Carl Schmitt: «Dialogo sul potere»
Emanuele Guarnieri
Il potere. Che si punti il dito contro la pervasività della tecnica o il dominio del capitale, è di fatto potere il nome del drago che si cerca di afferrare per la coda, nel tentativo di arrestarne i processi più devastanti o quantomeno di comprenderne i moventi. Entrambi i desideri sono vane illusioni, destinate ad essere frustrate: del potere, infatti, si potrà al limite dire che oltrepassi di gran lunga coloro che dovrebbero esserne i soggetti attivi, che si configurano come soggetti ad esso piuttosto che di esso. Questo è il nucleo concettuale del Dialogo sul potere di Carl Schmitt, uscito di recente per Adelphi, con la curatela di Giovanni Gurisatti. Un testo estremamente interessante, sia per gli studiosi del grande giurista tedesco sia per chi fosse interessato a comprendere quali siano le origini delle dinamiche di potere o anche per chi volesse semplicemente introdursi alla raffinata filosofia politica di Schmitt, grazie ad un’opera a tratti ironica, chiara e sintetica, tra l’altro concordante, almeno su alcuni punti, con taluni celebri passaggi di opere capitali della filosofia del secondo Novecento, da Foucault alla Arendt, passando per Simone Weil.
Al tempo stesso, è un documento prezioso per ricostruire le vicende intellettuali del filosofo durante i difficili anni del secondo dopoguerra: le riflessioni contenutevi non potranno non richiamare alla memoria i brani di Ex captivitate Salus o delle Risposte a Norimberga.
L’opera ebbe una gestazione curiosa per essere un lavoro di filosofia politica: due dialoghi, concepiti per essere trasmessi alla radio nel 1954, che ottennero un insperato successo di pubblico, tanto da essere ambedue ritrasmessi nel giro di pochi mesi. I fini del Dialogo sono esplicitati da Schmitt stesso nell’Appendice: l’obiettivo è quello di ricondurre il sapere umano e le sue ambizioni, nell’epoca dell’imperversare della tecnica e dei primi viaggi spaziali, al senso della terra, in un duplice radicamento al pianeta e all’elemento.
La prima delle due piéce è il Dialogo sul potere e sull’accesso al potente, che si svolge tra un maestro (alter ego di Schmitt medesimo) ed un giovane discepolo. La questione verte sulla natura del potere: vengono rapidamente passate in rassegna le antiche concezioni sull’identità di chi lo detiene. Chi è costui, rispetto ai propri sudditi? Deus, lupus o homo? All’entusiasmo del discepolo per quest’ultima ipotesi, il maestro ribatte mostrando la complessità del problema: se il potere derivasse esclusivamente dagli uomini, andrebbe spiegata la natura dell’obbedienza che questi gli tributano. Esso, infatti, non solo è in grado di creare, tramite le sue operazioni, il consenso sul quale si regge, ma la stessa obbedienza è sorgente della sua forza: “Anche quando viene esercitato con il pieno consenso di tutti coloro che gli sono soggetti, ha comunque anche un suo significato peculiare, un «plusvalore», per così dire” (p. 18).
Veniamo così introdotti alla tesi fondamentale di tutto il dialogo, secondo la quale il potere è qualcosa di totalmente alieno dall’essere umano e, in ultima analisi, ad ogni tentativo di determinarne la natura sfugge qualcosa di essenziale: si tratta, infatti, di “una dimensione peculiare e autonoma, anche rispetto al consenso che lo ha creato” (p. 20) e persino nei confronti di chi lo detiene. Viene brevemente delineata la fenomenologia della camarilla, quel complesso di persone ed istituzioni che costituisce il passaggio obbligato per accedere al governante. In qualsivoglia sua forma, dice Schmitt, si costituirà sempre un corridoio privilegiato di accesso al centro del governo, che finirà inevitabilmente per estraniarlo quasi del tutto dai suoi sudditi e dalla realtà, e viceversa.
L’allievo, tuttavia, incalza: il potere in sé è buono, cattivo o strumento neutrale? Vengono allora riportate alla memoria due antitetiche concezioni, rispettivamente di Gregorio Magno, secondo il quale tutto il potere proviene da Dio – ed è quindi buono in sé – e di Jacob Burckhardt che, pessimisticamente, ricordando le vicende della Rivoluzione Francese, sentenzia che “è in sé cattivo”. Il punto, sottolinea il maestro, è che con l’alba della modernità, cioè con la Rivoluzione, il potere si è svelato nella sua essenza in maniera del tutto particolare. Proprio nel momento in cui si è finalmente mostrato come un fatto semplicemente umano, ecco che maggiormente atterrisce e si diffonde la convinzione che sia in sé negativo. “Il detto «Dio è morto» e l’altro «il potere è in sé cattivo» nascono nel medesimo tempo e dalla medesima situazione. E in fondo significano la medesima cosa” (p. 35). La natura impersonale e trascendente di cui la forza si ammanta, a partire dalla Rivoluzione in avanti, è presto spiegata: essa deve le sue qualità allo sviluppo delle armi e delle tecnologie della distruzione, che rendono la volontà umana di fare il bene piuttosto che il male del tutto superflua. Gli individui che si trovano a pilotare le moderne macchine da guerra – e, aggiungeremmo noi, i meccanismi sociali – sono ormai organi, protesi degli apparati tecno-sociali che le hanno create; in ciò, portando a compimento il piano seicentesco di Hobbes, che immaginava il suo Leviatano proprio come un “grande uomo” composto da molte persone e strutturato come una macchina. La trascendenza del potere deriva allora dal fatto che “lo Stato era la macchina delle macchine, la machina machinarum, un superuomo composto di uomini, che prendeva corpo mediante il consenso umano, ma che nel momento in cui nasceva si poneva aldilà di ogni consenso umano” (p. 40).
L’ipotesi dell’homo hominis homo sembra allora condurre a nuovi problemi, più che a soluzioni. La trascendenza del potere ci consegna ad un’epoca in cui, lungi dall’essere l’humanitas un’essenza definita una volta per tutte, “essere un uomo resta una decisione” (p. 44) – e Schmitt sembra qui precorrere la nota tesi di Foucault, secondo la quale alla morte di Dio subentra immediatamente e conseguentemente il crollo del concetto di “umano”.
Il Dialogo sul nuovo spazio, invece, ricalca le riflessioni geofilosofiche svolte in Terra e mare. Si svolge tra il vecchio storico Altmann (ennesima maschera di Schmitt), Neumayer, un solido scienziato di formazione classica, e il giovane “futurista” nordamericano MacFuture. Il dialogo è, oltre che un’esposizione di geopolitica, un trattatello “metodologico” in cui si oppongono tre differenti modalità di impostare le questioni in gioco: il metodo storico-filosofico (Altmann), quello scientifico in una sua versione per così dire “temperata” (Neumayer) e l’immaginazione positivista e fantascientifica nella sua forma più sfrenata (MacFuture).
Altmann e Neumayer si fronteggiano dapprima sul conflitto che, tradizionalmente, oppone terra e mare, sulla scorta della Bibbia, a partire dai libri della Genesi, di Giobbe e di Giona fino ad arrivare all’Apocalisse. In questi libri, infatti, il mare è trasfigurato simbolicamente nella sinistra immagine del Leviatano, che tanto peso avrà nella filosofia politica moderna. Se l’anziano storico rintraccia in questo paradigma mitologico una verità di fatto, vale a dire la dicotomia che oppone potenze terranee e marittime – di cui la Guerra Fredda è un esempio odierno – Neumayer ribatte che tale conflitto non è determinato necessariamente da alcunchè e il ricorso alla Bibbia è un espediente metodologicamente scorretto.
La discussione tra i due viene però ben presto interrotta dall’irruzione di MacFuture, che accusa le prese di posizione di Altmann e Neumayer di arretratezza; lo storico domanda allora al giovane quale sia la causa della Guerra Fredda, l’evento geopolitico fondamentale negli anni in cui Schmitt scrive. MacFuture sostiene che i motivi del conflitto riposino nel differente sviluppo tecnologico ed industriale raggiunto da Oriente ed Occidente. Ma la rivoluzione industriale, ribatte Altmann, è un fenomeno nativo dell’Inghilterra – dato non casuale, avendo essa una mentalità “oceanica”. Gli Stati europei del Seicento che tentarono la conquista degli oceani, su tutti Portogallo, Olanda e Francia, infatti, “si sono limitati ad appropriarsi della terra, mentre l’Inghilterra si è impadronita del mare. Solo l’Inghilterra ha osato il grande salto, e compiuto il passaggio dalla terra al mare, dall’esistenza terranea ad un’esistenza marittima” (p. 73). Ciò contribuì a creare le basi per una mentalità tecnologico-industriale, sostiene Schmitt, dal momento che nell’ambiente marittimo si configurano relazioni tra l’uomo, l’ambiente ed i mezzi tecnici totalmente differenti da quelle terrestri.
Insomma, la radice del progresso della tecnica viene rintracciata da Altmann nella straordinaria “risposta” che l’Inghilterra seppe dare alla “chiamata degli oceani che si stavano aprendo”. MacFuture è entusiasta di queste conclusioni e, procedendo per analogia, afferma che, nell’epoca presente, tale vocazione assume la forma della chiamata degli spazi cosmici, di cui l’umanità vuole impadronirsi come fecero gli europei con il Nuovo Mondo. Forte del suo senso storico, Altmann ridimensiona le speculazioni di MacFuture asserendo che gli appelli storici non si ripresentano mai allo stesso modo. Semmai, dal momento che la tecnica ha aperto prospettive inaudite sulla terra, “i nuovi spazi da cui proviene la nuova chiamata debbono trovarsi sulla nostra terra, e non fuori nel cosmo. Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e ad inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata […]. La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe, per esempio, l’azione di un nuovo Ercole! Da questa direzione sento giungere la nuova chiamata, la sfida del presente” (p. 87). A sessant’anni dalle profezie di Schmitt, gli abissi cosmici paiono non essersi ancora aperti e sei miliardi di esseri umani sono tuttora confinati su questo pianeta – essi sono chiamati, ancora una volta, a riconoscersi come suoi figli e a ricercare l’aurora di una terra rinnovata, dopo la notte del nostro tempo, nel segno del motto faustiano che Schmitt cita a conclusione del suo dialogo: tu sei rimasta, terra, salda anche questa notte. Carl Schmitt, Dialogo sul potere, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2012, pp. 124, € 7,00.