Florentina Hubaldo, CTE. I due occhi di Lav Diaz
Lav Diaz n. 3/2017
di Aldo Spiniello
Lav Diaz ha due occhi. E, visto da un occhio, il suo cinema sembra innanzitutto “inumano”. Del resto Florentina Hubaldo, CTE (2012) inizia così, con un campo lungo su una strada polverosa, nel mezzo della foresta. Non c’è il segno tangibile di alcuna presenza, solo il vento tra le foglie, il cinguettio degli uccelli e il rombo di motori in lontananza. Dopo svariati secondi, dal fondo compaiono due figure. Florentina, con al guinzaglio due caprette, e il nonno attaversano il quadro ed escono di scena, lentamente. È un procedimento che Lav Diaz adotta più volte, quasi sistematicamente. Anche nei momenti più concitati della vicenda, quando Florentina fugge in preda al panico e il padre mostro la insegue. L’inquadratura resta fissa mentre i personaggi entrano in campo ed escono. La macchina da presa continua a registrare, in apparenza indifferente. Ovviamente, è segno di una diversa concezione del tempo, com’è stato detto. Ma gli innumerevoli campi “vuoti” – e bisognerebbe capire una volta per tutte cosa vuol dire vuoto – sembrano raccontare ancor più il rifiuto di una prospettiva antropocentrica, e quindi di un punto di vista necessariamente “umano” sulle cose. È come se il cinema, in Lav Diaz, volesse a tratti procedere in automatico, per pura inerzia meccanica. Magari è l’occhio del geco, che continua il suo verso nella notte, interrompendo lo scavo insensato dei disperati che cercano il tesoro nascosto. Gli uomini, per lo più, si perdono nell’ambiente, nel fitto intrico della vegetazione tropicale. Sono lì come un elemento tra gli altri nella composizione del quadro. E, forse, non hanno un peso così determinante sui destini del mondo, che prosegue imperturbabile il suo corso. Nella prospettiva dell’eterno, quella del vulcano Mayon, il terribile distruttore di Death in the Land of Encantos (2007), il tempo è immobile e la vita delle persone è solo un accidente. Quella di Florentina è una successione di sofferenze senza fine e senza rimedio, che si propaga alla figlia Lolita come un’eredità, una maledizione adamitica, una croce da cui è impossibile liberarsi (e il film è pieno, figurativamente, di crocifissioni, di lamentazioni ai piedi del calvario e di deposizioni). È la stessa maledizione che riguarda tutti ed è fatta di dolore, morte, malattia, sofferenza, violenza. “Da dove viene il male dell’uomo? Da dove viene la violenza dell’uomo? Da dove viene la crudeltà dell’uomo? Perché questo dolore? Qual è l’essenza della vita degli uomini? Qual è il significato della vita di Florentina Hubaldo e Lolita Hubaldo in questo mondo?”. Le domande non hanno risposta. Ed è inutile piangere. Il cinema sta lì e guarda.
Ma quella dell’inumano è solo una delle mille prospettive possibili. Perché tutto si può dire tranne che Lav Diaz non abbia a cuore i personaggi che racconta. E Florentina Hubaldo, CTE potrebbe essere anche visto come un tributo alla grazia e all’intensità di Hazel Orencio. Ciò a cui rinuncia Diaz, in realtà, è la “drammatizzazione” delle storie, lo svolgimento in progressione delle vicende, secondo una sequenza di azioni, traiettorie dinamiche, conseguenze, eventi. Cause ed effetti… Gli accadimenti sono per lo più fuoricampo: le violenze sessuali subite da Florentina, le ripetute percosse del padre nei confronti suoi e del nonno. La fuga, il parto della protagonista, la consegna della figlia Lolita al contadino che se ne prenderà cura: tutto è oltre la nostra vista. Ce ne giunge un’eco dai racconti smozzicati dei personaggi, a cominciare dalle infinite ripetizioni di Florentina, che prova a verificare con la parola la sua presenza nel mondo. Come mi chiamo, chi sono, da dove vengo, chi era mia madre? È qui che comincia a divenire metodo un procedimento che arriverà a compiuta definizione teorica negli ultimi A Lullaby to the Sorrowful Mystery e The Woman Who Left (entrambi del 2016). Il cinema non può inquadrare i fatti. Non ce la fa, perché è sempre al lato, in un altro punto dell’universo, è sempre dopo, su un’altra linea del tempo. E dunque la storia, maiuscola o minuscola che sia, è solo quella che si racconta. Perciò è sempre frammentaria, la sua verità si mescola alla leggenda, alla favola, alla creazione fantastica delle menti o dell’arte, si confonde tra le pieghe della memoria, i suoi vuoti e le sue deformazioni. E in Florentina Hubaldo, CTE convivono tutte queste dimensioni contradditorie della storia e del racconto. Ecco che l’oggettività, quella che sembrava appartenere al punto di vista “inumano”, si trasforma, un attimo dopo, in una specie di sogno in soggettiva, quasi la materializzazione dei ricordi confusi e delle percezioni scosse della protagonista. I giganti a cui sfioriamo le mani, nella speranza che possano salvarci, in realtà non esistono, come afferma pietosamente il nonno. Eppure continuiamo a vederli, perché la loro immagine è entrata nel nostro mondo, nella nostra vita. Al punto che non ha più senso distinguere ciò che è reale da ciò che è inventato, non c’è più ragione di svolgere il filo del tempo lungo una linea che dal passato porti al presente e al futuro. Anche qui, dalla nostra prospettiva “umana”, non c’è direzione che tenga. Tutto appare confuso, come se fossimo anche noi dei pugili suonati, colpiti dalla CTE, l’encefalopatia traumatica cronica.
Lav Diaz ha due occhi e si muove sempre tra due traiettorie. L’inumano e l’umano. Troppo lontano e troppo vicino. Da un lato la purezza dello sguardo immobile, quello che, come ci diceva una volta Loznitsa, rifiuta di muovere l’obiettivo «perché significherebbe individuare un soggetto dell’azione, trovare un eroe, mentre quello che occorre raccontare è la collettività». E d’altro canto l’intensità dell’emozione e del sentimento, l’immagine che perde il nitore del suo fuoco, si fa carne e lacrima sangue. Heremias, Florentina, Basilio, Iragami, sono al tempo stesso fantasmi e corpi. Come voci di una polifonia, rimandano ad altro, discorsi teorici, visioni politiche, drammi sociali. Ma sono anche carichi delle ferite del mondo. È un cinema di astrazioni e di incarnazioni improvvise, di figure che sono vettori ideali e, al tempo stesso, persone concrete, nette, “vere”. È un cinema di paesaggi immutabili e di personaggi in movimento. Ed è nel punto di fusione tra le due prospettive focali, quindi nella terza dimensione, che Lav Diaz coglie la connessione misteriosa tra i percorsi degli individui, la storia di un Paese e una condizione umana universale. Non c’è speranza, un’argine al male e al dolore, sembra dirci con l’occhio sinistro. Ma con l’occhio destro ci suggerisce che il cinema è ancora capace di trovare una via di fuga, un motivo per andare avanti.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Florentina Hubaldo CTE; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; scenografia: Dante Perez; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Hazel Orencio (Florentina), Kristine Kintana (Loleng), Noel Sto. Domingo (Manoling), Willy Fernandez (Juan), John Elbert Ferrer (Hector), Dante Perez (padre), Brigido Tapales (nonno), Ana Arienda (vicino); origine: Filippine, 2012; durata: 360’.