazze (e non solo) nella Settimana Santa dell’anno del Signore 926, organizzata lungo alcune storie sincroniche, con qualche incrocio saltuario attraverso un’Abbazia Regia, in un’epoca dove le pratiche religiose sconfinano con naturalezza nella più truce efferatezza: gli ultimi giorni di un signore libertino con una schiera di figli illegittimi, una concubina del re che deve sgravarne l’erede, una giovinetta ceduta a un convento dalla famiglia in cambio di una macina, un frate che visita conventi e abbazie per fare la conta dei morti, un matrimonio tra figli di contadini, l’apprendistato di un giovane al mestiere del boia. Dunque, nei temi (padri e figli, di sangue o metaforici, la famiglia e i suoi riti) e nei personaggi (in particolare i giovani contadini che si sposano, con le rispettive famiglie strette attorno a loro), una vera e propria quintessenza ante litteram del racconto avatiano classico, ideale scaturigine primaria degli epicedi amarognoli che il regista ha cantato e canterà ancora nei suoi film autobiografici lungo il Novecento, non a caso ambientati nei medesimi luoghi. Il boia che constata come di tanti morti fatti nella sua professione nessuno sia mai tornato indietro a chiedergliene ragione riemerge, secoli dopo, nelle anziane di casa della cultura contadina (in primis la nonna del regista) che spaventano i bambini con le fole dei morti che ritornano se si comportano male. Costruito per sottrazione, con i singoli episodi concepiti come abbozzi e canovacci senza colpi di scena, naturalmente portati alle loro prevedibili conclusioni, Magnificat vive coerentemente di un cast senza nomi di spicco, tutti piccoli, efficaci caratteri(sti) che ripetono il quieto e passivo anonimato di un’epoca, dove si è parti di un mondo che prosegue comunque, dalla nascita alla morte, senza che si possa pretendere alcunché, con rassegnazione appresa fin da piccoli. Tutt’al più si può sperare in un segno che rompa il silenzio di Dio – magari nella forma di frasche mosse da un soffio di vento oppure di un piccolo turbine nella brace – come fa l’erede del signore libertino, al quale il padre ha promesso un segno dal Paradiso per rassicurarlo sulla vita dopo la morte secondo la fede cristiana.
Questo approccio al Medioevo quasi documentario, nei termini di una micro-storia quotidiana alla Braudel, come qualche critico di buone letture ha notato, non è contraddetto nel successivo I cavalieri che fecero l’impresa, ambientato un paio di secoli dopo Magnificat, anche se lì resta più interstiziale e di sfondo, giusto il tempo di fornire qualche annotazione di contesto (garantisce lo storico Franco Cardini come consulente). Molto più in risalto sono qui fatti e vicende della Storia (con la “s” maiuscola): la morte di re Luigi IX, il fallimento della Settima Crociata, i Cavalieri Templari e, soprattutto, la vicenda oscura della Sacra Sindone, prima della sua riapparizione in Francia nel 1356.
Vero è che qui i fratelli Avati devono confrontarsi con una dimensione produttiva insolita per il cinema italiano (co-produce Rai Cinema con un intervento francese, tramite il mitico Tarak Ben Ammar, ex socio di Berlusconi), che è quella del kolossal, oltretutto distribuito in Italia dalla 20th Century Fox; e lo dimostra il cast principale, pensato per andare oltre il mercato italiano, dove Raoul Bova e Marco Leonardi convivono con l’americano Edward Furlong (che arriva da Terminator 2. Il giorno del giudizio [1991]), il tedesco Thomas Kretschmann (poi Dracula argentiano, anche se già c’era in La sindrome di Stendhal [1996]) e il francese Stanislas Merhar (prima attore per de Oliveira e Akerman).
Certo, Avati guarda qui (anche) al film d’avventura, Blasetti e Cottafavi più che Hollywood (e ad altri ricordi d’infanzia, come i libri della Scala d’Oro e i poemi cavallereschi della tradizione italiana) e vuole fare della Sacra Sindone l’equivalente nostrano del Sacro Graal del ciclo bretone. Però, oltre la struttura spesso farraginosa del racconto epico, resta più preziosa l’intuizione di fare di questi cinque crociati per caso e fuori tempo massimo, decisi a recuperare la più sacra delle reliquie cristiane, altrettanti classici outsider avatiani, una compagnia di amici intimamente legati l’uno all’altro anche nell’incoscienza e nel desiderio di evasione dalle regole rigide di un mondo al quale non si rassegnano. Anzi, proprio nel loro finire, pur vittoriosi, massacrati senza pietà ed estromessi dalla storia ufficiale in nome di una ragione di stato che non comprendono neppure bene, ritornano al medesimo anonimato della piccola umanità brulicante di Magnificat, con il suo Dio che guarda altrove e lascia fare.
CAST & CREDITS
MAGNIFICAT
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Cesare Bastelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Luigi Diberti, Arnaldo Ninchi, Massimo Bellinzoni, Massimo Sarchielli, Lorella Morlotti; produzione: DueA Film; origine: Italia, 1993; durata: 110’; home video: vhs San Paolo; colonna sonora: Gdm Music.
I CAVALIERI CHE FECERO L’IMPRESA
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Edward Furlong, Thomas Kretschmann, Marco Leonardi, Raoul Bova, Stanislas Merhar, Carlo Delle Piane, F. Murray Abraham; produzione: DueA Film, Quinta Comunications, Rai; origine: Italia, Francia 2001; durata: 147’; home video: dvd 20th Fox; colonna sonora: Image Music.