Norte, the End of History. Un bagliore dopo la fine del post-moderno
Lav Diaz n. 3/2017
di Alberto Pezzotta
Che senso ha, per Lav Diaz, tornare una tantum al colore in Norte, the End of History (2013), in una filmografia che, a partire da Evolution of a Filipino Family (2004), si svolge interamente in bianco e nero? Quest’ultimo è anche il primo film di Diaz a usare sistematicamente il pianosequenza e il campo lungo: ed è come se il bianco e nero imponesse una visione a distanza e rallentata, che lascia fluire il reale nella sua integralità, arrivando a estremi (come il pianosequenza-paesaggio iniziale di Heremias. Book One) che sono noti e di cui altri tratteranno in queste pagine. Il bianco e nero inoltre ha una connotazione apparentemente paradossale e ascetica rispetto ad ambientazioni che spesso evidenziano una natura lussureggiante e terribile. Non basta quindi la bellezza delle location a spiegare perché Lav Diaz decida di tornare al colore in Norte. Certo, ci sono tante sequenze, come quella che si svolge appena prima dell’alba nel paese dove abita Eliza, dove solo il colore poteva cogliere adeguatamente il trasmutare della luce, la bellezza effimera tra notte e giorno e insieme il senso di provvisorio, di fugacità quasi irreale. È appunto un colore antinaturalistico, spesso poco realistico, quello che appronta il meraviglioso direttore della fotografia Lauro Rene Manda: con tanto giallo – che pur essendo un colore primario, è quello che al cinema si vede meno – con tanti verdi acidi, con più rosa e lilla che rosso. Ogni tanto sembra esserci una memoria degli anni Settanta, magari pop, ma in Norte non c’è nulla di pop. È un colore acrono quello del film, un colore ad hoc. Un colore che comunque velocizza gli eventi. Non solo perché Norte come durata è ben al di sotto della media dei film di Diaz, ma perché la macchina da presa è più mobile del solito, ogni tanto il montaggio è meno contemplativo, gli eventi si accavallano in modo quasi frenetico. Quante morti, spesso impreviste (dall’inizio alla fine); e quanti gli atti criminosi (due omicidi e uno stupro-incesto) commessi da Fabian.
Ci voleva il colore per mostrare (sia pure con estrema parsimonia) il sangue, con logica antitetica a quella di Alfred Hitchcock in Psyco (1960). E ci voleva il colore per uscire anche da uno sguardo umano: in due momenti (circa al 135° e al 153° minuto) lo sguardo plana dall’alto, veloce, su villaggi e spiagge. L’occhio di un drone, presumibilmente, ma anche l’occhio di un falco, o di una divinità indifferente, che vola via veloce sulle miserie umane e sulla bellezza terribile della natura. E qui si comincia a capire anche il perché del titolo.
La fine della Storia è quella che intreccia i destini di un intellettuale fallito, Fabian, che emula (e raddoppia) il Raskolnikov di Delitto e castigo, e di un innocente, Joaquin, che finisce in carcere al suo posto. Il primo fa tutto meno che redimersi, e discende verso abiezioni ancora peggiori. Il secondo, in prigione, redime anche i peggiori compagni di sventura, mentre la moglie si arrabatta con i due figlioletti, resistendo alla tentazione del suicidio. E la Storia finisce perché i due destini scorrono in parallelo, qualche volta si incrociano (quando Fabian dà dei soldi a Eliza per sistemare il proprio senso di colpa), ma non si risolve nulla. La Storia non ha senso. La giustapposizione dei due destini è solo il gioco di un caso crudele. Dio non esiste, o se esiste (l’occhio del drone), se ne sta ben lontano dall’umanità che soffre e fa soffrire.
Ma la Storia finisce anche perché il finale spazza via tutto, fa tabula rasa. Il destino, senza fare troppi spoiler, è spietato con i personaggi positivi. La sorte di Joaquin e Eliza è risolta con due inquadrature che potrebbero essere anche due citazioni: un piano fisso con una levitazione, che potrebbe essere tratta da un qualunque film di Andrej Tarkovskij; e una carrellata tra rottami e fiamme sulle vittime di un incidente stradale, che potrebbe venire da Japón di Carlos Reygadas (2002).
Le storie sono finite e si fanno i racconti con storie altrui, a partire da Dostoevskij. E se c’è un regista che si è spesso interrogato sul postmoderno è proprio Lav Diaz – in particolare in Death in the Land of Encantos (2007), in Century of Birthing (2011) e in Corporal Histories, il suo film incompiuto e circolato pochissimo di cui si parla all’interno del secondo film citato. Ma anche il postmoderno è finito, e in Norte, the End of History Lav Diaz non si ferma al citazionismo del collage. Riparte dalle macerie, consegna agli occhi dello spettatore immagini di inenarrabile bellezza – le stesse, magari, che saranno spazzate via dai tifoni di Figli dell’uragano (2013). Le stesse che erano già spazzate dalle grida della protagonista partoriente alla fine di Century of Birthing. Quegli storm children sono nati, e li vediamo, smarriti, nell’ultima inquadratura di Norte, the End of History.
(Con una radicalità e necessità inaudita nella storia del cinema, tutti i film di Lav Diaz sono un unico, interminabile, labirintico film. Ciascuno completa e illumina gli altri. Non finisce.)
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Norte, hangganan ng kasaysayan; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz, Rody Vera; fotografia: Larry Manda; scenografia: Perry Dizon; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Sid Lucero (Fabian), Archie Alemania (Joaquin), Angeli Bayani (Eliza), Mailes Kanapi (Hoda), Mae Paner (Magda), Soliman Cruz (Wakwak), Hazel Orencio (Ading), Ian Lomongo (Cesar); origine: Filippine, 2013; durata: 250’; home video: New Wave Films.