
È da tempo che noi di INLAND pensiamo a una monografia dedicata a Lav Diaz. Doveva essere il numero #1, l’avevamo poi annunciato come #2, l’abbiamo rimandato in entrambe le occasioni. Semplicemente, sembrava non essere facile mettersi a scrivere di questo regista, sia per noi che per i nostri collaboratori. Forse il timore era di confrontarsi con un cinema di cui il mito (non solo legato alle lunghe durate dei film) predomina sul rapporto reale tra lo spettatore e un’opera chiacchierata ben prima (e più) che vista: la patina da togliere era spessa, e proporzionale all’impegno da metterci nel levarla. Forse la paura era quella di dover ridurre testi tanto estesi, un lavoro tanto consistente, alla sintesi delle parole. «Lav non è solo una questione di tempo, ma di spazio, e fargli spazio intorno adesso mi è realmente impossibile» ci ha scritto il critico e programmatore Lorenzo Esposito. Forse il problema era legato anche a una forma di rispetto sacrale: il cinema di Lav Diaz, per chi l’ha seguito lungo tutti questi anni (e c’è chi, tra i collaboratori di questo numero, lo segue da sempre), è stato una sorta di rito, una messa laica e politica, un segreto condiviso. Passare una giornata a guardare un film del filippino, essere lì, presenti, è stata una forma di resistenza al tempo intorno, la testimonianza condivisa di un cinema possibile, la risposta alla richiesta di mettere radici, per far confrontare lo spettatore con le sue. In un bellissimo passaggio di Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo, quando Donatello Fumarola e Alberto Momo, accompagnati da Fulvio Baglivi, chiedono a Lav Diaz se conosce ogni spettatore dei suoi film, lui risponde: «Per me il cinema è una questione di responsabilità. Responsabilità per il mio Paese, per la mia cultura e [per me è importante] usare questi film come una responsabilità, per condividere l’esperienza della mia gente, la lotta dei filippini, la mia lotta personale come artista, la mia visione del mondo, la mia comprensione della vita. Non importa quanto sia semplice. Il cinema è, almeno, una questione di responsabilità». Ovvio che scriverne, di questo cinema, di questa lotta, per chi la ama, per chi da qui, da questo privilegio lontano, può solo condividerla, è una responsabilità. Non è che non sia stato scritto nulla, su Lav Diaz. Ma un volume monografico (il primo, su questo autore) sa di persistenza, di dato incancellabile, di confronto serrato, richiede un approccio differente dall’estensione di un articolo. Domanda uno sforzo maggiore, aumenta il timore. Poi un giorno di tardo settembre collaboratori che avevamo coinvolto – e che avevan chiesto tempo ulteriore, e ancora, e ancora… – ci hanno proposto di tornare sui nostri passi, e di farlo celermente. Evidentemente la presentazione di The Woman Who Left nel Concorso della Mostra internazionale del cinema di Venezia 2016 aveva portato con sé non solo un Leone d’oro, ma anche il bisogno di un bilancio sulla filmografia di questo autore ora canonizzato (come spiega il bel saggio di Renato Loriga). Questo piccolo volume vuole essere un’introduzione e un bilancio. Rapsodico e incompleto, certo. Ma una serie di appunti priva di timore, che s’è cercata il tempo e lo spazio per raccontare e riflettere sul cinema di quello che qui tutti reputiamo uno dei massimi registi del cinema contemporaneo. Per il nitore estetico e politico, per lo slancio con cui ha cercato una forma propria, radicale, radicata. E anche, suo malgrado probabilmente, per avere sviluppato una poetica fraintesa e divenuta di certa tendenza nell’art film di oggi, sotto etichette snob, maniere manierate e dichiarazioni doc di slow cinema e contemplazioni assortite. Il volume è composto da saggi che cercano di inquadrare, storicamente ed esteticamente, l’opera di Diaz, da un lungo distillato di interviste e dalle schede di tutti i suoi lungometraggi. Così da descrivere, se possibile, tra l’ansia di comprenderne la totalità e il dovere di restituirne il particolare, l’evoluzione dell’opera. Tra le schede, ne troverete una eccentrica: quella relativa a Heremias. Book One. Non è un’analisi del film (che è un film doppio, dato che Diaz, col girato del primo, produsse un rough cut intitolato Heremias. Book Two nel 2008): è la testimonianza di un incontro, una bellissima visione dal set da parte di Alexis Tioseco, giovane critico che tanto ha dato al cinema filippino e che è venuto a mancare, brutalmente ucciso, nel 2009. È un brano a cui teniamo molto, ed è giusto fosse lì. Questo numero di INLAND è una raccolta di inizi. Un primo e tardivo approccio. Un rimando ad approfondimenti futuri. Ringraziamo chi ha voluto contribuire a questo volume: firme eterogenee, per formazione e idea di cinema, al fine di una visione che speriamo rifratta e problematica. Ringraziamo le persone che avremmo voluto coinvolgere nel progetto – e che comunque, per aver scovato amato sostenuto e programmato il cinema di Diaz, per averne scritto, per avercene anche soltanto parlato – hanno contribuito a questo volume, anche se non tutte lo sanno: Fulvio Baglivi, Paolo Bertolin, Lorenzo Esposito, Sergio Germani, Marco Müller, Olaf Möller, enrico ghezzi, Michael Guarneri, Dario Stefanoni, Roberto Turigliatto. La rivista Ekran e Jurij Meden, per averci dato il permesso di pubblicare i testi di Christoph Huber e di Alexis Tioseco, e dunque anche Ilaria Floreano e Rinaldo Censi, che li hanno tradotti. Questo numero #3 di INLAND, oltre che dal sottoscritto, Giulio Sangiorgio, è stato curato (nei minimi dettagli) da Giampiero Raganelli: a lui va il ringraziamento di tutta la squadra INLAND/Heterotopia.