Editoriale: P.K.D., Magister Ludi
Andrea Scarabelli & Luca SiniscalcoSono trascorsi quattro decenni dalla scomparsa di Philip K. Dick, la cui prodigiosa immaginazione ha saputo combinare reale e irreale, paranoia e preveggenza, allucinazione e visione. Spesso frainteso o ignorato dai suoi contemporanei, nel nuovo millennio questo singolare esploratore delle “distese interiori del cosmo” (Campbell) spopola nella cultura mainstream, in serie tv a lui dedicate che attirano milioni di spettatori, come The Man in The High Castle (2015-2019) e Philip K. Dick’s Electric Dreams (2017), oppure a lui ispirate, come Black Mirror, lanciata nel 2011, forse la più “dickiana” sul mercato.
Ad averlo consacrato nell’immaginario collettivo non è però tanto la sua scrittura, ma una “visione del mondo” che mescola l’arcaico con il futuribile, i Manoscritti del Mar Morto con la fisica quantistica, il Bardo Tödröl e l’I Ching con allucinogeni di ogni tipo. Sono solo alcuni dei riferimenti disseminati in una produzione dai molteplici stili, ma focalizzata su un punto essenziale: il risveglio da uno stato sonnambulico dell’esistenza, calato nel mondo postmoderno. E il fatto che, per realizzarlo, abbia scelto proprio il fantastico non deve stupirci, considerando le radici mitopoietiche di questo genere – che «Antarès» ha trattato compiutamente nel fascicolo Lune d’Acciaio.
Per individuare, nello specifico, i miti e i simboli che “parlano” in Dick, non serve andare a caccia di riferimenti impliciti o forzare oscure citazioni. Basta leggere – senza pregiudizi – i suoi scritti, a cominciare dalla magmatica Esegesi 2-3-74: quasi milletrecento pagine di lucido delirio, un laboratorio della sua multiforme scrittura che attesta quanto lui stesso considerasse reali i suoi orizzonti extra-letterari – la gnosi, il cristianesimo, la mistica… – in una prospettiva chiamata ad abbracciare Oriente e Occidente.
Insomma, Dick si è incaricato di “rivivificare” queste correnti non in nome del “pensiero debole”, come affermato da certi critici, ma perché intimamente convinto della loro realtà. Si è interessato a miti e riti appartenenti a differenti tradizioni perché persuaso della loro carica soteriologica, salvifica. Questi sono gli elementi di cui ha riempito i suoi lavori, sin da giovane. Anzi, giovanissimo.
Nato nel 1928, Philip Kindred – per i futuri lettori “Philip K.”, per gli amici “Phil” – cresce tra i pulp magazine, le storie di Edgar Poe e Howard Phillips Lovecraft. A dodici anni ha già ben chiaro cosa farà per tutta la vita: musica (soprattutto classica), letture liberissime e scrittura. Queste passioni non cessarono mai nella sua complessa e contraddittoria esistenza: il controverso rapporto con la famiglia – e l’ossessione per la sorella gemella, morta in tenera età, cui è ispirato il potente racconto di Donato Altomare contenuto in questo fascicolo –, le delusioni d’amore, i problemi psicologici, il consistente utilizzo di droghe non annichiliranno mai la sua passione per l’immaginario. Anzi, lo radicalizzeranno. Alimentata da un buon numero di ossessioni e paranoie, l’immaginazione dickiana ha prodotto in meno di tre decenni quarantaquattro romanzi e una miriade di racconti – centoventi, per la precisione, così come erano centoventi le parole che riusciva a dattiloscrivere al minuto (il doppio della media!), complice anche l’anfetamina assunta dagli anni Cinquanta: gliel’aveva prescritta il suo psichiatra, per aiutarlo a superare la leggera schizofrenia diagnosticatagli.
Ma cosa lo ossessionava? “Presto” detto: la differenza tra idios kosmos e koinos kosmos, “mondo soggettivo” e “mondo oggettivo”. Secondo il senso comune, il mondo “oggettivo” (koinos) è quello “vero”, mentre quello “privato” (idios) può anche non esserlo, per l’ineliminabile coefficiente d’errore connesso alla percezione del soggetto. Ma Dick rovescia la scacchiera: non esiste nulla al di fuori della “soggettività”. Il mondo cosiddetto “oggettivo” non esiste in sé e per sé, ma è solo un accordo tra i vari soggetti, che eleggono a realtà una configurazione altrettanto fantasiosa e arbitraria, salvo poi dimenticarsi di averlo fatto. Sembra di leggere il Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale… Il mondo esterno è solo frutto di una potente magia intersoggettiva, finalizzata a stabilizzare qualcosa che è invece subordinato alle oscure leggi dell’entropia. «La storia è una congiura»: queste parole sono di Colin Wilson (I parassiti della mente), ma avrebbe potuto benissimo scriverle Phil. Un solipsismo, insomma? Nient’affatto: dire che il mondo è soggettivo non implica che siamo noi a reggere il gioco. Possiamo parteciparvi, al massimo, se ne conosciamo le regole.
Certo, si dirà, stiamo parlando di allucinazioni individuali. Ma se diventassero collettive? Se tracimassero nella realtà cosiddetta “oggettiva”, alterando presente e passato? A questo punto, ai ricordi inoculati ad hoc nelle coscienze degli uomini corrisponderebbe la costruzione artificiale di un passato fittizio, inveramento del monito orwelliano secondo cui «who controls the past controls the future». Vi ricorda qualcosa?
Al di là dei facili – facilissimi – paragoni con il presente, Dick vede le prove generali di questa riconfigurazione continua del mondo “oggettivo” agli inizi degli anni Sessanta. È il periodo del processo Eichmann, che monopolizza le prime serate statunitensi. Viene seguito per conto del «New Yorker» da Hannah Arendt, dai cui reportage nasce il celeberrimo La banalità del male (1963). Contiene una tesi rivoluzionaria, che sconvolge Phil: il totalitarismo non si afferma per ragioni politiche, ma tramite una sostituzione della realtà. Attua, in buona sostanza, una traslazione totale dei valori: ciò che normalmente viene considerato “bene” diventa “male” e viceversa. La propaganda genera un universo parallelo, che prende il posto di quello reale. Naturalmente, il discorso può essere esteso a tutti i regimi – anche a quelli democratici, come i fatti degli ultimi tempi hanno dimostrato. Sempre la vecchia “congiura” wilsoniana.
Dick legge e rilegge gli scritti della Arendt, e lo fa in un momento molto particolare della sua vita. Dopo l’ennesima delusione editoriale (ha provato a lanciarsi nel mainstream, con esiti disastrosi), ha deciso di farla finita con la scrittura. Vuole cambiare vita, e comincia ad aiutare Anne Williams Rubinstein (la terza delle sue cinque mogli) nella gioielleria che gestisce. Il lavoro è burocratico, di una noia mortale. Per sfuggire alle sue grinfie le racconta che sta lavorando a un romanzo ispirato dall’«idea di Giappone e Germania che sconfiggono gli Stati Uniti». Parte proprio dalla Arendt e dalla “sostituzione della realtà” – ancora non lo sa, ma sta buttando giù le prime pagine di uno dei suoi capolavori, La svastica sul sole. Il problema è che senza alcun appunto non ha idea di come sviluppare la narrazione sotto l’occhio vigile di Anne. «Così», come rivelerà in un’intervista su «Science Fiction Review» del 10 settembre 1976, «usai l’I Ching per buttar giù la trama».
Lo scrittore lo ha scoperto nel 1960, comprandosi l’edizione prefata da Carl Gustav Jung. Da quel momento in poi non fa nulla senza aver prima tirato le tre monetine. Ad affascinarlo è che l’I Ching, come un potente computer, genera una molteplicità di piani semantici – e, dunque, livelli di realtà plurali. È una raffinata ars combinatoria, simile a quella di Abraham Abulafia, di Raimondo Lullo e del De umbris idearum di Giordano Bruno. L’oracolo cinese ha anticipato Leibniz, ma anche il sistema binario 0-1, madrelingua dell’informatica moderna. In un saggio del 1965, dal titolo La schizofrenia e “Il Libro dei Mutamenti”, ne consiglierà addirittura l’uso a fini terapeutici.
Così, se l’enigmatico Ubik è modulato sul Libro tibetano dei morti (anch’esso, peraltro, prefato da Jung nell’edizione di Dick), è invece l’I Ching a dominare ne La svastica sul sole. I protagonisti consultano regolarmente l’oracolo, il cui uso è stato imposto dai “conquistatori giapponesi”, che nel romanzo hanno vinto la Seconda guerra mondiale, insieme ai tedeschi. Scrivendo la storia (che nel 1963 si aggiudica il Premio Hugo), a ogni momento decisivo Dick fa tirare ai suoi protagonisti le monetine, mentre in realtà è lui a farlo, determinando le scelte della sua vita e di quella dei suoi personaggi. Senza chiedersi, ovviamente, quale sia quella “vera”, ammesso che ciò voglia dire qualcosa.
Alla seconda metà degli anni Sessanta risalgono le sue opere più importanti, che lo hanno consacrato nell’immaginario collettivo: oltre a I simulacri, nel 1964 escono Le tre stigmate di Palmer Eldritch, cocktail micidiale di stupefacenti, entropia psicologica e alterazione del cosmo. Il 1968 è invece l’anno di Cacciatore di androidi, vertiginoso trattato di “teologia cibernetica”, seguito l’anno successivo da Ubik, dimostrazione di quanto i poteri della mente, se addestrati in modo adeguato, possano alterare il continuum spazio-temporale. Sincretismo postmoderno o speculazione filosofico-religiosa? Forse entrambe le cose.
Le ultime opere citate sono animate dal paradossale gnosticismo di cui parla Paolo Riberi in questo numero. Ne hanno tutti gli elementi: l’idea che il mondo sia una gigantesca menzogna architettata da qualcuno – il Demiurgo con i suoi sottoposti, gli Arconti – e che vi sia un eroe chiamato a svelare l’inganno, per conto dell’umanità intera. Anche in questo Dick è stato un precursore, se è vero – e lo è – che molti film contemporanei di successo devono la loro popolarità proprio alla presenza di tematiche analoghe. Pellicole come The Truman Show (1998), la quadrilogia di Matrix (1999-2021), ExistenZ (1999) e serie come Westworld (2016-2022) o Twin Peaks (1990-1991) sono solo gli ultimi capitoli di una storia che il nostro Phil ha cominciato a scrivere nella SF, assegnandole una straordinaria tensione metafisica.
Eppure, la “salvezza” che appare in molti dei film citati, il momento della “rivelazione”, nei romanzi dickiani non si manifesta affatto. La trama sembra non concludersi, i finali sono sempre aperti. Permane il dubbio che il Demiurgo sia ancora vivo e vegeto, o magari sia solo un Arconte, il subalterno di un’entità ancora più terribile e abissale, esiliata tra gli intermundia. Un sospetto che una vita, per quanto esemplare, non è comunque riuscita a dissipare.
Philip Kindred Dick si è spento il 2 marzo 1982, dopo l’ultimo di una serie di ictus. Proprio in quel periodo le sue opere cominciavano finalmente a vendere; Blade runner di Ridley Scott, appena concluso, era in procinto di uscire (Phil era riuscito comunque a fare due passi sul set). Era appena stato pubblicato l’ultimo volume della Trilogia di Valis, ossia La trasmigrazione di Timothy Archer (i primi due, Valis e Divina invasione, erano usciti l’anno prima). Possono essere considerati il suo testamento spirituale: la fantascienza si salda definitivamente alla religione, aprendo un cosmo nel quale i Vangeli apocrifi e la Cabala, il neoplatonismo e lo gnosticismo cristiano concorrono a tracciare il ritratto intellettuale di una delle menti più prodigiose della fantascienza novecentesca. Difficile capire se la fine della sua esistenza abbia coinciso con la rivelazione citata. La domanda resta senza risposta. Ci rimane il Gioco del Mondo, insieme al dubbio su chi ne sia il terribile Magister Ludi.