Editoriale: miti moderni e antimoderni
Andrea Scarabelli
Perché una rivista “antimoderna” si interessa di simbolismo e letteratura? Perché un numero su questi argomenti e sul loro rapporto? Certo, la faccenda è molto più complicata di quanto lo spazio di un editoriale consenta – soprattutto perché il legame tra metafisica e modernità è molto più complesso di quanto si possa sospettare. Da una parte, infatti, è sotto gli occhi di tutti il tentativo di rimozione di queste tematiche nel mondo odierno, dall’altra, proprio nell’epoca del trionfo del meccanicismo, del materialismo e dello scientismo, si assiste al rifiorire di studi esoterici, simbolici e via dicendo.
Non parliamo poi della nozione di mito. Basti pensare all’accezione denigratoria che ha assunto oggi l’aggettivo “mitologico”, volto ad indicare alcunché di fantasioso, se non addirittura di campato per aria. L’atteggiamento “pavloviano”, preda di automatismi inconsci e istintivi, dei “moderni” nei confronti di una letteratura che non vuole definirsi “realista” è un indice assai eloquente di quanto la modernità stessa sia preda di meccanismi di tipo mitologico. Pretendendo di farla finita, una volta per tutte, con ciò che non è indagabile tramite gli strumenti della Dea Ragione, essa etichetta come “superstizioso” quanto non riesce (più) a comprendere, per poi ereditarne le figure ermeneutiche e interpretative.
Una certa classe di autori da sempre denuncia questo tacito passaggio di consegne, indicando come ogni forma politica sia una religione secolarizzata (oltre alle arcinote parole di Weber sul capitalismo come protestantesimo distillato, pensiamo alle tesi di Juan Donoso Cortés e Joseph de Maistre, ma anche a quelle di Alain de Benoist, che indicò nei totalitarismi del XX secolo la traduzione dello spirito del monoteismo, soprattutto cristiano). Le forme moderne dunque cacciano la religione, i miti, le “superstizioni” dalla porta principale e queste rientrano dalla finestra, spesso proprio in seno ai movimenti di pensiero più insospettabili. Fu forse questa persuasione a condurre il giurista e filosofo del diritto Carl Schmitt, nella sua Politische Theologie, a scrivere provocatoriamente che ogni diritto è teologia secolarizzata.
Lo stesso dicasi per le forme politiche. È il caso di molti aspetti del marxismo, ad esempio, che il senso comune, non certo senza ragioni legittime, interpreta come “razionalismo compiuto”, letto invece da Eric Voegelin come messianismo secolarizzato. “Non si capisce nulla del pensiero di Marx se non lo si vede come una sintesi di natura essenzialmente religiosa”, scriveva a sua volta Adriano Tilgher (Storia e antistoria, Roma 1984, p. 79), idea condivisa anche da Mircea Eliade (Mito e realtà, Milano 1974, p. 207). Lo storico marxista Luciano Parinetto, in Alchimia e utopia (Roma 1990) vede nelle dottrine del filosofo di Treviri il compimento del sogno alchemico.
Il mito dunque sopravvive alla modernità, coniugandosi con le sue strutture storiche e sociali. Pensiamo all’utopia, ad esempio, che trasferisce la purezza delle origini, cantata dal mito, alla fine dei tempi, configurandosi come “sogno cosmogonico al livello della storia” (E. Cioran, Storia e utopia, Milano 1982, p. 132). Lo stesso dicasi per il culto del lavoro, nuova religione accomunante visioni del mondo giustapposte, la quale, sempre secondo Tilgher (Homo faber, Roma 1929), altro non sarebbe che la secolarizzazione del mito della caduta e della necessità da parte dell’uomo di riscattarsi dalla propria inferiorità, dallo “stato di minorità” kantiano. Curiosa eterogenesi dei fini: ora il sudore della fronte, maledizione e schiavitù dell’uomo, diventa l’annuncio di un riscatto, da realizzarsi in saecula saeculorum.
Tutti esempi, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, di quanto il mondo moderno sia ancora permeato di quei miti che ha rimosso, in maniera più o meno consapevole.
Lo stesso vale per l’esoterismo. Il mondo occidentale, che non concepisce altra verità che non sia pubblica (non casualmente l’esercizio filosofico, astro che sorge al declinare del mito, come messo a fuoco dalla pluridecennale attività di Giorgio Colli, ha i suoi natali nelle piazze e nei fori, e prescrive come proprio strumento dimostrativo l’agone di una dialettica da esercitarsi in pubblico, in presenza di spettatori e giudici esterni), ha operato una progressiva rimozione di ciò che non è pubblicamente dimostrabile.
Come ha scritto in più occasioni lo storico e politologo Giorgio Galli – si veda ad esempio l’intervista contenuta in questo fascicolo – la compresenza di esoterismo e razionalismo venne infranta a partire dall’incamminarsi dell’Occidente verso i domini della modernità. Chiusa la primavera dei saperi rinascimentali, che vide scienziati occuparsi di alchimia, matematici di astrologia e via dicendo, fino allo scontro epocale tra le visioni del mondo di Goethe e Newton, la modernità ha scelto un’altra via, che ha messo al bando – complice anche un certo tipo di cristianesimo – il segreto insito in qualsivoglia forma di esistenza, realtà e relazione. Il patrimonio magico ed esoterico è stato svilito e ridotto a finzione, dalla vittoriosa mentalità razionalista. In una lettera ad Adolfo Omodeo, composta vero la fine del 1940, l’antropologo Ernesto de Martino, autore de Il mondo magico, scriveva polemicamente: “La comune sentenza che il magismo è illusione non resiste in fondo né in linea di principio, né in linea di fatto: è una sentenza maturata nel generale interesse umanistico della nostra civiltà, e in particolare è un residuo di razionalismo illuministico. È insomma più una sentenza polemica che una verità storiografica” (Dal laboratorio del “mondo magico”. Carteggi 1940-1943, Lecce 2007, p. 49). Una osservazione da tenere in considerazione, allorché si entra in territori differenti da quello moderno.
La vittoria di Newton (seppur con molte riserve, anch’egli essendosi occupato di “occulto”), dell’analitica che esclude tutto ciò che non riesce a sezionare (l’etimo di analisi è legato in effetti alla dissezione), segna l’ingresso nella modernità, superstiziosa e atea, inquisitoria e secolarizzata, fino ai nostri giorni, nel quale gli unici esoterismi ammessi sono quelli degli alchimisti della finanza, che operano sul reale attraverso i nuovi simbolismi dei diagrammi e degli istogrammi. Ecco la modernità, nella sua forma più spudorata, vergognosa, fallimentare e, ancora una volta, mitologica suo malgrado, nonostante si dica fiera di essersi “liberata” dalla “tirannia” dei miti.
Come interpretare, poi, quelle che il filosofo tedesco Oswald Spengler, nel Tramonto dell’Occidente, chiamò le “seconde religiosità”, come l’antroposofia, il buddhismo ad uso e consumo dei salotti buoni, e via dicendo? Come mai in un mondo che si vanta di appagare con il più totalitario materialismo le esigenze umane spopolano la new age, le conversioni dell’ultima ora, le sette e le pseudosette?
Forse è questo che i declamatori – moderni – del realismo a tutti i costi non riescono ad intendere (e, di conseguenza, a tollerare, spesso anzi scagliandosi in modo virulento contro chi cerca di battere altre piste di ricerca): la scienza ha certo scalzato le pratiche preesistenti ma non ha potuto elidere l’anelito che ne costituì lo sfondo.
Il positivismo di Comte ci ha insegnato che il progresso scalza le strutture mitico-religiose; le scienze attraverserebbero tre fasi: teologica, metafisica e scientifico-positiva. Le prime due infantili, la terza, finalmente, adulta. Questa dottrina permea ancora il senso comune – anche filosofico. Eppure, il riemergere di interessi esoterici – in manifestazioni ovviamente conformi allo spirito dei tempi – prova il contrario: lo scienziato non sostituisce il mago ma ne serba una scintilla, spesso in maniera inconsapevole. L’11 dicembre 1957, Ernst Jünger scriveva, in una lettera a Mircea Eliade: “Oggi, mentre il fulgido sole di Kant si fa più opaco, si sta forse alzando quello oscuro del suo concittadino di Königsberg, Hamann” (per la cronaca, il cosiddetto “Mago del Nord”). Lo stregone e l’illuminista sullo stesso palco? Sembra strano, ma tutte le epoche hanno conosciuto questa compresenza, ammettendola e salvaguardandola – tutte, salvo quella moderna. Forse la formulazione di giudizi affrettati richiederebbe una certa cautela, in nome di quel relativismo di cui in molti si riempiono la bocca, per poi scordarsene in fase “operativa”.
Ora, persuasione di questo numero di Antarès è che le arti – dalla letteratura alla poesia, dalla pittura sino alla cinematografia – siano ambiti nei quali è possibile ritrovare nella sua forma più pura questo tipo di simbologia, spesso penetrata in qualche misura senza che l’autore ne fosse pienamente cosciente, attingendo a quello che Carl Gustav Jung e i suoi discepoli chiamarono “inconscio collettivo”. Un elemento, questo ultimo, non proprio al solo approccio “tradizionale”, a cui molti guardano ancora con sospetto, ma sostenuto da intellettuali e studiosi di formazione molto eterogenea – si vedano in proposito la già citata intervista a Giorgio Galli e il contributo di Gianfranco de Turris sempre all’interno di questo numero.
Tra le molteplici possibilità offerte dalla letteratura – oltre all’engagement che ancora spopola – risiede non solo la rappresentazione del mondo ma anche la sua trasfigurazione (una capacità del tutto sconosciuta ad altri generi letterari, come ad esempio quello saggistico). Nel suo Diario, Guido Morselli scriveva, a proposito del dibattito sulla tecnica: “Il discorso sulle macchine è troppo interessante perché lo lasciamo, come facciamo oggi, esclusivamente ai tecnici. Affermo la necessità di un Maeterlinck e di un Fabre delle macchine, che ce ne parlino con intelligenza e con simpatia. Forse i tempi sono maturi perché ci attendiamo un Lafontaine o un Esopo della macchina da scrivere, del frigorifero e della radiolina a transistors”. E chissà cosa avrebbe detto oggi, in un mondo in cui gli utensili appena menzionati sono sostituiti da ben più complessi strumenti tecnici… Morselli denunciava il dislivello tra la realtà e la capacità dell’uomo di interpretarla. Uno scarto il quale, prima di essere storico, è simbolico.
Seguendo lo stesso ordine di considerazioni, lo storico delle religioni Mircea Eliade scriveva, nel diario composto durante il suo soggiorno portoghese, il 16 aprile 1945 – le ore più buie dell’Europa – a proposito della situazione dell’umanità nella modernità: “Se l’uomo moderno è meno sano, se è degenerato, nevrotico, sradicato, ecc.; non è da imputarsi al fatto che vive in una società industriale, in una metropoli, che dispone di radio, cinema, ecc.; ma semplicemente al fatto di non essere ancora riuscito ad adattarsi al nuovo ambiente cosmico che gli hanno creato le sue stesse scoperte e mezzi di produzione. Permane uno sfasamento tra l’ambiente moderno e l’uomo” (Diario portoghese, Milano 2009, p. 269).
La necessità di questo apporto simbolico è ineliminabile. Da qui la centralità di una letteratura mitica e moderna ad un tempo, che consenta all’uomo di oggi di tornare ad essere protagonista del suo destino, nel cuore di una modernità in piena crisi. Smettere di interpretare la realtà e iniziare a cambiarla? Meglio trasfigurarla e rivoluzionarla attraverso il mito – questo il beneficio recato dalla letteratura simbolica, nell’accezione di cui sopra.
Ecco il perché di un numero di una rivista “antimoderna” dedicato all’esoterismo ed al suo rapporto con le arti. I contributi di questo fascicolo sono volti a delineare la possibilità di un’arte – sia essa letteraria, plastica, visiva, cinematografica e via dicendo – che non sia mera riproduzione del reale ma sua trasfigurazione. Un modus operandi proprio a diversi autori e correnti, da Mircea Eliade a Gustav Meyrink, da William Butler Yeats a Fernando Pessoa, dagli scrittori che fecero parte della celebre Golden Dawn fino a Thomas Mann e Jorge Luis Borges, per giungere a futuristi e modernisti, sovente ritenuti ben lungi da tematiche di tipo “iniziatico”.
Ovviamente, questa impostazione non ha pretese di esclusività. Non si vuole di certo dire, in sostanza, che sia preferibile ad altri, o che li escluda necessariamente. Ciò che si tenta di dimostrare è la sua plausibilità, la sua coerenza, nonostante ancora siano negate da molti. Un metodo e un ambito di indagine ai quali le Edizioni Bietti han già dedicato spazio, con la pubblicazione de Il Domenicano bianco di Gustav Meyrink e lo studio di Stefano Giuliano dedicato a Tolkien (entrambi recensiti in questo numero) ma anche di volumi come Vibenna, firmato da Gerardo Lonardoni. La presente pubblicazione va a costituire un tassello ulteriore di questo mosaico. È auspicabile che esso dialoghi anche con altri metodi di analisi, in un confronto anche critico, ma che non abbia la pretesa di arrogarsi la verità ultima sulle cose – magari in nome di scomuniche aprioristiche e ottuse. Il laboratorio di Antarès – e non è di certo il primo – indica questa via come percorribile. Che ciò possa continuare, anche e soprattutto nel cuore del nostro tempo, mitologico e antimitologico, moderno e antimoderno.