The Woman Who Left. «There’s a place for us»
Lav Diaz n. 3/2017di Giulio Sangiorgio
«Perdonami, perdonami per l’amor di dio.
Confesserò di aver ucciso il mercante e tu sarai graziato. Tornerai a casa»
Rispose Aksenov: «È facile per te parlare, ma è stato difficile per me patire!
Adesso dove vado? Mia moglie è morta,
i figli mi hanno dimenticato, non saprei dove andare…»
(Lev Tolstoj, Dio vede la verità ma non la rivela subito)
Delitto e castigo. Come dal Serafin Geronimo di The Criminal of Barrio Concepcion (1998) in poi. Per Horacia, protagonista di The Woman Who Left (2016), c’è solo il castigo. Il delitto non l’ha commesso, lei. Eppure è stata condannata. Eppure è in prigione, da trent’anni. In tutto questo tempo, tra il lavoro coatto e la reclusione, è divenuta un punto di riferimento per le incarcerate e la loro prole. Una storyteller. Un’insegnante. Una che impartisce lezioni e parabole. Quando invita bimbe e donne in cerchio, nel cortile, a leggere un brano di The Power of Black di Bahagaring Timong, è Petra a proporsi volontariamente come lettrice. Così legge il quaderno passatole da Horacia, racconta di una prigionia paludosa e allucinata, di un reale abbandonato, di una mente ammalata dalla reclusione. «Vivo in una stanza senza specchi. Con a malapena una finestra. Con aria, a malapena». Legge di immagini che si struggono, come fossero anime che cercano di sopravvivere al morire della terra. «Non c’è una favola?» chiedono le bambine, inorridite. C’è una sola cosa, continua a leggere Petra, che per il protagonista di quel racconto può essere salvifica: l’attesa della verità. Il momento delle scuse. Petra non può continuare a leggere. Si ferma. Riconsegna il libro a Horacia. È probabilmente in quell’attimo, per via di quelle parole, che decide di confessare, dopo trent’anni, di essere proprio lei l’artefice del delitto per cui la protagonista è stata condannata. Il destino è programmatico. La mano del demiurgo, nel coreografare il perfetto scacco di Petra, abbatte la misura del realismo, irrompe immediatamente in scena, rompe una parete. Messa in abisso. Il testo di The Power of Black proviene da un romanzo incompiuto dello stesso Lav Diaz. Bahagaring Timong non esiste. E il testo, se la memoria non m’inganna, è un manoscritto. Quindi, probabilmente, Bahagaring Timong non esiste nemmeno per Horacia, non esiste in nessun mondo. L’autrice di quell’incubo carcerario, nel mondo della fiction, è lei, Horacia. Fiction dentro fiction dentro fiction. Una bugia al cubo. Come in un calibrato incidente combinatorio, o in una catarsi apparentemente casuale, il loop del falso produce verità. The Power of Black è un testo doppiamente fasullo, ed è arte e artificio che agisce nel mondo. Un interruttore. È il momento delle scuse. «Sei stata come una madre per me», dice Petra a Horacia, prima di andare a confessare. «Una madre». Poi, si suicida. È stata realmente Petra, l’omicida? La lettura di quelle righe ha scatenato il suo senso di colpa? O il suo è stato un eccesso di identificazione per interposto racconto? A noi, e alla protagonista, non è dato saperlo. Lo diamo per certo. E certo è che The Woman Who Left si configura da subito come un’opera sull’empatia, un’empatia tramite e oltre la fiction. Il che ne fa un’opera immediatamente meta-cinematografica. Politica, e umanissima: il concetto di cura, e quello di maternità, sono precipitati narrativi di un film che pone come principale problema quello della compassione e come principale forma relazionale la confessione. C’è l’ascolto di un popolo privato d’identità, qui dentro, di personaggi marchiati da un trauma, di uomini e donne che la Storia ha privato di radici. In The Woman Who Left il dostoevskijano Lav Diaz parte da un racconto di Lev Tolstoj, Dio vede la verità ma non la rivela subito, ma oltrepassa la fine scelta dallo scrittore russo. Se Aksenov, il mercante protagonista della novella, moriva ancor prima di raggiungere la libertà, sospirando le terribili frasi poste in apertura di questo intervento, Horacia torna nel mondo libero, anonimamente, con due fini: uccidere Rodrigo Trinidad, il mandante della sua incarcerazione, in primis. E poi, raggiunto quest’obiettivo, trovare il figlio scomparso. Perché è colpa di Rodrigo (che è il nome dell’attuale presidente filippino, Duarte) se Horacia, come Aksenov, non sa più dove andare. Se per la sua famiglia è un fantasma. Se i suoi figli, come tanti nelle Filippine, non hanno avuto una madre. Se è stata espulsa dal mondo. Trent’anni fuori dalla Storia e dalle storie. L’unica cosa che resta alla sua identità, al nome di Horacia, dopo l’attesa della verità, è «l’attesa della giustizia». La radio racconta le Filippine del 1997. I rapimenti, come un’epidemia. Le morti di Gianni Versace, Madre Teresa, Lady Diana. Hong Kong che ritorna alla Cina. Il ritorno di Horacia al mondo libero è il trauma esistenziale di un handover. Il cinema di Lav Diaz è in questo spaesamento. Con Hollanda, Horacia canta: «There’s a place for us? Somewhere a place for us/ Peace and quiet and open air/ Wait for us/ There’s a time for us/ Someday a time for us/ Time together with time to spare/ Time to share/ Time to care/ Someday, somewhere/ We’ll find a new way of living/ We’ll find a new way of forgiving…». Horacia si traveste, cambia nome, conosce tre persone, un uomo, una donna, un travestito, si prende cura di loro. Un padre (un compagno) e due figli. Come lei sono fuori dalla storia, chiusi in se stessi e pronti al cupio dissolvi, lontani dalle cose del mondo. Gli attori, per interpretarli, si devono travestire. Con una protesi di gobba, sporcandosi il volto di nero, vestendosi da donna. Scomparire. Proteggersi dal mondo, trovare perché vivere. Hollanda, uccidendo Rodrigo per gratitudine, per un ulteriore scacco del destino, toglie a Horacia l’unica patria che le era concessa, una patria che per questi personaggi non può che essere precaria: quella dell’odio, di un possibile noir. È un cinema fuor di primi piani, di montaggio interno, di analisi, quello di Diaz: nella distanza neutra con cui sceglie di inquadrare i personaggi, nel farsi del tempo all’interno del quadro, in questa forma artificiosa di realismo che gioca contro se stesso, scolpito in un bianco e nero chiaroscurale, c’è un cinema che si ostina a guardare l’uomo, lasciandogli il tempo di svestirsi dalle maschere che indossa, dai cammuffamenti contingenti e dalla scrittura della storia. Di sbalzare dalla composizione magistralmente geometrica, da quadri che paiono chine, dall’artificio di quella e ogni messa in scena. È un cinema che è l’unico posto, per i suoi disperati protagonisti, dove poter esistere. Dove la disperazione trova dignità. Poi, come in tutti i cerchi chiusi che la narrazione del film disegna, torna il mondo. E nessun posto dove stare.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Ang babaeng humayo; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; scenografia: Popo Diaz; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Charo Santos-Concio (Horacia Somorostro/Renata), John Lloyd Cruz (Hollanda), Michael De Mesa (Rodrigo Trinidad), Nonie Buencamino (Magbabalot), Shamaine Buencamino (Petra), Mae Paner (Warden), Mayen Estanero (Nena), Marjorie Lorico (Minerva); origine: Filippine, 2016; durata: 226’; premi: Leone d’oro alla 73ma Mostra del cinema di Venezia (2016); distribuzione italiana: Microcinema.