Lavdiazepam. Riflessioni sparse su una canonizzazione mai avvenuta (o sempre esistita)
Lav Diaz n. 3/2017
di Renato Loriga
Nel ricevere il Pardo d’Oro a Locarno nel 2014, Diaz commentò: «È sconcertante che, solo pochi mesi fa, ero immerso nel fango mentre giravo in un remoto villaggio nella valle di Cagayan. Non avrei mai immaginato che questo film mi avrebbe portato in un resort frequentato dalla borghesia… Per ricevere un premio in un festival di serie A. Il Pardo d’oro è davvero d’oro. Ma è solo lo 0,001% dell’oro che Marcos ha sottratto. I registi filippini dovrebbero vincere il primo premio ogni anno per i prossimi cento anni per recuperare il bottino di Marcos dalle banche svizzere»1. Seppur non nuovo al mondo dei festival internazionali (dal 2004 è stato una presenza fissa a Venezia, Rotterdam e Toronto), l’interesse unanime della critica verso Diaz si accende solo nel 2013, con la partecipazione a Cannes di Norte, the End of History (2013). Film che non si discosta dai precedenti solo per motivi stilistici (uso del colore, movimenti di camera, lunghezza ridotta per i suoi standard), ma ancor più per motivi produttivi. È infatti il primo film, dal lontano 2002 di Hesus the Revolutionary, prodotto dalla Regal, a non essere autoprodotto da Diaz tramite la sua compagnia Sine Olivia Pilipinas. Dopo Cannes e Locarno, l’ascesa è culminata con la doppia vittoria a Berlino e Venezia nel 2016, consacrandolo definitivamente agli occhi della critica e del pubblico che lo aveva fin lì ignorato. E non è un caso, di nuovo, che tutti e quattro i film si discostino dalla modalità produttiva autarchica che lo aveva caratterizzato fino a quel momento. From What is Before (2014) ottiene un fondo dal governo filippino, A Lullaby to the Sorrowful Mistery (2016) coinvolge due case di produzione filippine (Epicmedia e TEN17P) ben strutturate, mentre The Woman Who Left (2016) vede la partecipazione del canale televisivo Cinema One Originals. Il fatto che le ultime produzioni di Diaz abbiano basi monetarie più solide non è ovviamente un deterrente2, anzi permettono alle opere di giovarsi di inedita visibilità in Europa, negli Stati Uniti e nelle Filippine3. Ma la conseguenza che più stravolge il cinema di Diaz è l’ingigantirsi del lavoro dietro la macchina da presa: se Diaz è stato per anni un regista indipendente che, con pochi fedeli collaboratori, autofinanziava i suoi film dall’inizio alla fine, ricoprendo i principali ruoli tecnici, le troupe di Norte e Lullaby sono composte da 50 o più maestranze. Un dato da non sottovalutare, visto l’impatto che questo può avere sul metodo di lavoro organico più volte decantato da Diaz, la cui flessibilità e indipendenza permetteva lunghi tempi di lavoro aperti all’inconsapevole, all’inaspettato, alla riscrittura sul campo.
Il lavoro sul set è fondamentale per capire la poetica di Diaz, l’uso del tempo e del long take4, la struttura sostanzialmente aperta che riflette l’accumularsi di traiettorie non concluse che risultano sempre in una narrazione densa e sfibrata, impossibile da chiudere poiché riflesso di un’indagine interminabile. È quindi diverso il cinema che ha portato Diaz all’attenzione del mondo negli ultimi tre anni, rispetto a quello che in passato era esperito da pochi fedelissimi? Il cinema di Diaz è ormai un canone, o è forse sempre stato uguale a se stesso? Ci troviamo qui davanti al nodo cruciale della questione. La libertà decantata da Diaz, conquistata grazie al digitale che gli ha permesso di portare al limite la durata delle singole scene (con pianisequenza che raggiungono i 60 minuti) può sembrare ora una gabbia entro cui lo stesso artista si adagia, coccolato dai festival più prestigiosi. L’eversione cessa di essere tale quando è prevedibile, o almeno così sostengono i detrattori del regista. A guardar bene però, non è mai venuta meno l’intenzione di Diaz di dare voce, attraverso l’oralità del racconto all’inascoltata storia del popolo, comparsa silenziosa della Storia. La sua indagine sull’identità filippina è una costante che non si arresta, vero perno della sua opera. Il cinema di Diaz è quindi irrimediabilmente situato, inscindibile dalla sua dimensione storico-politica. La tanto acclamata universalità del suo cinema è allora solo nella pigrizia dell’occhio occidentale, poco propenso ad adottare uno sguardo a lui estraneo? Il paradosso evidente è che un cinema indirizzato nello specifico alla madrepatria venga poi incensato nella dimensione atemporale dei festival, per lo più europei, e solo dopo la canonizzazione all’estero i film sono visti e acclamati anche in patria5. Sebbene Diaz abbia da sempre numerosi sostenitori nelle Filippine (Dayao, Cruz, Manaig, Mendizabal e il compianto Tioseco in primis), la sua intera carriera e in special modo quest’ultima parentesi costellata di successi non sfugge a tale vischiosa e perversa dinamica, faccia non troppo nascosta della disparità di potere che replica, a suo modo, dinamiche coloniali.
Lo stesso Diaz afferma però di non fare film per un pubblico, di essere quindi libero dalle leggi del mercato e dalle sue aspettative. Allo stesso tempo, egli insiste sulla concezione del suo cinema come esperienza, comune sentire da parte, appunto, di un pubblico. Vi è qui una differenza incolmabile rispetto a Lino Brocka, forse il più famoso cineasta filippino e punto di riferimento fondamentale per Diaz e colleghi. La chiave del suo cinema fu l’incontro tra l’impianto melodrammatico, tipico del cinema filippino, e il realismo sociale, elemento fino ad allora pressoché alieno, che rese i suoi film indipendenti anche successi al botteghino. È possibile vedere come, stilisticamente, Diaz vada in direzione opposta a Brocka (complice anche la costante metariflessione, impensabile nell’opera di quest’ultimo, sul ruolo del cinema e dell’artista nel mondo) pur giungendo allo stesso risultato emotivo: la straziante disperazione nel guardare la propria nazione messa a nudo nella sua brutale realtà. Dove si situa Diaz rispetto al popolo a cui vuole dare voce? Sul set, sullo schermo, ma non davanti a esso? Il cinema di Diaz è insomma un cinema libero, o un cinema che libera? Se da un lato l’impianto fortemente narrativo dei suoi film e la reiterata scelta stilistica pongono Diaz come uno degli (ultimi?) protagonisti del cinema moderno, molto più classico che rivoluzionario, dall’altro il suo approccio senza restrizioni al cinema ha formato una generazione di nuovi cineasti filippini, da Raya Martin a John Torres, i quali intorno alla sua figura hanno maturato ciascuno un personale sguardo che raccoglie e rimette in circolo le suggestioni politiche che animano il suo lavoro, ed è forse questa la cosa più importante.
Seppur sconfinato e aperto, il cinema di Diaz si muove entro limiti ben precisi, tangibili nella loro materialità, che spesso si scontrano con la sua figura autoriale, emersa di prepotenza negli ultimi anni. È necessario, ora più che mai, ragionare anche sui limiti, e non ai limiti, del sistema entro cui esso è percepito e diffuso, come atto politico e, soprattutto, d’amore.
Note
1 Cfr. www.entertainment.inquirer.net/150506/no-rousing-welcome-for-lav-diaz-other-victors-of-biggest-ever-film-award-for-ph#ixzz3BFJLjp5p.
2 Cinema One Originals, pur essendo una realtà legata alla televisione, ha supportato registi ben più radicali e anarchici di Diaz, come Gym Lumbera, Sherad Anthony Sanchez, Khavn de la Cruz e molti altri.
3 Norte, the End of History è il primo film ad avere una distribuzione statunitense e un’uscita home video ufficiale. Fino a quel momento Diaz ha venduto, tramite il suo sito, copie masterizzate dei suoi film a prezzi molto alti, per autofinanziare in parte i progetti successivi. Dopo la vittoria del Leone d’oro, The Woman Who Left è stato distribuito anche nelle Filippine, evento più unico che raro. A sancire il tutto, il sito statunitense MUBI ospita quest’anno, tramite il suo servizio streaming, la prima retrospettiva online sul regista, che comprenderà gran parte della sua filmografia.
4 Si veda, in questo volume, il testo di Alexis Tioseco, che racconta una ripresa durante la lavorazione di Heremias (2006).
5 Un’identica dinamica caratterizzò tanto il cinema di Manuel Conde, negli anni Cinquanta, che quello di Lino Brocka e Ishmael Bernal negli anni Settanta.