Dall’altra parte della Luna, nella stessa notte. "L’amico d’infanzia" e "Il nascondiglio"
Raffaele Meale
La trasferta oltreoceano, si sa, è un punto di caduta essenziale per molti cineasti, in particolar modo per chi si diletta con il cinema volgarmente detto “di genere”. Autori che muovendosi in territori prossimi all’orrore, al thriller, al noir o all’action spesso vedono depauperate le proprie possibilità visionarie in un contesto produttivo come quello italiano – ma il discorso potrebbe allargarsi a macchia d’olio anche ad altre realtà confinanti – che poca dimestichezza, e spesso ancora minore attenzione, dimostra nei confronti di tutto ciò che trasuda umori popolari. In molti “rimproverano” per esempio a Mario Bava di non avere mai voluto abbandonare l’Italia per cercare fortuna nei dintorni di Hollywood: «Se solo fosse stato in America…», si legge e si sente sovente, con quei puntini di sospensione che racchiudono al loro interno un universo di potenzialità espressive, economiche, e di supposte libertà creative. Ma questo discorso lungo e complesso porterebbe troppo lontano, anche perché poco si sposa con il cinema di Pupi Avati. Uno che il viaggio transoceanico lo ha compiuto in più di un’occasione, e senza pensarci due volte. Non solo. Avati non ha sfruttato le location statunitensi per approfondire il suo discorso sul “genere”, se non in parte: il suo rapporto con gli States poggia su radici diverse, non strettamente cinematografiche – e nei fatti i suoi film stranieri non vivono di suggestioni cinefile particolarmente forti – ma semmai legate alla musica, a quel jazz così profondamente amato e già vagheggiato tra le altre cose nello sceneggiato Rai Jazz Band. Quando si trova a Chicago, sul set di L’amico d’infanzia, Avati ha già diretto tra l’Iowa e New York Bix. Un’ipotesi leggendaria (1991), sul jazzista Bix Beiderbecke; quando in Iowa tornerà per Il nascondiglio, nel 2007, avrà alle spalle anche la scrittura e la produzione del televisivo Voci notturne, Twin Peaks all’italiana diretto da Fabrizio Laurenti nel 1995.
La domanda che è lecito porsi è: esistono tratti comuni in grado di legare L’amico d’infanzia e Il nascondiglio? C’è un filo rosso che collega non solo le opere di Avati, ma anche il suo sguardo verso l’America, così lontana e così vicina, «dall’altra parte della Luna» come cantava l’altro bolognese doc, Lucio Dalla?
Si può ricostruire il pathos avatiano nei confronti degli Stati Uniti aprendo una dialettica tra alcuni termini utilizzati nei titoli dei suoi film d’Oltreoceano: leggenda, infanzia, voci, nascondiglio. Tra L’amico d’infanzia e Il nascondiglio intercorrono oltre dieci anni, ma non si avverte uno scarto sensibile nell’approccio del regista. Pur muovendosi su territori solo lateralmente simili (il primo è un thriller in piena regola, il secondo strizza l’occhio al sovrannaturale pur senza sconfinare mai fino in fondo nell’horror) le due pellicole mettono in atto una ricostruzione dell’immaginario a stelle e strisce visto da quest’altra parte del mondo. Un immaginario che si fonda sul rimosso, su un passato che non può essere realmente narrato, sul senso di colpa. E sul concetto di casa. Se è vero che “there’s no place like home”, è altrettanto vero che la magione diventa uno spazio intimo prima ancora che reale, il posto in cui nascondersi. Un nascondiglio che è rifugio innanzitutto da se stessi, dalle proprie memorie (la violenza sessuale ai tempi del college per Arnold ed Eddie, il suicidio del marito per l’italiana che è appena uscita da un ospedale psichiatrico), ma diventa inevitabilmente anche ricovero dal mondo esterno. Un mondo giudicante, spesso bigotto, in cui domina un’ipocrisia diffusa. La casa è dunque la tana, perché i personaggi messi in scena da Avati sono poco più che animali, come le mostruose anziane “introvabili” del finale di Il nascondiglio che non possono non ricondurre la mente nella sonnacchiosa e ferale pianura Padana di La casa dalle finestre che ridono (1976).
Avati prende il genere a spunto per poi scontornarlo, scoperchiando il vaso di Pandora delle miserie umane: il suo viaggio nell’America non ha nulla del “sogno” e si aggira, semmai, dalle parti dell’incubo. Un incubo fatto di memorie, delitti avvolti nelle brume del tempo, colpe inemendabili, vite distrutte per cupidigia, voluttà, posizionamento sociale. Uno spaccato che abbandona ogni romanticismo. «In tutte le storie c’è un colpevole e un innocente. Anche in quelle d’amore», sentenzia una frase che anticipa i titoli di testa in L’amico d’infanzia. Ma chi è il colpevole, e chi l’innocente? Per sottolineare la duplicità dell’anima e le oscurità che vi vengono riposte all’interno – il più intimo dei nascondigli – Avati costruisce le sue immagini, in entrambi i film, muovendosi in quella zona liminare che divide il giorno e la notte, la luce (che tutto sovrasta, confondendo le cose alla vista) e l’ombra (che tutto ottenebra, rinchiude, nasconde per l’appunto).
Tra retropensieri à la Lovecraft – la Snakes Hall in cui si svolge il mistero di Il nascondiglio riporta alla mente la sua letteratura, come tutto il gotico statunitense – e suggestioni metropolitane, retaggi di un’altra epoca e “semplici” memorie del college, Avati compone un quadro concreto e surreale al contempo, in cui l’orrore percepito come tale (i rumori, le voci che si rincorrono nella notte, le scale immerse nell’oscurità) non è forse nulla in confronto a quello reale, quotidiano, messo in pratica dall’uomo sull’uomo, dalla donna sulla donna – e anche la specularità di genere dei due film trova una sua logica ferrea, con Arnold Gardner che si trova a fronteggiare il realissimo spettro d’altri tempi Eddie Greenberg, e la donna italiana che ha a che fare con gli spettri forse reali forse no di Liuba ed Egle. L’ipotesi leggendaria è sempre dietro l’angolo, ovviamente, ma il nascondiglio è reale, un modo per sfuggire l’oggi, il materiale, e cercare di perdersi in una memoria di tempi andati che sono probabilmente migliori perché rappresentano l’attimo di stasi prima della caduta, che sia essa nell’abiezione, nella violenza, nel dolore o nella follia. C’è un attimo, una sonata al pianoforte sotto una tempesta di neve o una foto in bianco e nero abbracciato al proprio migliore amico, a cui ci si può abbarbicare rifiutando categoricamente tutto ciò che è poi accaduto. Su quell’attimo Avati ordisce la sua trama, consapevole che non potrà non sfondare il muro che divide la logica dal soprannaturale, il cinema di descrizione da quello di ideazione. Dalla visione. Nel suo percorso nostalgico alla ricerca dolorosa e inevitabilmente luttuosa dell’infanzia ideale l’autore ambienta Il nascondiglio nella città e nella casa che furono di Bix Beiderbecke. Un cerchio, intimo ma al contempo popolare, si chiude. Forse.
CAST & CREDITS
L’AMICO D’INFANZIA
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Cesare Bastelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Stefano Caprioli, Richard Wagner; interpreti: Jason Robards III, Amy Galper, Jim Ortlieb, Jim Mullins, Joe Ryan; produzione: DueA Film, FilmAuro; origine: Italia, Usa, 1994; durata: 100’; home video: dvd FilmAuro; colonna sonora: inedita.
IL NASCONDIGLIO
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini, Cesare Bastelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Laura Morante, Rita Tushingham, Burt Young, Treat Williams, Sydne Rome; produzione: DueA Film, Rai Cinema, Motion Pictures Midwest; origine: Italia, Usa 2007; durata: 98’; home video: dvd 01 Distribution; colonna sonora: inedita.