
«Spariti, inghiottiti nel nulla… probabilmente morti.»
Orph scagliò contro la parete il suo LogoMatic: «Non è possibile… l’equipaggio aveva il Vitae, se fossero morti tutti il segnale sarebbe cessato. Ma non lo è. Il segnale c’è… nitido».
«Può essere una deriva… insomma, l’effetto pseudo-volano.»
«No, non penserai che accetti una spiegazione da libretto di istruzioni.»
Il Loricato alzò le spalle: «Non devo convincerti. Conosci bene la situazione. Io non so che altro pensare. Ma puoi star certo che non abbandonerò il mio sub-equipaggio senza aver fatto di tutto per rintracciarlo».
Orph portò le mani al viso, gli riusciva difficile trattenere lo sconforto: «È… è la mia alter-ego… la donna che amo».
Il superiore chinò il capo: «Lo so. Ma devo seguire il protocollo. Se hai un’idea, una qualsiasi folle, stupida, banale idea, tirala fuori».
L’altro non rispose. Si limitò ad annuire, con un lieve cenno del capo. Poi, tornò al suo posto di controllo. Non si sarebbe mosso di lì sino a quando non fosse riuscito a ritrovarla.
La COLOSSEUS era una modesta nave da Riporto, una di quelle che pattugliano un determinato settore dello spazio per recuperare relitti o naufraghi o qualsiasi altra cosa persa nell’infinito circoscritto. Per carità, pattugliava un Settore di tipo B3, ma gli uomini dell’equipaggio sapevano far bene il loro lavoro. Era dotata di due Iper410, motori un tantino datati ma di un’affidabilità indiscutibile, un armamento da farsa e tre navicelle da Recupero. Una di queste era stata sparata verso un sistema solare binario dal quale era giunta la richiesta di soccorso. Con a bordo la sua donna e altri tre membri dell’equipaggio. Non era più tornata, scomparendo nello spazio soffocato dalla materia oscura.
«Nel mio paese natale, sulla Terra 7, è proibito che componenti della stessa matrice viaggino sulla medesima nave.»
«Non far finta di non ricordare che ci siamo conosciuti in Diporto. Da allora non ti ho mai lasciata.»
L’immagine virtuale di Ewa, la sua donna, lo attraversò, per collocarsi tra lui e l’olo-schermo: «Certo che lo rammento. Ma ora devi riposarti, le tue funzioni vitali sono al limite del collasso».
«Io ti troverò, ovunque tu sia. Ti troverò.»
«Riposa.» E cominciò a parlargli con dolcezza, come faceva ogniqualvolta lo stress era stordente. L’uomo stava per chiudere gli occhi, quando dall’auricolare giunse il fastidioso ronzio di una chiamata. Era l’addetto alle trasmissioni: «Orph, ascolta… l’ho appena catturata».
La registrazione passò in circuito. Rumori di fondo, anche l’eco del Big Bang a disturbare, e il chiacchiericcio delle stelle. Poi si udì: «…Qui è l’inferno… è l’inferno…Orphy… ti amo…».
Silenzio.
Il bip del Vitae cessò.
No, non poteva essere morta. C’erano mille ragioni perché il Vitae cessasse di funzionare, anche se in quel momento non gliene veniva in mente nessuna. L’extraphon aveva catturato quell’ultima comunicazione, esattamente nell’area di intervento. Ma lì non c’era più nulla. Nulla.
«Rassegnati, il segnale del Vitae era una semplice eco.»
«Soltanto la morte mi indurrà alla rassegnazione.»
«L’hai trovata, la morte.»
C’è, nel cuore di ciascuno, un secondo cuore, più piccolo e tenace, quello della speranza, un tempietto microscopico che nulla riesce a demolire. Sapeva che la sua donna non era morta – non per caso era la sua alter-ego. Se fosse davvero… morta, qualcosa dentro di lui si sarebbe spezzato. Atropo non avrebbe tagliato soltanto il filo di Ewa, ma ridotto il suo a un sottilissimo canapo. E lui se ne sarebbe accorto.
«Devi dormire, amore mio.»
Non rispose, anche perché sapeva che l’immagine virtuale aveva ragione. Ma la ragione è per i matematici, per i fisici, la ragione è per i tecnici senza cuore. Lui, invece, dava ascolto ai suoi due cuori.
Dopo quindici ore davanti all’olo-schermo, svenne.
Fu il bip a svegliarlo.
Sognava… no, era proprio il Vitae. Si era rimesso a funzionare. Impossibile… impossibile, lei… morta… non poteva tornare in vita.
Bip… bip… bip…
Puntò il captatore. Non c’erano dubbi. Il segnale proveniva dal sistema binario verso il quale la navetta di Recupero 2 si era diretta. Impossibile. Secondo la loro infallibile strumentazione, nello spazio lì intorno il velivolo non c’era più. Era la maledizione di quelle macchine: non potevano mai sbagliare.
«Come lo spieghi?»
Il Loricato tornava spesso a trovarlo. L’assistenza psicologica faceva parte dei suoi vari compiti. «È la prima volta che accade una cosa del genere.»
«Avviciniamoci.»
«D’accordo, ma fino a quando non capiremo cos’è accaduto non voglio che nessun’altra navetta esca.»
Orph annuì. Lui avrebbe fatto lo stesso.
Si sentiva rinascere. Il segnale stava comunicandogli che la sua donna era ancora viva. E lui l’avrebbe trovata. Cominciò a restringere il raggio d’azione del captatore. Ma egualmente ci sarebbero voluti anni per esaminare l’intera sezione. E lui non aveva che poche ore. Doveva fare qualcos’altro. Non si rese conto del tempo ch’era passato. Stava rompendosi il capo alla ricerca di una soluzione, quando il bip cessò.
Cinque ore dopo riprese.
«Tao.»
L’addetto alle Intercettazioni rispose subito: «Cosa c’è?».
«Ho bisogno di sapere quanto tempo è trascorso tra il segnale che hai catturato, quando il Vitae si è spento, e il suo successivo riattivarsi.»
Passarono pochi secondi: «Quattro ore, cinquantotto minuti e trentasette secondi. Standard, ovviamente».
«E fino alla successiva cessazione?»
Passarono nuovamente pochi secondi: «Lo stesso».
«Scommetto che tra la seconda cessazione e il suo ritorno, poco fa, sono passati…»
«Idem. 4 h, 58 m, 37 s.»
«Una rotazione.»
«Azzeccato, fratello. Azzeccato.»
C’erano due soli, diciotto pianeti, tre pianeti nani e un numero impressionante di satelliti e altre rocce nello spazio del sistema.
Cominciò a escludere quelli più grandi – la loro velocità di rotazione sarebbe stata pazzesca per compierne una in cinque ore.
«Ma perché insieme al Vitae non captiamo anche il segnale della navicella?»
Il Loricato scosse il capo: «Non lo so. Può essere precipitata, tutto potrebbe essere andato distrutto. O nascosta da qualcosa che impedisce al segnale di tornare a noi». Si accarezzò il mento ispido e continuò, a voce bassa: «Ma devi essere ragionevole. Quel Vitae può essere di uno solo dei quattro, hai il 25% di possibilità che sia di Ewa».
«È un pensiero che mi tormenta, lo so. Ma potrebbe essere il segnale sincrono di tutti e quattro, particolarmente vicini. E in una navetta si sta gomito a gomito.»
«Anche questo è vero.» Poi, mutando tono, aggiunse: «Mi metto all’altro Rilevatore. In due facciamo prima».
Orph gli rivolse uno sguardo riconoscente.
Nessuno. Né un pianeta né un satellite né una qualsiasi roccia che sporcava lo spazio del sistema solare binario avevano una rotazione di cinque ore.
Gli venne quasi da piangere, aveva sperato che… forse la navetta era atterrata su uno dei corpi solidi e, ogni volta che questo ruotava dalla parte opposta, il segnale si interrompeva. Per poi riprendere quando i loro captatori erano a vista.
Ma era impossibile. Il superiore aveva ragione. Una navetta avrebbe potuto trovarsi su uno di quei pianeti soltanto se vi era precipitata. Non aveva razzi di frenata, né era adatta a muoversi in presenza di gravità. Si sarebbe spiaccicata al suolo. E ogni segno di vita sarebbe cessato.
Chiuse gli occhi. La stanchezza gli dava le allucinazioni. Aveva spento il Virtuale, eppure gli sembrava di vedere Ewa davanti a lui, bellissima come sempre. Sono qui… vienimi a prendere… sono qui.
«Arrivo.»
Aprì gli occhi. Si era addormentato. Controllò l’orologio. Erano passate circa ventiquattr’ore dalla scomparsa. Troppo, anche se la navetta aveva un’autonomia doppia. Questo pensiero lo riportò alla realtà. Gli divenne ben chiaro l’LdS, il Limite di Sopravvivenza.
«Avviciniamoci» ordinò al Pilota.
L’altro emise un profondo sospiro, ma fece passare una decina di secondi prima di rispondere. Probabilmente aveva atteso una conferma fonica del Loricato.
«Restringerei il capo d’azione.»
«Avvicinati di 3.1 pico parsec.»
Vide il sistema binario ingrandirsi. Non ci volle molto. Erano quasi dentro.
Fu allora che notò qualcosa di strano. Il sole più piccolo emetteva del fumo…
«Con lo spettrometro di massa?»
«Sì, magnetico.»
«Ne sei sicuro?»
«Guarda tu stesso i dati.» E fece scorrere sull’olo-schermo le sinusoidi affastellate.
«Il densimetro?»
«Ha dato conferma.»
Davanti a loro il sistema binario sembrava un’enorme giostra quasi circolare. L’unico elemento di disturbo era il secondo sole, di gran lunga più piccolo di quello dominante, alla cui corte si era aggregato.
«Quindi, mi stai dicendo che…»
«…che quello non è un sole, ma un pianeta che brucia. Un pianeta dotato, all’interno, di enormi cavità.»
L’altro scosse il capo: «La tua ostinazione sta dando qualche frutto…».
«E non è tutto. Ha una rotazione di 4 h, 58 m e 37 s.»
«Te lo scordi.»
«Dammi un’alternativa.»
«Resteremmo quasi indifesi.»
«Ho detto: dammi un’alternativa.»
Il Loricato imprecò nella sua incomprensibile lingua madre; poi, allargò le braccia, in segno di resa. Sapeva bene che Orph non avrebbe mollato.
La COLOSSEUS disponeva di un Manta, una navetta piatta, autonoma, in grado di spostarsi anche in presenza di gravità e munita di un paio di cannoncini. Roba da tiro al piccione, nulla di che. Ma pur sempre armi.
«Oltre a te, c’è posto per un solo passeggero.»
«Quando li ritroverò, li riporterò su uno alla volta. Questo piccolo motore può essere ricaricato all’infinito.»
«Se li ritroverai.»
«Quando…»
Un’improvvisa frenesia si era impadronita di lui. La stanchezza, lo stress, l’ansia… tutto scomparso. Lì c’era la sua donna. Ne era certo. E lui l’avrebbe ritrovata. Raccolse un Emettitore che teneva sempre a portata di mano e raggiunge l’armeria. Prese due pistole SW da 12 che mise al fianco, e altre due da 48 che inserì nelle tasche magnetiche occulte dietro le spalle, ai lati dell’erogatore. Infilò un lungo coltello nello stivale di destra e si mise a tracolla un fucile TT777 a puntatore a laser giallo.
«Vuoi scatenare una guerra privata?»
«Se qualcuno laggiù ha torto un capello a Ewa, non voglio neanche dargli il tempo di pentirsene.»
Il Loricato si limitò a dire: «Cerca di tornare. Con o senza…».
Orph scosse il capo. E il superiore capì che l’avrebbe rivisto soltanto con.
Il Manta lasciò la COLOSSEUS e puntò verso il piccolo sole che sole non era.
Man mano che si avvicinava, ne ebbe la conferma visiva. Quello che era sembrato un sole gemello era un pianeta ardente. Un pianeta una volta abitato. Si scorgevano strutture metalliche, che forse un tempo svettavano fiere, ma in quel momento piegate in due o crollate tra le altissime fiamme feroci che sembravano non estinguersi mai. Non stette a chiedersi come potesse un pianeta bruciare in quel modo. Forse c’erano sacche di gas al suo interno che fornivano il combustibile. Ma doveva esserci anche il comburente, l’ossigeno, altrimenti le fiamme non si sarebbero sviluppate. Ecco, aveva davanti a sé quello che una volta doveva essere stato un pianeta brulicante di felici abitanti.
Di lì era partito il maledettissimo segnale di soccorso.
Evitò di lasciarsi distrarre da quei pensieri e seguì il bip che lo guidava. Sincronizzò il Manta sulla rotazione e cominciò a scendere. Fu allora che vide una macchia scura oblunga tra le fiamme. Ingrandì il visore ottico al massimo. E annuì. Era appena una fessura, (ma) eliminare il ‘ma’ sufficientemente ampia da permettere il passaggio del suo velivolo, ma anche della navetta. Oltre si scorgeva soltanto il buio. Inserì il rilevatore Echo. Con un tuffo al cuore, in quel preciso momento seppe che la navetta di Ricerca scomparsa era lì dentro.
Non ebbe un attimo di esitazione. Vi si infilò, rasentando l’incoscienza.
La vide subito. Era agganciata a una grossa rete appesa a una serie di piloni metallici. Pendeva, inerte, a pochi metri dal suolo. Atterrò su uno spiazzo che pareva adatto allo scopo. I rilevatori gli dissero che l’aria era respirabile. Logico, visto che c’erano fiamme fumose anche laggiù. Tolse il casco, che lasciò sul sedile accanto, aprì la calotta e balzò fuori. La bio-tuta aderiva perfettamente al suo corpo, permettendogli di muoversi con la consueta agilità. Fu il fetore a colpirlo subito. Di putredine, carne bruciata e plastica fusa. Doveva fare attenzione. La diossina sprigionata dalla plastica bruciata era mortale. Con un gesto dettato dall’addestramento, mise la mascherina-filtro. Ma aveva altro cui pensare che alla propria vita.
Si guardò intorno. Si trovava in una struttura che di alieno aveva ben poco. Sembrava una base militare dismessa e in completo abbandono. Parti metalliche si ergevano dappertutto, circondate da fiamme più contenute di quelle all’esterno, ma pur sempre affamate. Si cibavano di tutto, illuminando a giorno l’ambiente. Sembrava non esserci nessuno, ma l’addestramento gli impose la prudenza. Una specie di strada grigiastra portava verso l’interno. Dopo una cinquantina di metri compiva una curva, sparendo alla vista. In alto, centinaia di meccanismi pendevano inerti, alcuni a pezzi, altri mantenendo quella che doveva essere la loro forma originale. Grosse voragini e buchi di ogni dimensione si aprivano nelle pareti laterali e nella roccia scavata. Lì dentro doveva esserci stata una furiosa battaglia. Eppure mancavano i cadaveri. A meno che non si fossero dissolti. Ma ci credeva poco. Tirò fuori una delle pistole che portava alla cintura e si avventurò lungo la strada, mantenendosi sulla destra. Quando svoltò, non seppe trattenere un’espressione di stupore. C’era una piccola città, lì dentro. Ma a colpirlo fu il fatto che le strutture fossero state erette con materiale di scarto, raccattando quello che si trovava in giro. Lamiere contorte, pannelli fotovoltaici divelti, lastre di iperglass opacizzate da violentissimi colpi termici. Era, insomma, una sorta di baraccopoli tecnologica. E fiamme ovunque, quasi la minuscola città galleggiasse su un mare di liquido infiammato.
Percepì un movimento con la coda dell’occhio.
Si girò di scatto a sinistra, puntando la pistola.
Ciò che vide gli fece rivoltare lo stomaco.
«Chi sei?» La voce che quell’essere emetteva era grave, stentorea, sicuramente modificata da un traduttore laringeo.
Orph restò qualche secondo a fissarlo, prima di rispondere. Sembrava umano nella parte superiore, forse una volta era appartenuto al ceppo antropomorfo. Cranio oblungo, a rammentare quello degli dei dell’antico Egitto. Calvo, con piccole orecchie a padiglione. Aveva occhi ampi, adatti al buio, e un naso che sembrava un brulichio di vermi in perpetuo movimento. La bocca era intubata. Rotonda, e priva di denti.
La parte inferiore era composta da un busto metallico retto da quattro arti a zampe di ragno. Le terminazione nervose del corpo biologico erano collegate a fili e parti metalliche. Si scorgevano ingranaggi e tubicini entro i quali circolava quello che doveva essere sangue, oppure una miscela di sangue e lubrificante.
«Cerco la mia donna.»
L’essere annuì gravemente: «Sei venuto qui… all’inferno… per… una donna?»
«Che ne sai tu dell’inferno?»
«La donna… lei non ha fatto altro che parlare dell’inferno. E della morte. Non so cosa sia l’inferno, ma ho capito che è peggio della morte.»
«Dov’è?»
L’ibrido sollevò una mano, indicando una grata a ridosso della parete rocciosa.
Orph fece per muoversi, ma una fiammata proveniente dalla parte metallica del mezzo-uomo lo costrinse a bloccarsi.
«Non puoi andare, se non lo voglio io.»
«Non costringermi a obbligarti.»
«Sei disposto a mettere a rischio la tua vita?»
«Se sono qui, è…»
«Perché?»
«Per amore.»
Alcune scintille scaturirono dalla parte metallica dell’essere. Che ondeggiò, per poi esalare: «Amore… ricordo… era… era una cosa… meravigliosa».
«Allora, lasciami passare.»
Il mezzo bio emise quello che sembrava essere un profondo sospiro, per poi dire: «Lascia il fucile, le tue pistole, e vai».
Non ci pensò due volte. Gettò via le armi e si precipitò verso la grata. Guardò oltre.
Ewa era distesa su un rozzo pagliericcio.
Sembrava morta.
Fece un balzo indietro. La grata si sollevò con uno stridore doloroso.
Si gettò verso di lei, che aprì gli occhi e lanciò un urlo. Di gioia.
«Orphy… come…»
Gettò via la mascherina e quasi la soffocò con un lungo bacio.
«Non avevo dubbi… sei viva… viva…»
Il rumore della grata che si stava chiudendo lo scosse. Non perse un istante. Afferrò il lettino metallico e lo infilò sotto le sbarre, bloccandone la discesa. Poi trascinò fuori la sua donna.
«E gli altri?» chiese, mentre la grata piegava il lettino, chiudendosi alle loro spalle.
«Uccisi. Mangiati» disse, con un moto di disgusto. «Qui è l’inferno… amore mio… l’inferno.»
«Ti porterò fuori, fosse l’inferno vero. Ma perché ti hanno lasciata in vita?»
La voce dell’essere macchina risuonò, ancor più cavernosa: «Perché questa è una trappola. E lei era l’esca».
Uscivano da fosse e anfratti nella roccia, strisciando, zampettando, rotolando. Erano… erano… Orph non riusciva a trovare un termine che potesse definirli. D’un marrone molto scuro, avevano chi due, chi tre, chi più arti, erano esseri bio, ma d’indefinibile matrice. Membra artigliate e un capo mostruoso con occhi enormi e una bocca irta di denti acuminati. Erano dappertutto.
«Cosa vuoi?»
L’essere si era avvicinato: «Andare via di qui. Quella» e indicò la navetta catturata dalla enorme rete, «non è capace di sollevarsi dal suolo. Ma la tua può farlo. Devi portarmi sulla Nave Madre. Ho bisogno di conquistare un nuovo mondo.»
«Pisciando fiamme?»
L’essere parve sorridere. Poi, uno scomparto laterale dell’emibusto metallico si aprì e qualcosa d’invisibile ne venne fuori. Sibilando, colpì una parete rocciosa lontana. L’impatto fu tremendo. La parete venne giù, insieme a parte della volta, seppellendo mezza città. «È un’arma a base di Suono Freddo. Migliaia di miei simili aspettano nelle grotte. Una nuova possibilità.»
«Devi essere pazzo.»
Intanto, gli esseri mostruosi si avvicinavano. La ragazza si strinse a lui. Ma non era spaventata, quasi volesse difenderlo. Orph ne fu orgoglioso.
«Non farò mai nulla di simile.»
«Sì che lo farai.»
«Cosa ti dà tanta certezza?»
«Faresti qualsiasi cosa per amore della tua donna.»
Orph non seppe cosa replicare. Era semplicemente vero.
Alla loro sinistra, l’ibrido sbarrava la strada verso il Manta, dietro la curva. A destra e di fronte i mostri si stavano addensando. Non c’era via d’uscita.
Orph sussurrò qualcosa a Ewa e concluse: «Al mio tre, chiudi gli occhi».
Lei annuì.
Prese dalla tasca una mina e l’Emettitore che aveva portato con sé. Spinse i pulsanti superiori: «Uno, due… tre».
Ci fu uno scoppio. Di luce intensissima.
Seguito da Ewa, Orph si mosse verso sinistra. Dalle urla dei mostriciattoli capì di averli accecati, almeno per un po’. Anche l’ibrido aveva occhi grandi. Ma i due umani non avevano fatto i conti con le membrane nittitanti che, alla velocità del pensiero, si erano chiuse. L’essere composito si parò loro davanti. Parve sorridere, scuotendo il capo: «Un tentativo banale». Poi indurì il tono della voce sintetica: «Tu, donna, resta dietro. E tu, uomo, conducimi alla tua nave».
«Non ti ci porterò.»
«Lo farai, mi lascerai nella Nave Madre e potrai tornare a prendere la tua donna.»
«Non mi fido.»
«Non hai scelta. Ora cammina un solo passo davanti a me. E non tentare l’impossibile, ti ridurrei in cenere.»
Lui obbedì, mentre Ewa rimase indietro, circondata dai mostri.
«Non ti voltare» mormorò l’ibrido, «o la sbraneranno.»
Orph camminava lentamente. Alle sue spalle, i mostri si muovevano, seguendolo a una ventina di metri.
Raggiunsero la curva. Oltre c’era la navetta.
Si fermò. L’ibrido gli fu subito a fianco: «Non fare pazzie».
«Non me ne andrò senza di lei.»
L’altro non rispose. Eruttò un ordine. L’urlo della donna risuonò nell’antro.
Fu allora che Orph notò un movimento alle spalle dell’ibrido, dietro alcune rocce. Era il momento giusto. Si chinò e, lentamente, estrasse il lungo pugnale.
«Cos’è?» chiese l’alieno.
«Un’arma.»
L’altro singhiozzò una risata: «Non ha alcuna fonte di energia».
«Sì che ce l’ha. È tutta nel mio braccio.» E piantò l’affilatissima lama nella sua gola.
L’essere sgranò gli occhi, incredulo, gorgogliando: «Sei… pazzo… soltanto io… potevo controllarli…». Morì affogato nel suo sangue-lubrificante.
Orph si girò lentamente.
I mostri erano addosso alla sua donna, che urlava, colma di raccapriccio. La circondarono del tutto.
Allora sorrise.
Portò le mani alle spalle e smagnetizzò le due SW 48 nascoste.
Col viso illuminato da una gioia furibonda, riversò un diluvio di fuoco su quegli aborti.
Il Manta si avvicinava velocemente alla COLOSSEUS. Ewa aveva dato le indicazioni logistiche al Loricato, che aveva subito richiesto l’intervento di due incrociatori spaziali per annientare quel potenziale pericolo.
Si rifugiò tra le sue braccia.
«Come hai fatto a pensarci?»
Orpheus alzò le spalle: «La mina a luce variabile in dotazione».
«Sì, sei stato abile. Ma sai che mi riferivo all’Emettitore di Virtuali.»
L’uomo sorrise e la baciò, poi disse: «Io non vado da nessuna parte senza di te. Anche se soltanto come… ologramma. Dovrò ordinare un nuovo Emettitore personalizzato, quegli aborti me l’hanno rovinato».
E scoppiò in una gustosa risata, pensando ai mostri di cui aveva fatto strage, mentre si scagliavano contro un’immagine fatta di nulla.