Look back in Anger. A proposito di cinefilia, antikitsch e demoni refniani
Giulio SangiorgioBrutalmente: la differenza tra un cineasta citazionista e un regista cinefilo sta nel fatto che il primo, riproducendo il teatro privato delle sue visioni, assembla con frenetica euforia frammenti e blocchi di film con gusto combinatorio, mentre il secondo versa il proprio patrimonio cinematografico nel crogiolo della propria intimità espressiva, rimodellando il materiale acquisito in forme che assumono profili, torsioni e inflessioni personali. Nicolas Winding Refn, divoratore di immagini (la sua formazione esclusivamente televisiva è dato noto), appartiene alla seconda classe, quella degli autori cinefili, tra i quali corre l’obbligo di menzionare arbitrariamente Gaspar Noé, François Ozon, Todd Haynes e, ovviamente, Quentin Tarantino. È singolare, in Refn, la tecnica del riuso. E verrebbe da dire che il recupero estetico, nel suo cinema, non sia posto in termini di saccheggio nobilitante. Non c’è un’idea di kitsch come prassi che accrediti artisticamente, tramite elementi “alti”, un oggetto estetico di bassa lega. Esempio: un’inquadratura che scimmiotta Professione: reporter di Michelangelo Antonioni (1975) in un film di genere avrebbe la funzione di “antonionizzare” superficialmente il film stesso, dando allo spettatore l’impressione di godere di un’esperienza estetica privilegiata, offrendo all’opera un’aura intellettuale. Suggestione: in Refn, segnatamente nel periodo che va da Drive (2011) a The Neon Demon (2016), avviene il contrario. Ogni cosa è refnizzata, stilizzata e sacralizzata comme d’habitude, in un procedimento estetico diametralmente opposto all’idea tradizionale di kitsch: l’attestazione artistica è ritardata, deriva dall’ammissione nel prestigioso salon refniano, spazio installativo che sfianca l’opera in prestito, galleria degli specchi includente, svuotante, sformante, curatela serissima di forme ridotte alla sintesi estrema, a un passo dalla caricatura, a un soffio dal didascalismo for dummies, come in un perturbante, singolarissimo, brandizzato museo delle cere. Sono molteplici e di estrazione eterogenea i cineasti dai quali Refn ha tratto ispirazione: da John Cassavetes e Ruggero Deodato a Gillo Pontecorvo e Walter Hill, passando per Stanley Kubrick, Lucio Fulci, Jon Alpert, Terence Fisher e Mario Bava. Certi creatori di immagini hanno lasciato su di lui un’impronta tanto decisiva quanto indelebile. Oltre all’impulso primordiale ricevuto dalla visione reiterata di Non aprite quella porta di Tobe Hooper (1974), definito da Refn il film che gli ha mostrato la possibilità di diventare regista e, sadicamente, demiurgo, il cineasta danese ha costantemente dichiarato la sua ammirazione e il suo debito nei confronti di Alejandro Jodorowsky. Per apprezzare quanto in profondità si spinga l’assimilazione del cinema di quest’ultimo nell’organismo refniano, al quale è esplicitamente dedicato Solo Dio perdona. Only God Forgives (2013), basti confrontare il finale di La montagna sacra (1973) con l’incipit di The Neon Demon: lo stesso meccanismo di disvelamento del dispositivo di messa in scena – uno zoom indietro – trasmigra dalla pellicola del 1973 («Non siamo che immagini, sogni, fotografie» esclama perentoriamente lo stesso Jodorowsky) a quella del 2016 in forme nuove, pur mantenendo il medesimo potenziale demistificatorio. È irrilevante che in The Neon Demon sia un set fotografico e non un set cinematografico a squadernarsi davanti ai nostri occhi: conta che l’azione prodotta sullo spettatore abbia l’identica carica destabilizzante. Non si tratta di un semplice calco formulaico pedissequamente riprodotto, ma di una trasmutazione visiva scatenata dall’attività rigenerante del processo di assimilazione. Una sedimentazione in profondità è ravvisabile anche nei confronti dell’opera di Kenneth Anger, totem del cinema underground americano col quale Refn ha allestito una lunga conversazione nel 2008 allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen. Semplificando quel tanto che basta a rappresentarsi la delicata questione, sono sostanzialmente quattro i pilastri del cinema di Anger che affondano stabilmente nella concezione estetica del regista danese, due di natura squisitamente teorica e due di carattere essenzialmente stilistico. Al di là dei tangibili segni di riconoscimento che Refn estrae letteralmente dal giacimento angeriano (lo scorpione effigiato sul giubbotto di Ryan Gosling in Drive non è che la fedele riproduzione dell’icona di Scorpio Rising, del 1965, la masquerade di Tom Hardy in Bronson, nel 2008, proviene da Inauguration of the Pleasure Dome, del 1954), i due universi espressivi comunicano a un livello anche sotterraneo, non limitandosi al semplice citazionismo ornamentale, ma raggiungendo una dimensione organica, una compenetrazione sostanziale. Il cinema di Refn, in sintesi, non è soltanto ispirato dall’opera di Anger, ma è esteticamente informato dalla sua singolare inventiva e, paradossalmente, dalla sua radicale irriproducibilità. Refn riconosce l’impossibilità di emulare Anger, pena la scimmiottatura velleitaria, ma cerca di carpirne la pulsazione estetica, l’incisività visuale, anche al rischio della parodia. Il primo centro d’interesse teorico consiste difatti nel carattere fondativo del cinema di Anger. Come ogni autore cinefilo, Refn è irresistibilmente attratto dal momento in cui una specifica modalità di sguardo nasce, diviene un nocciolo duro capace di condensare in sé proprietà del mezzo inedite e si afferma quale punto di riferimento ineludibile. È questa prepotente e incontrovertibile attestazione di densità ad affascinarlo, spingendolo a paragonare per potenza espressiva Inauguration of the Pleasure Dome, il film che a suo avviso segna la piena maturazione di Anger, a La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer (1928).
Il secondo perno, strettamente correlato al primo, riguarda il carattere intuitivo della visualità angeriana. Per Refn questa visualità istintiva evoca una purezza creazionale di inaudita potenza. Le facoltà della visione entrano in relazione diretta con le circostanze concomitanti, generando forme cinematografiche aurorali: «I tuoi film sono così intuitivi, è quasi come la nascita di un tipo di medium», rivela con evidente deferenza al mentore statunitense durante la conversazione del 2008. Ancora una volta è la natura stessa del mezzo espressivo a essere mobilitata dall’interesse nutrito da Refn per il cinema di Anger, non una mera questione di poetica autoriale.
Gli altri due cardini estetici perforano invece la sfera stilistica e, seppur così profondamente impiantati nell’universo cinematografico del cineasta danese, si lasciano indovinare in filigrana di film in film. Il primo concerne la vocazione fortemente contrastiva del cinema di Anger, una propensione facilmente riscontrabile nell’associazione – che sa d’ironico e turbante attrito – di brani pop a immagini di tutt’altro tenore (Blue Velvet che in Scorpio Rising accompagna la vestizione in pelle di giovani motociclisti, Dream Lover che in Kustom Kar Kommandos [1970], scandisce sarcasticamente la sensualità feticistica con cui un uomo strofina la sua macchina cromata e truccata). Ma, più ampiamente, Refn è conquistato dal modo in cui Anger giustappone le immagini per creare differenze e contrasti: per lui questo equivale alla comprensione della potenza di collisione insita nel cinema (inutile ricordare del resto che uno dei motti più noti dell’autore della trilogia Pusher recita: «Art is an act of violence»). Il secondo innesto stilistico ereditato da Anger, infine, inerisce a una qualità che permea di sé, in misura sempre più palpabile, tutto il cinema di Refn. Il valore stilistico in questione è ovviamente quello della ieraticità – che in Anger proviene dal feticismo per il cinema muto – ovvero una tensione cerimoniale che da Rabbit’s Moon (1950) a Lucifer Rising (1972), passando per Invocation of My Demon Brother (1969), ha immancabilmente connotato la cadenza liturgica dell’opera dello statunitense. Un espressionismo intriso di ritualità e mistero (dall’occultismo di Aleister Crowley alle crepitanti invocazioni luciferine) che Refn ha declinato personalmente in The Neon Demon ma che, a partire dal 2009 di Valhalla Rising. Regno di sangue (titolo angeriano per antonomasia), costituisce il metronomo intimo del suo cinema.