«Quello che facciamo è segreto». In un’epoca in cui non ci sono pellicole dimenticate da recuperare, bensì file, può comunque capitare di avere tra le mani film quasi impossibili da vedere. Questa è la storia di Cavie (2009), una regia “scolastica” di Marco e Antonio Manetti a conclusione del master in Acting della Scuola di Cinema di Roma. Riprendendo un motto mai ufficializzato, ma usato nel circuito musicale underground italiano regionalistico, “Quello che facciamo è segreto” è dunque il titolo perfetto per raccontare l’evoluzione di un “segreto” italiano del cinema indipendente. Movimento cinematografico (quello indipendente) che, a differenza della scena musicale, nel nostro Paese non ha mai avuto una vera identità in antitesi al circuito commerciale. Soprattutto nel genere, rimasta orfana a causa un abbandono prematuro del sistema produttivo reale, questa nuova forma di “fare cinema” in maniera anarchica si è naturalmente (disgraziatamente?) evoluta grazie anche al progresso tecnologico, portando dapprima – all’inizio del nuovo Millennio – a sporadici esempi di autogestioni produttive, vere e proprie prove generali (categoria in cui rientra il Cavie in esame) alimentate dal volere stesso degli autori, quando il questo volere coincideva con una capacità di portare a termine il progetto. Poi a una vera scena, tuttavia regionalistica, affastellata in un crescendo esponenziale post-anni Dieci di autoproduzioni, collettivi di lavoro e qualche germinale esempio di vera produzione. In sostanza, nel cinema indipendente italiano, per quasi un ventennio, si è assistito a un groviglio di palline da flipper impazzite e a un deterioramento del concetto di genere con contaminazioni di vario tipo.
In questo panorama new generation, all’interno del quale i Manetti Bros. hanno rappresentato un punto di arrivo per molti, un titolo che ha fatto da “stati generali” è stato senza ombra di dubbio il film collettivo di metà anni Novanta, De Generazione (1994, Consegna a domicilio è il titolo dell’episodio a firma dei Manetti), in cui diversi autori, girando in pellicola, hanno letteralmente iniziato i propri percorsi, molti dei quali destinati all’insuccesso. I fratelli romani, tuttavia, hanno saputo cavalcare quell’onda alla perfezione, relativamente al contesto italiano, finendo per essere un modello di camaleontismo cinema-tv, pellicola-digitale, alternandosi tra produzioni vere e operazioni digitalmente libere di esprimersi. Il curioso caso dei Manetti è stato ed è unico nel suo genere, in Italia: in questo percorso di indipendenza Marco e Antonio si distinguono sia in quanto autori (Piano 17 [2005]) sia come produttori, o meglio talent scout, come nei casi di Il bosco fuori di Gabriele Albanesi (2006) e del suo successivo e meno fortunato Ubaldo Terzani Horror Show (2010), passando per Circuito chiuso di Giorgio Amato (2016) fino ai più recenti e produttivamente alti (con la complicità di Rai, oggi sì più attenta al cinema giovane) The End? L’inferno fuori di Daniele Misischia (2017) e Letto N. 6 di Milena Cocozza (2019). Nel mezzo anche corti e chissà quanti progetti che mai sapremo, da loro analizzati, valutati, scandagliati. E proprio in questa scaletta, oltre che autori e produttori, i Bros. sono stati anche insegnanti di cinema indipendente e autogestito: di Cavie hanno curato regia e fotografia spogliandosi dei mezzi da produzione vera, mettendo dodici allievi, “cavie” di se stessi, a cimento non su un canonico cortometraggio – come forse in origine doveva essere – ma sul vero banco di prova del lungometraggio. E se consideriamo nuovamente il momento storico, il 2009, non possiamo non invidiare il coraggio e l’assoluta anarchia registica.
Film o quasi film? Quello che si può leggere sul web in merito non è molto positivo, ma è figlio di un’analisi argomentata sulla visione – l’opera è stata proiettata soltanto in due occasioni – e non sulla considerazione di ciò che si ha di fronte. Oggi si potrebbe pensare: meglio se Cavie fosse stato lasciato nel cassetto a prendere polvere. Sbagliato. Si tratta, invece, di un documento storico che testimonia di come il cinema indipendente in un decennio sia cambiato, mutato, evoluto; e di come, per realizzare un film super low budget, “solamente” dieci anni fa fossero necessari sforzi e mezzi differenti anche nell’autoproduzione, per ottenere risultati che oggi il computer può permettere di “sistemare”. Si pensi a tutte le sequenze notturne, ad alcuni effetti digitali o a qualche sequenza splatter che nel film di certo non manca.
Perché Cavie è sì un saggio di fine corso, ma anche (se si entra nell’ottica di valutarlo come saggio di fine anno) un simpatico omaggio a tanto cinema di genere italiano, scritto in fretta e furia, ma con grande inventiva in relazione ai pochi mezzi a disposizione. Certo, la sceneggiatura è imbastita alla buona, la durata è eccessiva (circa 105 minuti), la recitazione casereccia di molti studenti – con tanto di inflessioni regionali ben evidenti – non aiuta. Tutto vero. Ma ci si diverte, ci si sente spesso sul set e la libertà realizzativa fa percepire senza distanza come l’opera sia stata portata a termine. Ci sembra di “essere tra di loro”, di partecipare al prodotto e, al contempo, di comprenderne le dinamiche realizzative.
Cavie va oltre il film girato nei boschi tra amici nei fine settimana. Ci sono scene d’azione, momenti sanguinolenti che ricordano il fenomeno cinematografico gore tedesco1 e sequenze nei laboratori che riportano alla mente dello spettatore il cinema post-atomico anni Ottanta, seppur contaminato dall’esplosione del fenomeno dei reality show (siamo pur sempre sul finire degli anni Dieci, con un boom di Grandi Fratelli in ogni declinazione). È un survival-movie con telecamere ovunque, posizionate in un luogo chiuso non ben identificato a osservare le azioni e reazioni degli esseri umani di fronte alla necessità di sopravvivenza del più forte, occhieggiando film come The Condemned. L’isola della morte di Scott Wiper (2007) o Battle Royale di Kinji Fukasaku (2000). Da riscoprire in home video, ora che è possibile.
Note
1 Scrivendo della scena gore teutonica si fa riferimento a una particolare tendenza sviluppatasi in seno al cinema underground tedesco tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Trattasi di un fenomeno cinematografico che ha avuto in Jörg Buttgereit l’alfiere di punta – con opere apripista quali Nekromantik (1987), Der Todesking (1989) e Schramm (1993) – e in Olaf Ittenbach (Black Past [1989], Premutos – Der gefallene Engel [1997]) e Andreas Schnaas (Violent Shit [1987], Antropophagus 2000 [1999]) i nomi più interessanti. Quello del gore tedesco resta tuttora un versante poco esplorato a livello storicistico e analitico.
CAST & CREDITS
Regia: Manetti Bros.; soggetto: Manetti Bros.; sceneggiatura: Manetti Bros.; fotografia: Manetti Bros.; scenografia: Marco M. Piacente; costumi: Patrizia Mazzon; montaggio: Federico Maria Maneschi (come Federico Maneschi); musiche: Aldo De Scalzi, Pivio; interpreti: Alexandra Antonioli, Janet De Nardis, Fabio Ferrante, Elena Lyshchik, Alessia Forcinelli, Marco Valerio Mancini, Claudia Federica Petrella, Simone Traettino, Paco Rizzo, Barbara Saba, Cosimo Cinieri, Guglielmo Favilla; produzione: DarkSide, Centro Sperimentale di Cinematografia, Scuola di Cinema di Roma; origine: Italia, 2009; durata: 105’; home video: Blu-ray inedito, dvd Home Movies; colonna sonora: I dischi dell’Espleta.