L’enigma della moneta
Mattia Carbone
Per introdurre l’uditorio al suo pensiero, Massimo Amato tira fuori una banconota dal suo portafogli e la mostra ai presenti. Poi chiede cos’ha in mano e, senza farsi troppo desiderare, risponde: nulla. Perché la moneta non rappresenta nulla, o meglio: rappresenta il nulla. E il nulla non si mangia. Potrebbe sembrare un gioco di parole, neanche troppo generoso di senso. Ma dietro alla boutade si cela un pensiero che ha fatto propria la missione di un ripensamento radicale della contingenza storica del nostro tempo, un tentativo coraggioso di sondare la situazione economica di oggi alla luce della storia del concetto di moneta. Amato porta avanti il suo insegnamento di storico del pensiero economico nel girone dei bocconiani, tra tanti sapienti di dogmatica capitalista, incarnando con disinvoltura una figura classicamente eretica, che ha saputo portare avanti una critica serrata alle basi (o ai baratri, direbbe lui) su cui si fonda il capitalismo di oggi e di ieri.
Il compito non è dei più semplici, ma certo è necessario ed imminente: le periodiche crisi del capitalismo possono leggersi come un fisiologico calo di tensione del sistema più perfetto al mondo o come i segnali di un malfunzionamento congenito che, forse, testimonia di un errore fondamentale, la cui questione è stata trascurata e quindi obliata. Questo errore sta, secondo Amato, nella concezione odierna e corrente di moneta.
Per molti versi la sua si potrebbe definire un’istorìa della moneta, in senso greco: una storia, certo, ma soprattutto un’indagine che fa appello agli strumenti del pensiero fenomenologico del secolo scorso (Heidegger), un’interrogazione che vuole accedere al fenomeno originario della moneta, fatto libero dalle successive strutturazioni storiche e teoriche.
Il suo libro più interessante in questo senso è L’enigma della moneta, uscito appena due anni fa. Qui l’autore tenta un ripensamento basato sulla meditazione di Keynes circa i tre tratti caratteristici della moneta nei tempi: unità di conto per la misurazione del valore delle merci, mezzo di scambio e riserva di valore. Di queste tre componenti, indaga soprattutto quella di riserva di valore, che è il tratto fondamentale della moneta capitalista: la disponibilità, cioè, ad essere accumulata e scambiata in quanto capitale. Questa possibilità, ben concreta e solidamente realizzata nell’economia di oggi, non sarebbe un tratto naturale ma il risultato di una deviazione originaria, di un sentiero imboccato dall’economico a una certa soglia della storia e da allora mai più abbandonato. L’ingresso in questo “sentiero di mancina” avrebbe permesso al denaro di configurarsi come riserva di valore e quindi prendere posto tra le altre merci come possibile oggetto degli scambi: da qui l’economia finanziaria.
La moneta originaria è indagata da Amato con gli strumenti della fenomenologia heideggeriana applicata, tra l’altro, a un fondamentale passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele (1). Il risultato di queste letture è un ripensamento che presenta la moneta come un ente esemplare, irriducibile e incomparabile agli altri proprio per il fatto di essere incaricato della verità degli enti stessi: in senso greco (e heideggeriano), del loro svelamento. “La moneta come istituzione è quell’ente messo in opera affinché, in esso e grazie a esso, una verità sia” (2). In quanto tale è fondamentalmente inappropriabile, “per la ragione assai semplice che ciò che apre la dimensione dello scambio non può a sua volta divenire oggetto di scambio, pena una radicale perdita di rapporto con la misura”. Se questa condizione di inappropriabilità della moneta viene meno, si apre la strada alla sua trasformazione in merce e quindi all’economia finanziaria.
Rileggendo quindi Keynes alla luce di Heidegger, Amato traduce il fenomeno della riduzione del denaro a merce come una manifestazione nel campo dell’economico di quella perdita della differenza ontologica che, secondo il filosofo tedesco, è all’origine dell’ingresso della storia occidentale nell’Epoca del Nichilismo. Con l’oblio della differenza, nella lettura heideggeriana, inaugurato da Platone, l’Occidente ha imboccato la strada del nichilismo perdendo di vista la dimensione dell’essere. La moneta di Amato (più propriamente: il fenomeno originario della moneta) condivide molte affinità con quegli istituti originari e sacri (come il linguaggio o l’arte) che nella lettura di Heidegger sono i luoghi di manifestazione dell’essere: essa infatti si presenta come un ente sottratto per convenzione (nòmoi in Aristotele) alla catena infinita degli enti semplicemente-presenti, posto al di sopra di questi (nel momento che Aristotele definisce analoghìa) affinché, grazie ad esso ed in esso, possano venire alla luce. In modo analogo, Heidegger intende la dimensione dell’essere come condizione d’esistenza degli enti non in senso causalistico ma in quanto luogo aperto al loro manifestarsi.
La perdita della differenza ontologica inaugura un’epoca in cui può accadere che la moneta precipiti dalla sua condizione di ente esemplare a semplice utilizzabile, ridotta a “cosa tra le cose” (e quindi “merce tra le merci”) in vista della sua accumulazione e inevitabile trasformazione in capitale. E non è forse un caso che il momento culminante di questa svolta storica si abbia nello stesso secolo in cui l’oblio della differenza trova la sua più piena realizzazione, con la nascita del pensiero scientifico: è il Seicento di Cartesio, ma anche del capitalismo olandese.
Il ragionamento è paradossalmente più semplice da capire che da accettare, per il fatto che siamo condizionati da una visione della moneta standardizzata dalla vulgata economica odierna, che innalza l’esistente a condizione di esistenza, privando la moneta della sua dimensione storica. Anche perché il pensiero di Amato perviene a conclusioni a dir poco destabilizzanti, che andrebbero dunque indagate a fondo. Ad esempio, negando la validità del tratto di riserva di valore, si nega l’attendibilità del prestito a interesse, e quindi l’intero sistema su cui riposano la finanza, gli istituti di credito e i progetti del cittadino qualunque, pecchia industriosa che confida nella magra certezza della rendita annua del proprio conto in banca.
Addentrandosi più a fondo nel passo aristotelico sulla moneta, la sua lettura ermeneutica perviene a guadagni concettuali che sembrano indicare una possibile dimensione etica dell’economico.
Affrontando di petto un luogo comune, a tal punto radicato nel nostro pensiero da porsi addirittura come vero e proprio fondamento dell’economia odierna, Amato afferma decisamente che il possesso di moneta non rappresenta una ricchezza. Se ne potrebbe parlare: ne converrebbe anche chi si sforzasse solo di adocchiare più attentamente la situazione di una classe di ricchi i cui capitali immobilizzati dalla paura e dalla religione dell’investimento sembrano sottrarsi alla fruizione privata, per consacrarsi a un più metafisico altare della “crescita” – uno degli ormai tanti miraggi contemporanei che sempre più manifesta la sua natura di non-fine, di vuoto anelito a se stesso. Ma c’è una ragione più profonda e non banale se Amato identifica la moneta non con la ricchezza ma con la più vera povertà. Ce lo spiega ancora una volta Aristotele: “Questa in verità è la mancanza (chrèia) che tiene unite tutte le cose: se infatti non avessero bisogno di nulla, o se non avessero bisogno in modo simile, lo scambio non vi sarebbe, o non sarebbe lo stesso; intendo che un sostituto della mancanza è diventata per noi la moneta, di comune accordo, e questo ha il nome di moneta (nòmisma) perché non è per natura, ma per convenzione (nòmoi), e dipende da noi modificarla o porla fuori corso” (3).
La moneta originaria non è quindi un segno della ricchezza di chi la possiede, bensì un’attestazione della mancanza costitutiva che ha spinto originariamente gli uomini a unirsi in società e ad aprire la dimensione dello scambio, così da compensare le reciproche mancanze; e con questo è anche recuperata al senso l’etimologia della parola stessa, oikonomìa: dal greco oikéo, “abitare”, e nòmos, “norma”, l’economia è quindi “norma dell’abitare”, possibilità e al tempo stesso necessità della convivenza basata sul comune riconoscimento della mancanza come tratto costitutivo dell’umano. Difficile non orecchiare in questa riflessione il presupposto della fenomenologia esistenzialista, che vede l’esserci come manque-a-être, ente non pienamente compiuto ma sempre incaricato del suo essere, ancora una volta sotto il magistero di Heidegger (4).
È qui che viene in luce la portata etica del pensiero di Amato. Se la moneta nasce come “fondo ipotecario della mancanza”, bisogna riconoscere che in essa non si manifesta tanto la dimensione del valore e della potenza (come la devianza nichilista della moneta capitalista vorrebbe), quanto quella della povertà e del bisogno che spinge gli individui a unirsi in società e inaugurare lo scambio come possibilità di una coabitazione rispettosa della Terra. È una sconfessione esplicita del sogno di potenza che accompagna il possesso di denaro, e quindi anche della società per come noi tutti la concepiamo, come campo sterile su cui si danno battaglia i titani della finanza, sotto gli sguardi ammutoliti dei sommersi.
In questo senso il denaro è un nulla, come si diceva, in quanto simbolo del nulla. E solo alla deriva nichilista e alla perdita della differenza ontologica si può riferire l’attuale concezione della moneta come simbolo di valore, avviata nel solco della volontà di potenza. La perfetta formulazione della questione della moneta, alla luce della riflessione di Heidegger e del pensiero della volontà di potenza, si trova nelle ultime pagine: “Ciò che si mostra già compiutamente con Bentham e che continua a compiersi sotto i nostri occhi è, a tutti gli effetti, una sostituzione radicale di senso: la mancanza come tratto costitutivo della moneta è sostituita dal valore come tratto costitutivo di tutto ciò che è” (5).
Amato non è tuttavia solo un uomo di pensiero. Di recente, assieme a Luca Fantacci, suo collaboratore specializzato nel pensiero di Keynes (6), ha avviato un progetto di moneta complementare, simile a quello ispirato alle teorie di Silvio Gesell sulla moneta prescrittibile del Wir di Basilea, nella cittadina francese di Nantes. Costruito come una rete di aziende e privati che consensualmente accettano di ricevere una parte dei pagamenti in valuta complementare, il progetto affascina perché la valuta di Nantes, il bonùs, è strutturata in modo da non ammettere la funzione di riserva di valore, e quindi la possibilità di accumulo.
Come è possibile? Presto detto: la somma depositata in bonùs sul conto corrente, se non è spesa entro un certo lasso di tempo, è diminuita di una percentuale. Il valore di un conto corrente immobile diminuisce progressivamente: un procedimento esattamente antitetico a quello odierno, per cui il denaro depositato guadagna interesse nel tempo. Questo dovrebbe ingenerare, all’interno del circuito locale, un flusso virtuoso di circolazione monetaria inteso a risolvere il problema di quelle periodiche crisi di liquidità che sono all’origine delle condizioni paradossali in cui versano oggi i mercati. Infatti, la circolazione coatta del denaro indotta dalla certezza del suo progressivo discioglimento in un nulla di valore sarà anche garanzia di un ritorno di liquidità per chi si separa malvolentieri dal gruzzolo: se non c’è possibilità di accumulo, banalmente, non ci sarà incetta e il denaro dovrà inevitabilmente girare, abbassando così la pressione dei mercati.
Il funzionamento del progetto sarebbe un passo importante per le coscienze e per la nostra vita quotidiana d’inizio Millennio. Guadagneremmo a un tempo un concreto progetto di rifondazione del sistema monetario vigente e un ripensamento dell’economia su basi etiche. In Amato possiamo vedere un isolato, grandioso tentativo di mettere in pratica l’invito rivolto da Heidegger ai figli dell’Età della Tecnica a rimettersi all’ascolto dell’essere, per trovare l’anello che non tiene nella catena del nichilismo; oppure il folle intento di un reazionario che vuole riportare il mondo all’età del baratto. La storia ci dirà chi ha vinto.
(1) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, 1132b 20 – 1133b 29. pp. 189 – 195.
(2) M. Amato, L’enigma della moneta, Edizioni at al., Milano 2010, p. 14.
(3) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 193. Ho tentato di mediare tra la versione franca e obiettiva di Natali, scarsamente interessata agli aspetti economici della traduzione, e la lettura ermeneutica di Amato, onestamente impenetrabile a meno di non seguire tutta la trattazione per esteso. Si rimanda a M. Amato, L’enigma della moneta, cit., pp. 197 – 239.
(4) Si è parlato molto di “equivoco esistenzialista” per certe interpretazioni dello Heidegger di Essere e tempo. Se non nelle conseguenze, però, è certo che Heidegger non disapprovò, almeno nei presupposti, il lavoro del suo primo e più elogiato interprete, Sartre. Cfr. R. Safranksi, Heidegger e il suo tempo, traduzione di N. Curcio, TEA, Milano 1996, p. 422: “La sua [di Sartre] opera è retta da una comprensione così immediata della mia filosofia quale mai finora mi era capitato di incontrare”.
(5) M. Amato, L’enigma della moneta, cit., p. 257.
(6) Con Fantacci, Amato ha scritto un libro altrettanto interessante, dal titolo profetico: M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza, Donzelli, Roma 2009.
(7) Si veda anche l’esposizione audiovisiva dello stesso amato sul sito internet di Repubblica.