"Gli amici del bar Margherita". Lì, dove nascono tutte le storie
Giona A. Nazzaro
Se c’è un regista di cui i cinefili amano dire tutto il male del mondo, questi è Pupi Avati. Per cui un ottimo film come Gli amici del bar Margherita viene bollato come uno sterile esercizio senile mentre, per altri film di ben più blasonati autori, i medesimi si producono in torsioni dialettiche tese a salvare il salvabile.
Eppure, non è lontanissimo il tempo in cui anche riviste militanti come «Cineforum» dedicavano ampie riflessioni a film come Le strelle nel fosso (1979), Una gita scolastica (1983), Impiegati (1984), Noi tre (1984) e Festa di laurea (1985). Probabilmente, dopo Ultimo minuto (1987) il rapporto fra regista e critica si è incrinato. Forse questo distacco si è prodotto a causa di quella che superficialmente poteva sembrare una specie di eccessiva familiarità, oppure perché Avati era/è riuscito nell’impresa – più unica che rara in Italia – di lavorare a ciclo continuo, provocando una sorta di saturazione. Eppure è proprio questa continuità a essere un segno forte delle stagioni più intense e interessanti del nostro cinema, quando era possibile intavolare con un autore un dialogo costante.
Inevitabile, quindi, che la qualità abbia potuto risentire di un fisiologico calo di tensione, ma è altrettanto vero che lavori come Magnificat (1993), Dichiarazioni d’amore (1994), L’arcano incantatore (1996), Il cuore altrove (2003) e La seconda notte di nozze (2005) sono il segno di una vitalità artistica indomita, in grado di rischiare e mettersi in gioco. In questa prospettiva pellicole meno riuscite come Festival (1996) o La cena per farli conoscere (2006) possono essere considerate, se non altro, come l’espressione di una volontà, una poetica e una pratica del cinema generosa, che aspira a una dimensione autoriale e popolare al tempo stesso. Una poetica che prevede anche incidenti di percorso. A questo proposito, è interessante notare come anche all’interno di un percorso consolidato ci siano fughe in avanti di matrice quasi sperimentale, testimoniate da film amari e incompresi come Il figlio più piccolo (2010) o Una sconfinata giovinezza (2010), le cui angosce reinventano in maniera inedita la propensione gotica dell’autore. Ed è in questa dimensione crepuscolare che va cercato il nocciolo irriducibile di una poetica sì provinciale e malinconica, ma anche profondamente consapevole del proprio raggio d’azione.
Avati, in un momento in cui la nostra cinematografia è costantemente riletta alla luce dei nomi dimenticati dalle storie ufficiali, rappresenta alla perfezione una certa idea di cinema italiano. Un’idea dove le storie degli individui e delle classi cui appartengono sono collocate sullo sfondo di una società che nei film del regista emerge in forme complesse e contraddittorie. Il tratto che unisce queste anime della poetica avatiana si può individuare in una capacità affabulatoria generosa e rara, in grado di spaziare dall’aneddotica alla riflessione con sconcertante naturalezza senza, per questo, dimenticare la fulminante battuta al vetriolo.
Da grande appassionato di jazz, dal quale si accetta eccezionalmente pure la distruzione critica del John Coltrane e Miles Davis elettrico, Avati racconta sempre con un gusto swingante. L’errore di un certo approccio critico sta nel considerare questa felicità espressiva come una cosa “facile”, scontata, laddove è proprio all’interno di questa pratica che il regista riesce a ricavarsi degli angoli nei quali dolori e inquietudini sono affrontati con grande lucidità.
Oggi Avati riesce a passare dalla scrittura al set alla moviola come se lavorasse alla catena di montaggio del proprio immaginario. In questa iperattività c’è il segno di una felicità che considera il lavoro come la ricompensa del proprio lavoro.
In questo senso, Avati fa cinema che viene da un altro mondo. Un mondo del cinema italiano che non esiste più. Dunque proprio per questo è un regista sul quale bisogna ricominciare a ragionare criticamente.
C’è infatti un’evidente differenza fra nostalgia e inerte culto del passato. Una differenza tanto sottile quanto essenziale. La poetica di Avati, che nel corso degli anni è diventata sempre più crepuscolare, ha progressivamente favorito il dialogo con un mondo di provincia, ancorato in una rete di valori tradizionali non immobile, in grado però – differenza poco e mal còlta – di confrontarsi con il presente in forme critiche e ironiche.
Se l’Italia di provincia è riconoscibile nei riti del quotidiano, negli accenti e persino nell’involuzione dei valori, dall’altro lato è proprio sulla dimensione mitologica di questi elementi che il regista costruisce un mondo alternativo e autonomo. Se dunque il dato di partenza è di matrice strettamente realistico, il risultato, sovente, attinge a una dimensione poetica nella quale il lamento di Guido Gozzano pare intrecciarsi con il canto bambino di Giovanni Pascoli, senza mai dimenticare una nota di garibaldina sfrontatezza che attinge sempre all’amore avatiano per il cinema italiano delle origini, della canzone popolare e della rivista.
Un equilibrio alchemico, dunque, peculiare e raro, il cui rovescio drammatico è possibile osservare in film come Il papà di Giovanna (2008).
Come non notare il pudico dialogare con il mondo delle ombre che Avati ha ormai avviato da qualche anno a questa parte? Nel sottovalutato Gli amici del bar Margherita, ritenuto poco più che un esercizio vitellonesco, l’alito malinconico della morte aleggia sulle immagini. Con Il cuore grande delle ragazze, invece, il regista, pur ponendo ancora una volta sotto il segno della morte il proprio afflato memoriale, riesce a saldare in un solo arco narrativo sia la commedia del bar Margherita, sia la consapevolezza della finitezza umana. Lo stesso atto del ricordare è posto sotto il segno di una mestizia cimiteriale, la quale permette di osservare come il versante gotico della poetica avatiana non sia mai molto lontano.
Il ricordo è una sorta di seduta spiritica: si evoca il mondo che (forse) è stato ma, soprattutto, quello che avrebbe potuto essere. Ed è qui che risiede la quasi impercettibile perversione della nostalgia avatiana: la memoria del regista è (quasi) sempre paramnestica. Non si ricorda ciò che è stato, ma ciò che avremmo voluto potesse essere stato. Il ricordare in Avati è un’attività fantastica, completamente (o quasi) slegata dal dettato della realtà storica.
Ecco, Gli amici del bar Margherita è come se fosse la scena primaria del cinema di Avati, il luogo dove tutte le storie vengono alla luce. Un microcosmo dove si celebra da un lato una sconfinata giovinezza, dall’altro il luogo privilegiato per attendere l’arrivo delle ragazze, prima di partire in gita scolastica. Un’origine, prima ancora di una memoria, che balugina fra ricordi e fantasie dolcemente allucinate. Il segno di un mondo che scompare, nelle cui pieghe più oscure il signor Diavolo non è mai troppo distante.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giuliano Pannuti; costumi: Steno Tonelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Lucio Dalla, Bruno Mariani, Roberto Costa; interpreti: Diego Abatantuono (Al), Laura Chiatti (Marcella), Fabio De Luigi (Manuelo), Neri Marcorè (Bep), Claudio Botosso (Zanchi), Pierpaolo Zizzi (Taddeo), Katia Ricciarelli (madre di Taddeo), Gianni Cavina (Carlo); produzione: Antonio Avati per DueA Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2009; durata: 91’; home video: Blu-ray inedito, dvd 01 Distribution; colonna sonora: inedita.