Sulle tracce del simbolismo: Mircea Eliade e la camera sambô
Horia Corneliu Cicortas
Mircea Eliade è nato a Bucarest il 28 febbraio 1907 (13 marzo secondo il calendario gregoriano, non ancora vigente nella Romania di allora). Suo padre era originario della Moldavia e aveva, nel 1907, trentanove anni, mentre la madre ne aveva ventitré ed era di Bucarest (1). Trascorre i primi anni dell’infanzia insieme alla famiglia nella cittadina di Râmnicu Sărat, dove il padre, ufficiale militare, era stato trasferito di guarnigione. “A quella città sono legati i miei primi ricordi”, dirà nelle sue Memorie (2); ricordi rivestiti dell’aura magica con cui la realtà si rivela al bambino Mircea (potremmo aggiungere, a qualsiasi bambino felice). Trascriviamo qui per esteso uno di questi, perché la sua descrizione non solo è affascinante in se stessa, ma risulta anche particolarmente significativa per i risvolti simbolici e autobiografici dell’esperienza raccontata: “Mi ricordo di un pomeriggio d’estate quando in casa tutti dormivano. Ero uscito dalla camera che dividevo con mio fratello e, carponi, per non far rumore, mi ero diretto verso il salone. Era una camera che conoscevo appena, poiché non avevamo il permesso di entrarvi se non in rare occasioni, nei giorni di festa o quando avevamo degli ospiti. La porta era del resto quasi sempre chiusa ma quel giorno la trovai aperta. Sempre a quattro zampe penetrai nel salone e un attimo dopo l’emozione mi inchiodò sul posto. Sembrava che fossi entrato in un palazzo incantato. Le tapparelle erano abbassate e le tende pesanti, di velluto verde, tirate. La camera era inondata da una luce verde, iridescente, irreale. Avevo l’impressione di trovarmi improvvisamente racchiuso in un gigantesco chicco d’uva. Non so più per quanto tempo restai là, sul tappeto, immobile, respirando a fatica. […] Non raccontai a nessuno questa scoperta. Sentivo del resto che non avrei saputo cosa raccontare. Se avessi potuto utilizzare il vocabolario dei grandi avrei detto che avevo scoperto un mistero. […] Negli ultimi anni di liceo, quando lottavo con lunghe crisi di malinconia, riuscivo talvolta a ritrovare la luce di oro verde di quel pomeriggio a Râmnicu Sărat, ma sebbene la beatitudine fosse la stessa, ora mi era diventata insopportabile e non faceva che aggravare la mia tristezza, poiché sapevo che il mondo del quale facevano parte il salone e le tende di velluto verde e il tappeto dove avanzavo carponi e quella luce ineguagliabile, era un mondo per sempre perduto” (3).
È dunque una visione paradisiaca, che verrà chiarita ulteriormente nel libro-intervista La prova del labirinto, del 1978. La descrizione, anche in questo dialogo con Claude-Henri Rocquet, insiste sul colore (verde) dell’esperienza e sulla luce (“Mi aveva colpito il colore. Era proprio come in un chicco d’uva”) ma anche sulla sua unicità (“Questo è accaduto una sola volta. Il secondo giorno, tentai di nuovo di aprire la porta; era chiusa”). Inoltre, ricorda l’autore, “faceva molto caldo”. Quando gli viene chiesto (un po’ freudianamente) dall’interlocutore: “Non aveva nessun timore? Non aveva il sentimento di commettere un delizioso peccato?”, Eliade ribadisce: “No… ciò che mi ha attirato, è il colore, la calma e poi la bellezza: era il salone, con dei quadri, delle mensole, ma nel verde! Immerso in una luce verde” (4).
L’immagine della “stanza segreta” era già stata utilizzata, investita di un senso più iniziatico, nel romanzo La foresta proibita, scritto tra il 1949 e il 1954, opera che rappresenta lo sforzo enorme da parte di Eliade di riappropriarsi idealmente, in forma epica, del proprio passato, in un periodo che vedeva allontanarsi sempre di più l’eventualità di un ritorno nella Romania sovietizzata. La “lievitazione” del romanzo è preannunciata nell’annotazione di Eliade nel suo diario in un giorno particolarmente significativo, il 21 giugno (del 1949): “Il solstizio d’estate e la notte di San Giovanni conservano per me tutto il loro fascino e tutto il loro prestigio. Accade qualcosa, e questo giorno mi sembra non soltanto il più lungo, ma addirittura diverso da ieri e da domani. Tempo fa, in Portogallo, avevo immaginato una sorta di novella sul miracolo della rigenerazione e dell’eterna giovinezza acquisite la notte di San Giovanni. Immaginare, è dir poco. Per più giorni di seguito ho vissuto sotto il fascino di quel mistero. Vivevo nell’attesa, come se qualcosa dovesse prodursi e rivelarmisi” (5).
Ebbene, qualcosa si è davvero prodotto, perché, qualche giorno dopo la notte di San Giovanni, il 27 giugno, Eliade “vede” il romanzo che nascerà: “Ho passato l’intera giornata di oggi in stato di grazia. ‘Vedo l’inizio e la fine del romanzo. So soltanto, in modo piuttosto vago, ciò che si svolgerà fra l’inizio (1936-37) e la fine (1948-49). Dodici anni di vita romena. Vorrei utilizzare quanto ho visto io stesso e quanto ho sentito dagli altri, ma soprattutto vorrei lasciarmi portare dall’immaginazione per ritrovare come in un sogno quell’epoca paradisiaca della mia giovinezza” (6).
L’infanzia e la giovinezza rappresentano infatti il “dossier” più nostalgico degli anni di maturità di Eliade, resi più drammatici dall’irreversibilità del suo esilio (e di molti altri suoi connazionali emigrati durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale), cioè dall’impossibilità di confrontarsi concretamente, e dall’interno, con la situazione storica creatasi in seguito al 1945 in Romania, diventata ormai il suo “paradiso perduto”, la terra dei sogni. Non c’è da meravigliarsi se, alla luce di questa forte nostalgia, Eliade abbia conservato dell’infanzia e della giovinezza trascorse in Romania un ricordo idilliaco, fortemente mitizzato. Pur rimanendo, nelle sue memorie e nelle interviste, “sul terreno del quotidiano e dell’aneddotico per il grande profitto dei suoi biografi” (7), Eliade ha suggerito la possibilità di un’interpretazione simbolica di alcuni episodi della sua vita – è stato lui stesso ad offrire interpretazioni di questo genere, sia nei propri diari, sia nelle lettere, sia nell’autobiografia scritta a tappe negli ultimi decenni della sua vita.
Quanto alla valorizzazione letteraria dell’immagine simbolica della “stanza segreta” (camera sambô) all’interno del romanzo La foresta proibita, siamo di fronte ad un approfondimento non soltanto di un ricordo meraviglioso (e “consolatorio”) dell’infanzia, ma della dialettica stessa del simbolo, che riceve una maggiore stabilità ed autonomia – grazie al suo inserimento nella “mitologia” del romanzo – ed una più precisa caratterizzazione fenomenologica. Ştefan, il protagonista della vicenda, viene a sapere da bambino dell’esistenza della camera sambô da alcuni giovani misteriosi, che alloggiavano nella stessa pensione: “Mi sembravano misteriosi perché, anche se parlavano romeno, non capivo molto bene quel che dicevano. Ma di tanto in tanto uno di loro pronunciava una parola strana, per me senza senso, e allora tutti cominciavano a fare delle esclamazioni, ad agitarsi, ad alzare la voce. Io ero affascinato dai loro misteri. E un giorno, volgendo di scatto la testa verso il loro tavolo, in un momento in cui la discussione era divenuta particolarmente animata, udii uno di loro, quello che mi pareva più vecchio, perché portava i baffi, lo vidi alzare il braccio verso il soffitto, come se stesse indicando una direzione, e lo sentii pronunciare con voce solenne: ‘Sambô!’ Tutti erano ammutoliti di colpo e avevano chinato gli occhi sul piatto. Poi ripeterono di seguito: ‘Sambô! Sambô!’… In quel momento sentii un brivido fino allora sconosciuto: sentivo di essere penetrato in un grande e tremendo segreto” (8). In questo caso, dunque, la conoscenza della stanza è resa possibile da un “grande e tremendo segreto”, cui il bambino è “iniziato” involontariamente da un gruppo di giovani “misteriosi”.
Ma l’accesso alla stanza ignota richiede prima la sua localizzazione, che avviene anch’essa in modo “miracoloso”: “Tutti i misteri degli uomini del tavolo accanto erano concentrati in queste due sillabe: Sambô, e, per una provvidenziale circostanza, avevo girato la testa esattamente nel momento in cui l’uomo coi baffi aveva mostrato la direzione in cui si trovava questo mistero, Sambô. Si trovava sopra di noi, da qualche parte sopra di noi, al secondo piano… Ovviamente quello stesso pomeriggio sono andato alla sua scoperta” (9).
Segue la descrizione dell’esperienza, più o meno identica nella sostanza a quella delle Memorie, ma resa più drammatica dal tono del racconto. Il ricordo, questa volta, non è “solo” la rievocazione di un passato, bensì l’illustrazione simbolica dell’esperienza del sacro e al contempo una vibrante “confessione di fede” in una realtà assoluta, unica nel tempo e nello spazio: “E allora, ho capito che esiste qui, sulla terra, vicino a noi, alla nostra portata, e tuttavia invisibile agli altri, inaccessibile ai non iniziati, uno spazio privilegiato, un luogo paradisiaco, che, se hai avuto la fortuna di conoscerlo, non puoi più dimenticare, poi, per tutta la vita. Perché in Sambô sentivo di non vivere più come ero vissuto fino allora; vivevo in un altro modo, in una continua, inesprimibile felicità. Non so donde sgorgasse quella beatitudine senza nome. Più tardi, ricordandomi di Sambô, sono stato sicuro che là mi aspettava Dio, e mi prendeva tra le braccia dal momento in cui varcavo la soglia. Non ho più sentito poi, in nessun posto e mai, una simile felicità, in nessuna chiesa, in nessun museo; in nessun posto e mai” (10).
La nostalgia della propria infanzia s’intreccia qui con un sentimento più ampio, trans-personale: è la nostalgia degli inizi, dell’origine, del paradiso, della beatitudine di un illud tempus tuttavia “ri-attualizzabile”, in determinate circostanze, nel cuore di ciascuno. Nel caso della camera Sambô, si tratta di una vera e propria immersione in uno spazio sacro, accompagnata da alcuni elementi (luce, calore, silenzio, beatitudine) che contraddistinguono determinate esperienze mistiche. In un testo sulla pittura di Chagall, Eliade osserverà che “il mistero del mondo ci è rivelato nell’infanzia ma è di solito dimenticato in seguito. La maturità abolisce il mistero e allontana il sacro dal cosmo e dall’esistenza umana” (11). Riappropriarsi di questa dimensione sacra, di questo meraviglioso mistero della vita, diventa allora un’anamnesi, un processo di “risveglio” ad una realtà trasfigurante. Il simbolo svolge così un ruolo duplice: veicolo per la rivelazione del sacro e strumento di salvezza (in senso gnostico).
Nel 1912 il padre di Mircea viene trasferito di guarnigione a Cernavodă, sul Danubio, dove la famiglia Eliade resterà fino al 1914. “Di quel periodo ricordo il sole accecante che mandava i suoi raggi sulle rive del Danubio e sulle colline color mattone bruciato, sulle quali crescevano rose selvatiche e piccoli fiori dai petali pallidi, rinsecchiti” (12). Qui, il giovane scopre l’entusiasmo delle letture ma, a causa dell’incipiente miopia, gli viene vietato di leggere nel tempo libero. Eliade continuerà a leggere a casaccio, di nascosto, ma scoprirà anche altre attività appassionanti, legate ai giochi e alla conoscenza delle bellezze della natura. Il famoso ponte sul Danubio a Cernavodă sarà valorizzato nel racconto Il ponte (1963), dove andrà assumendo significati iniziatici, oltre che simbolici. Il ponte di Cernavodă è, del resto, un passaggio tra la Romania intra-danubiana e la regione Dobrogea, sul mar Nero, la più “orientale” del Paese. Un transito che è dunque anche una “porta dell’Oriente”, un passaggio est-ovest all’interno della Romania. Più tardi, il simbolismo del ponte verrà applicato da Eliade alla Romania stessa, considerata come possibile “ponte culturale” nel dialogo tra l’Occidente e l’Oriente, tra la modernità secolarizzata e le culture arcaiche.
(1) Nel pieno di una crisi di malinconia, il ventenne Mircea si scaglierà con furore contro il proprio “sentimentalismo”, che egli attribuiva alla propria ascendenza moldava, scrivendo un articolo intitolato Contro la Moldavia (“Cuvântul”, 19 febbraio 1928). Topos dell’immaginario culturale romeno, la cosiddetta “anima moldava” serviva per giustificare le tendenze poetiche e malinconiche, anche se a quanto pare il padre di Eliade non era affatto un tipo del genere: “Mi domando come mai Mircea abbia potuto cercare attraverso la figura di suo padre la fonte delle sue crisi” (testimonianza di S. Alexandrescu, nipote di Eliade, resa all’autore, in F. Turcanu, Mircea Eliade. Le prisonnier de l’histoire, La Découverte, Paris 2003, p. 8).
(2) M. Eliade, Memorie I, Jaca Book, Milano 1995, p. 12. Eliade inizia a scrivere la sua autobiografia – in romeno, come tutti i suoi scritti letterari – nel 1960. Ne pubblica i primi otto capitoli (composti tra il 1960 e il 1963) nel volume di “ricordi” (Amintiri I. Mansarda) pubblicato a Madrid nel 1966, preso una casa editrice della diaspora romena. Il racconto si fermava al novembre del 1928, data della sua partenza per l’India. Il nono capitolo, L’India a vent’anni, esce su una rivista dell’esilio nel 1964, mentre il cap. XIV (Bucarest 1937) viene pubblicato nel 1967. L’edizione da noi usata e citata è la traduzione dal dattiloscritto originale romeno a cura di Roberto Scagno. Memorie I corrisponde alla versione francese del 1980, mentre Memorie II a quella data alle stampe dopo la morte di Eliade, nel 1988. L’edizione romena delle Memorie (Memorie I-II), a cura di M. Handoca, è del 1991, edizioni Humanitas.
(3) M. Eliade, Memorie I, cit., pp. 12-13.
(4) M. Eliade, La prova del labirinto, Jaca Book, Milano 2002, p. 14.
(5) M. Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 79.
(6) Ivi, p. 80.
(7) F. Turcanu, op. cit., p. 13.
(8) M. Eliade, La foresta proibita, Jaca Book, Milano 1986, pp. 84-85.
(9) Ivi, p. 85.
(10) In base ai brani di Eliade citati (e ai loro relativi contesti) e in assenza di una tematizzazione del termine Sambô da parte dello stesso autore, lo spazio descritto potrebbe essere associato alla condizione nirvanica o alla realtà misteriosa di Shambala, presente in certe tradizioni esoteriche indo-tibetane. Tuttavia, è interessante notare che, trascritto secondo le convenzioni odierne, Sambō è l’equivalente giapponese del sanscrito triratna, il “Triplice Gioiello” (Buddha, Dharma, Sangha) in cui gli adepti buddhisti “prendono rifugio”, come recita la loro stessa “formula di fede”. In questo senso, la camera Sambō è la camera-rifugio, o meglio, il Rifugio.
(11) Beauty and Faith, in J. U. Nef (a cura di), Bridges of Understanding, New York University Publishers, New York 1964, p. 123. Traduzione nostra.
(12) M. Eliade, Memorie I, cit., p. 13.
Nota. Il testo presente, qui pubblicato per la prima volta, è tratto dal primo capitolo (L’adolescente miope e la scoperta dell’India) della nostra tesi di dottorato, inedita, su Mircea Eliade e l’India, sostenuta nel 2005 presso “L’Orientale” di Napoli.