Il mito dello spazio, da Bradbury a «Interstellar»
Gianfranco de TurrisHo visto Interstellar, anzi, sono stato indotto a vederlo, sotto la suggestione di una raccolta d’interviste a Ray Bradbury – dodici, nell’arco di sessant’anni – uscite per Edizioni Bietti col titolo Siamo noi i marziani, che ho co-curato, insieme a una giovane traduttrice, e introdotto. In effetti, alla luce di quanto lì afferma il grande scrittore morto nel 2012, il film di Christopher Nolan si rivela essere del tutto “bradburyano”. L’ho visto in quest’ottica, tralasciando le polemiche che lo hanno coinvolto e su cui dirò a conclusione di questi appunti. Interstellar parla di un’umanità che abita una Terra morente, confinata in mezzo al “fango” (come dice il protagonista) perché ha rinunciato volutamente allo spazio, alle stelle: alcuni disastri tecnici e la considerazione dei finanziamenti alla NASA come soldi sprecati costringono l’ente addirittura alla macchia, alla clandestinità. Le parole di Joseph A. Cooper, protagonista del film, richiamano in più punti quelle di Bradbury. Ex pilota spaziale, deve affrontare chi a livello scolastico, in base a note teorie complottistiche, non crede si sia mai giunti sulla Luna, riscrivendo i libri di testo e chiamando l’Apollo «un’assurdità». Nel colloquio con l’ex pilota, l’insegnante di sua figlia definisce astronavi e razzi come macchine inutili, aggiungendo: «Dobbiamo insegnare la Terra ai nostri figli, non come abbandonarla».
«Siamo una generazione di guardiani» chiosa il preside. Riferendo l’episodio al padre della defunta moglie, Cooper, indignato, reagisce: «È come se ci fossimo dimenticati chi siamo – esploratori, pionieri, non guardiani. Un tempo, per la meraviglia, alzavamo lo sguardo al cielo, sentendoci parte del firmamento. Ora, invece, lo abbassiamo, preoccupati di far parte del mare di fango».
Così, invece, l’autore delle Cronache marziane commentava i tagli alla NASA: «Com’è possibile che preferiamo guardarci la punta delle scarpe piuttosto che la grande nebulosa di Orione? Come mai abbiamo perso la Luna e siamo tornati indietro da Marte? Il problema è costituito, naturalmente, dai nostri politici, uomini che non hanno poesia nel cuore, né sogni nella testa. Giunti sulla Luna, la poesia ha iniziato a svanire. E, senza poesia, i sogni non durano. Abbiamo bisogno dello spazio per una serie di motivi che non abbiamo ancora scoperto» (1996). I toni sono pressoché identici.
Sono due temi “alla Bradbury”, che nelle interviste critica sia la “dittatura delle minoranze”, che fanno correggere i libri in base ai loro pregiudizi ideologici, sia la riduzione dei fondi all’ente spaziale americano, l’interruzione dei voli, la fine di un sogno nato negli anni Sessanta, quando, nel 1986, dopo il disastro del Challenger un’ossessiva campagna mediatica mandò in crisi il progetto. Cosa che si sta ripetendo oggi se, come pare, nell’estate del 2014 la NASA ha annullato il programma per far tornare l’uomo sulla Luna.
Eppure il nostro destino, dice il famoso autore di fantascienza, è tra le stelle. Qui si trova la nuova frontiera dove verremo messi alla prova, dove si svilupperà una nuova religiosità, perché abbiamo bisogno di miti: «Prima di quanto pensiamo, l’uomo lascerà il pianeta Terra e s’inoltrerà nello spazio, in un nuovo e meraviglioso viaggio verso l’ignoto. Credo che i viaggi nello spazio ci daranno una nuova immagine di Dio. L’uomo deve diventare pari a Dio. L’uomo è una fusione di umano e divino. Credo che il nostro corpo contenga la vera anima di Dio. Noi siamo, irrevocabilmente e responsabilmente, il Dio stesso incarnato e dobbiamo portare il suo seme nello spazio» (1972).
Nel film si vede proprio questo: l’equipaggio dell’astronave va in cerca della “nuova frontiera”, un pianeta abitabile per gli emigrati dalla Terra morente. Ne visita altri due, piuttosto inospitali, fino all’epilogo conclusivo. E l’esodo dell’umanità è un altro tema tipico di Bradbury – basti pensare alle Cronache marziane. Lo scrittore statunitense critica anche il politicamente corretto, il buonismo e l’ipocrisia: quella che, nel film, potrebbe causare il disastro della missione, con la figura del dottor Mann che dice di aver trovato un pianeta abitabile (il secondo visitato) ma mente, pensando solo a salvare se stesso.
Una delle tematiche di fondo di Bradbury è la famiglia. Interstellar è una sua difesa: dopo la morte della moglie, l’ex astronauta si occupa dei figli e li protegge, mentre questi restano in contatto con lui ad anni-luce di distanza, con il tempo che passa velocemente per loro e lentamente per il padre. Il figlio, Tom, si scoraggia, ma la figlia Murphy, pur non avendo più notizie da lui, si batte, laureandosi in fisica e lavorando alla NASA, per trovare il modo di risolvere una equazione gravitazionale fondamentale per capire i paradossi del viaggio galattico. La scena finale, col padre – la cui età è rimasta immutata – che incontra la figlia ormai centenaria, è un’altra prova di questo legame, che supera lo spazio-tempo.
Uno dei più famosi temi di Bradbury è costituito dagli alieni “buoni”: ebbene, alle spalle delle sorti dell’umanità e dell’astronave di Interstellar in viaggio verso l’ignoto vegliano proprio questi alieni (“Loro”), che forse hanno addirittura creato il buco spaziotemporale (il wormhole) e che, nella parte finale del film, trovano la soluzione ai problemi che affliggono l’umanità. Sono forse gli uomini d’un lontanissimo futuro, come pensa Cooper? In tal caso, non cambierebbe molto: è l’idea di una entità che ci sorveglia e protegge che qui conta…
Anzi, a maggior ragione: se i marziani di Bradbury in fondo siamo noi – come lo scrittore dichiarò a un giornalista di «Playboy» nel 1996 – allo stesso modo questi misteriosi “Loro” potrebbero forse essere una proiezione nostra, il nostro io futuro. A questo proposito, nel 1949 lo scrittore pubblicò un racconto, Telefonata notturna, poi inserito in Io canto il corpo elettrico!, dove un bambino parla al telefono con il proprio alter ego del futuro.
Il che ci riporta a un’altra tematica cara al Nostro: il viaggio nel tempo. Ma, attenzione! Il colpo di genio di soggettisti, sceneggiatori e regista è che questo viaggio è indietro, non avanti, e andando a ritroso non modifica il futuro ma lo crea, lo realizza, senza successive interferenze, dandogli il la, facendo cadere i libri della biblioteca e indicando la direzione della sede nascosta della NASA; poi, suggerendo a Murphy come sciogliere la famosa equazione irrisolvibile e permettendo all’uomo di viaggiare (ed emigrare) fra le stelle.
Ciò avviene grazie alle cinque dimensioni del tesseratto, il cui centro è una biblioteca, crocevia dimensionale e temporale del sapere, una specie di Aleph borgesiano, altro luogo-simbolo essenziale per Bradbury, la cui realizzazione nel film fa pensare ai mondi matematici di Escher. La funzione della biblioteca è centrale nella formazione dell’autore delle Cronache marziane, che odia le università, afferma come lì non si possa imparare a scrivere e sceglie la biblioteca, nella quale un autodidatta può decidere cosa leggere, senza che vi sia qualcuno a porre dei veti: «Non sono mai andato all’università. Andavo in biblioteca quando ero alle elementari a Waukegan, al liceo a Los Angeles, trascorrendovi intere giornate d’estate. È molto più divertente che andare a scuola, semplicemente perché si può scegliere cosa leggere senza dar retta a nessuno. Quando vedevo certi libri che le mie figlie erano obbligate a portare a casa e a leggere, perché poi le avrebbero interrogate, pensavo: “E se non vi piacciono?”. Sono un bibliotecario nato. Mi sono scoperto in biblioteca. Mi sono trovato in biblioteca. Quando cominciai a innamorarmi delle biblioteche, ero un ragazzino di appena sei anni. Mi sono reso conto che è la biblioteca la vera scuola» (2010).
Ecco perché definisco Interstellar un film “bradburyano”, forse indipendentemente dalle intenzioni dei suoi autori, pur non essendo privo di omaggi ai classici della fantascienza filmica, da 2001. Odissea nello spazio (con il computer CASE, che di certo assomiglia e migliora l’HAL 9000) a Guerre stellari (con il tipo di navetta sulla quale, a conclusione della pellicola, il protagonista parte per andare in cerca della sua bella, con alle spalle, nella cabina di pilotaggio, TARS, la parte mobile del computer).
Il film ha ricevuto molte critiche, cui accennavo all’inizio, per la sua poca verosimiglianza scientifica – anzi, per i suoi errori. Verrebbe voglia di dire: embè? Anzi: chissenefrega!
È una vecchia storia, questa: anzitutto, siamo di fronte a un film o a un romanzo e non a un documentario scientifico, o a un saggio di Hawking (che, comunque, non è il Vangelo e ha ridiscusso certe sue teorie). È cinematografia o narrativa di fantascienza, non un trattato di astrofisica o cosmologia.
La fantascienza, come dice il termine italiano, ha una parte fanta: dove sta allora lo scandalo? Ma il termine originale, si dirà, è science fiction, vale a dire narrativa scientifica, o, meglio, a sfondo scientifico, che racconta di fatti scientifici. Ma è la stessa cosa, e in merito ho pubblicato un articolo su «Urania» (n. 1598, settembre 2013) intitolato, appunto, Fantascienza: una questione etimologica (scusate l’autocitazione). Il fatto che molti dimenticano è che il “padre della fantascienza”, Hugo Gernsback, che nel 1926 pubblicò la prima rivista specializzata, «Amazing Stories» (“storie sorprendenti” o “meravigliose”, non certo “scientifiche”), nel suo “manifesto programmatico” fece riferimento a tre ispiratori del nuovo genere letterario: Verne, Wells e Poe, un francese, un inglese e un americano, autori di storie simili ma diverse fra loro, soprattutto Poe, che di vera e propria scienza nei suoi racconti e nel suo unico romanzo non ne mise poi tanta – e, se lo fece, non scelse di certo quella ortodossa – ma, al contrario, sconfinò nel fantastico, nell’onirico, nella metapsichica (oggi parapsicologia), nell’occulto e nel sovrannaturale. Tutte cose che farebbero storcere il naso (anzi, inorridire) ai fantascientisti “ortodossi” odierni; eppure, guarda un po’, Gernsback poneva Poe tra i “padri fondatori” del genere da lui battezzato scientific fiction, poi scientifiction e, infine, science fiction.
A mio giudizio, se si vuole ridurre la fantascienza a narrativa di stretta divulgazione scientifica, di sola previsione del futuro o d’informazione sullo sviluppo delle scienze esatte, si commette un errore madornale. Non solo ponendosi il problema: e se poi non azzecca, che si fa?, ma anche considerando che, alla fine, ci si costringerebbe a non considerare come vera fantascienza la quasi totalità della produzione che va sotto questa etichetta. Tanto che, per uscire dall’impasse, non ricordo più quale autore americano propose di «considerare science fiction tutto quello che viene definito science fiction»!
La vera caratteristica della fantascienza è il sense of wonder, quel senso del meraviglioso che gli appassionati americani videro nelle opere e nelle riviste pubblicate fra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento, ma che si può estendere a tutto il genere. Non solo quella delle origini o della giovinezza di molti lettori presi dalla nostalgia deve suscitare quelle sensazioni, ma tutta. Una narrativa a sfondo più o meno scientifico-tecnologico incapace di suscitare nei lettori il senso del meraviglioso ha fallito nel suo scopo. A mio modesto parere, Interstellar lo suscita di certo, indipendentemente dal fatto che alcune idee spettacolari del regista, come il pianeta che orbita attorno al buco nero, non siano scientificamente plausibili, e indipendentemente da alcune lungaggini della trama.
Concluderei con un’alzata di spalle.