
Nel cinema di Pupi Avati la morte è un fatto serio: aldilà della sua entrata in scena attraverso un corpo spento, tumefatto, sepolto, un’atmosfera arcana e macabra, un ricordo svanito, un sogno infranto, il tramonto di un’idea o la fine di un amore, anzitutto si configura come la presenza di un’assenza.
In grado di avvertire il senso della fugacità della vita, dell’inesorabile corsa del tempo, fin dalle prime opere connotate dal fantastico e dall’orrorifico – poi anche nei film più legati alla memoria individuale e collettiva – il regista bolognese non smarrisce mai il senso di fascinazione per quelle atmosfere rarefatte, fortemente evocative e intrise della grande tradizione pittorica e letteraria della Padania riconosciute ideali per cogliere l’essenza del morire. Ma se da una parte la morte risulta essere oggetto del discorso, come emerge chiaramente all’interno dell’orgogliosa rivendicazione di appartenenza socio-antropologica alla fertile mentalità dei contadi emiliani e romagnoli, inesauribile pozzo di ispirazione per rielaborare ancestrali credenze e superstizioni, dall’altra la morte si rivela soggetto in quanto interprete di una condizione umana che rivela la sempre più netta separazione tra l’uomo e la coscienza della morte. Tramite la sua rappresentazione il cinema di Avati apre lo sguardo sulla dimensione religiosa, focalizzando l’attenzione su due elementi contraddittori ma inscindibili che, da sempre, sintetizzano il pensiero umano di fronte all’elaborazione dell’evento traumatico, come reazione nei confronti della morte.
Nel cinema avatiano affiora l’orrore per la decomposizione del corpo, tratto che qualifica il senso devastante della fine della propria individualità e conduce l’uomo a nasconderla con l’inumazione, a impedirla con l’imbalsamazione, a evitarla o accelerarla con la cremazione, a sottrarla alla vista trasportando lontano il cadavere, ad affrontarla con la riesumazione. In questo senso andrebbero rilette opere esplicite, rivolte alla rappresentazione di mondi lontani, di credenze ataviche, di testimonianze di fede incrollabile e di paura invalicabile come La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975), Tutti defunti… tranne i morti (1977), Le strelle nel fosso (1978), Zeder (1983), Magnificat (1993), L’arcano incantatore (1996), I cavalieri che fecero l’impresa (2001).
Inoltre, appare evidente come il superamento della morte nella forma di miti di sopravvivenza, di rinascita, di nuova vita sia inquadrato, seppure in modo non convenzionale, da film come Fratelli e sorelle (1992), La cena per farli conoscere (2006) e Una sconfinata giovinezza (2010), per certi versi più complessi nell’articolazione delle forme mortuarie.
Da quando l’uomo ha mostrato coscienza della morte, sviluppare la cura del defunto significa l’abbozzarsi dell’elaborazione di credenze di sopravvivenza o rinascita o, comunque, dell’idea che il decesso introduca in un’altra forma di vita. Non solo. Trattata come un cambiamento di stato, l’ingresso in un mondo diverso da quello dei viventi, «l’accesso in un altrove»1, per mezzo del processo funerario la morte diventa un modo che si comporta come ritratto della società e di ciò di cui essa vive: i morti si pongono in rapporto vitale con i vivi.
Con il suo sviluppo paradossale ma coerente, il cinema di Avati non tende forse verso una simbologia del morire per mezzo di metafore vitali? I suoi film non immergono lo spettatore nelle passioni, negli amori, nelle speranze facendogli percepire anche il senso della precarietà del vivere che è sonno o viaggio, sortilegio o malattia? Quello di Avati si configura come universo cinematografico intenzionato a catturare la profonda contraddittorietà umana che riconosce e nega la morte: consapevolezza del limite ma pure desiderio di immortalità, espressione di un limite inammissibile. Scrive Edgar Morin in un suo saggio: «Il lavoro della morte sulla mente umana la spinge a interrogarsi sui misteri della sua esistenza, del suo destino, della vita, del mondo. E, mentre di fronte alla morte si apre all’infinito e al mistero, la mente, di fronte alla Natura, si apre al mondo»2. È questo duplice e simultaneo lavoro che accompagna i personaggi del cinema avatiano, sempre in bilico nel cogliersi e definirsi come mortali ma consci che tale sguardo sulla vita sia essenziale per progettare e costruire una strategia di immortalità. Più di ogni altra cosa, a essere religioso è un linguaggio capace di comunicare una relazione misterica o divinatoria, fantasmatica o rituale, sempre comunque corrosiva ed emotiva, forma sintetica di un’impotenza di fronte all’ineluttabile, e luogo di ricerca di un’onnipotenza connessa al superamento del limite, come drammaticamente avviene in Regalo di Natale (1986). Non casualmente, come più volte da lui stesso fatto notare, i personaggi di Avati sono eroi atipici, poveri in spirito, gli ‘anawim, i “curvati”, umili, perdenti, accecati dalla fede o dalla miseria, esseri umani che vorrebbero essere felici senza riuscirvi.
La lezione che Avati mette in scena con maggiore consapevolezza è quella imparata da Rossellini, Pasolini ma soprattutto Scola – più che da Fellini o da Olmi – e si potrebbe tradurre con un semplice postulato di agostiniana memoria: tutte le cose sono incerte, solo la morte è certa, ergo tutti gli uomini sono mortali e vivono nell’incertezza. Questo universalismo è «alla base di un’etica del riconoscimento, di empatia, di compassione nel senso di sentire l’altro nella sua unicità preziosa, irripetibile e fragile»3, s’innerva a principio che regola un’idea di cinema un po’ demodé nel contesto di una società post-mortale4, dove la morte è diventata un’intrusa, un’assurda presenza, ma trasferisce efficacemente il pensiero avatiano sull’uomo e sulla finitezza. D’altra parte, oggi, nella società desacralizzata e secolarizzata in cui siamo immersi, è la scienza a prendere il posto della religione: cambiano le risposte, non le domande. Oggi, «alla credenza nell’immortalità dell’anima si va sostituendo quella della amortalità del corpo»5.
Magnificat e Zeder inquadrano al meglio questo discorso poiché ruotano attorno a un continuo scambio comunicativo tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nel primo caso, durante l’episodio del Signore di Malfole, il narratore ne annuncia il trapasso riferendosi alla morte «accolta come un’amica attesa da tempo» e ne fa comprendere sentimenti e aspettative lasciando intendere la possibilità di contatto tra i due mondi; il film mette in scena «un ritorno dalla morte dovuto alla difficoltà dell’anima del defunto a staccarsi dalle cose terrene, non contemplato dalla religione ufficiale, ma proprio di quella mentalità rurale che mescola alle suggestioni dei terrificanti sermoni medioevali e dei parroci di campagna, alcuni elementi del cristianesimo dotto e altri reinterpretati in chiave pagana e popolare»6. Benché Avati sia interessato a rievocare una cultura mista di religiosità e superstizione, di crudeltà e di sogni, di determinazione e contraddizione tipiche di un Medioevo in cui la morte appare parte integrante e riconosciuta della vita collettiva quasi fosse “addomesticata”, singolarmente emerge il profilo di un’umanità disorientata perché priva di riferimenti, disperata da un nullo e vuoto vivere. Magnificat (in Lc 1,48, Maria scioglie il canto del Magnificat e si rivolge a Dio che «ha rivolto lo sguardo alla bassezza e all’umiliazione della sua serva») è un film in cui la salvezza è assente, ma grazie alla presenza di simboli e rituali evidenzia la precarietà e la vena violenta di un mondo buio, in cui aleggia in modo angosciante il silenzio di Dio.
In Zeder, l’ossessione del protagonista Stefano è la cifra recursiva di un’inquietudine autoriale, rappresentata insistentemente per sottrazione, attraverso il vuoto di spazi solitari, abbandonati, orrendi come la piscina chiusa e misteriosa, le carrozze del treno su cui sale Alessandra, l’indimenticabile e terribile Colonia Varese di Milano Marittima.
È la presenza di un’assenza ciò che sta a cuore ad Avati: la costruzione di un affetto (emotivo) più che di un effetto (speciale).
Note
1 Vernant Jean-Pierre, L’individuo, la morte, l’amore, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 100.
2 Morin Edgar, Il metodo. 5. L’identità umana, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 28-29.
3 Manicardi Luciano, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Vita e Pensiero, Milano 2011, p. 28.
4 Lafontaine Céline, Il sogno dell’eternità. La società postmortale. Morte, individuo e legame sociale nell’epoca delle tecnoscienze, Medusa, Milano 2009.
5 Manicardi L., op. cit., p. 21.
6 Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati, Le Mani, Genova 2010, p. 61.