Effetto boomerang del libro scambio
Antonio Venier
Il collegamento negativo fra libero scambio e progresso economico non è certo un caso anomalo di questi anni. I dati statistici disponibili dimostrano costantemente la coincidenza dei periodi di forte crescita economica con quelli di politica protezionista, ed al contrario di crescita debole nei periodi libero scambisti.
Ormai da molto tempo è diventata convinzione quasi generale, che il libero scambio di ogni sorta di merci e servizi fra le diverse nazioni sia ottima cosa per lo sviluppo dell’economia, anzi indiscutibile fattore di prosperità per tutti.
Questa convinzione generale è stata ottenuta attraverso il controllo e l’utilizzo dei mezzi di informazione, con l’opportuno sostegno di studiosi ed esperti. In questo modo è stato fatto credere al pubblico che una qualsiasi forma di protezionismo, anche se moderata e selettiva, deve essere respinta senza necessità di analisi o discussione.
Le voci isolate di quelli che mettevano in dubbio tali benefici effetti, e che consideravano invece possibile un rapporto fra libero scambio ed impoverimento, sono state opportunamente smorzate, in quanto non conformi alla ideologia politico-economica ormai dominante.
2. L’accettazione generale della dottrina libero-scambista da parte dei paesi industrializzati europei è infatti strettamente connessa, anzi ne è parte integrante fondamentale, con l’affermazione delle teorie così dette “neo-liberiste”, ormai più o meno da tutti considerate come evidenti ed indiscutibili leggi di natura.
Come è ben noto, queste teorie neo-liberiste sostengono la fede nel libero mercato di tutto quanto come distributore ottimale delle risorse; il rifiuto di ogni intervento statale per sostegno e regolazione delle attività economiche; ed appunto lo scambio libero da qualsiasi limite ad ostacolo, interno ed internazionale, di tutto quanto possa considerarsi scambiabile; prodotti industriali ed agricoli, materie prime, capitali ed investimenti, etc.
3. Ricordiamo che la dottrina del libero scambio, come quella più generale neo-liberista, che la include, trova origine nelle rudimentali teorie economiche elaborate circa due secoli fa dai così detti grandi economisti classici inglesi. Teorie economiche che sono sopravvissute e si sono anzi diffuse, a dispetto della loro inconsistenza largamente dimostrata dalla esperienza storica; sopravvivenza e successo attribuibile da un lato alla loro rozza semplicità, che le rendeva facile oggetto d’insegnamento e comprensibili ai più sprovveduti lettori e commentatori.
Dall’altro, probabilmente più consistente, poiché queste teorie erano ben funzionali agli interessi economici britannici nel secolo XIX.
4. Ritornando al tempo presente, bisogna ricordare che almeno da due decenni od anche più, il libero scambio è sostenuto energicamente dalle grandi organizzazioni finanziarie internazionali, dal FMI alla Banca Mondiale, oltre che dall’organismo appositamente costituito per la liberazione totale del commercio internazionale GATT, diventato dal 1955 “Organizzazione mondiale del Commercio” (OMC). Neppure si può dimenticare l’azione della Commissione Europea di Bruxelles, che arriva al paradosso di utilizzare fondi e strumenti politici (le “direttive” accettate dai governi europei) per liberalizzare a forza gli scambi commerciali, a costo di danneggiare seriamente l’attività economica in alcuni paesi della Comunità Europea, fra i quali ovviamente soprattutto il nostro, che si distingue per sottomissione e obbedienza.
5. La diffusione generalizzata del libero scambio, sostenuta energicamente – come abbiamo detto – dalla totalità dei mezzi di informazione e soprattutto dalle potenti organizzazioni finanziarie internazionali, non è però stata accompagnata da un aumento della prosperità. Questo dato di fatto appare evidente confrontando l’incremento degli scambi con quello della produzione di beni e servizi. Per fornire un riferimento quantitativo, nel periodo dal 1981 al 1996 (secondo dati di fonte GATT/OMC), il commercio mondiale è più che raddoppiato in termini reali, mentre l’incremento del PIL (sempre in termini reali, cioè, di volume) è cresciuto circa del 50 %. Queste cifre riguardano la produzione e l’interscambio di beni e servizi.
Nello stesso periodo enormemente maggiore è stato l’incremento del movimento dei capitali, riconducibile però solo in minima parte all’interscambio commerciale.
6. Il collegamento negativo fra il libero scambio e il progresso economico non è certo un caso anomalo di questi ultimi anni.
I dati statistici disponibili circa dal 1830 in poi per i paesi europei e gli Stati Uniti dimostrano costantemente la coincidenza dei periodi di forte crescita economica con quelli di politica protezionista, ed al contrario, di crescita debole nei periodi libero scambisti (per dati, rif. Bairoch, Miti e paradossi della storia economica, ed. 1996). In particolare, vanno messi in evidenza il forte sviluppo industriale tedesco dal 1885 in poi, e soprattutto quello degli Stati Uniti, rigidamente protezionisti dal 1870 alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ben più di qualsiasi paese europeo.
7. Ovviamente questa coincidenza statistica non può far concludere semplicisticamente, che la prosperità possa ottenersi soltanto con la protezione dei prodotti nazionali, industriali ed agricoli. Tuttavia, dovrebbe essere ampiamente sufficiente per dimostrare la inconsistenza, anzi la falsità, della affermazione contraria, che il libero scambio senza limiti sia fattore positivo per tutti i paesi, anziché vantaggioso per alcuni e dannoso per molti.
In realtà, il libero scambio è stato causa di prosperità soltanto in casi particolari, e per periodi limitati nel tempo.
Il caso più tipico è quello di un paese industriale in condizioni di grande superiorità tecnica e produttiva, esportatore senza concorrenti in settori di grande importanza, quale è stata l’Inghilterra fino oltre la metà dell’Ottocento per macchinari, ferrovie, costruzioni navali, etc.
La formazione nel secolo XIX di una consistente struttura industriale è stata possibile soltanto in quei paesi che hanno efficacemente protetto le loro industrie nella fase di sviluppo, quando non potevano essere competitive con i prodotti britannici.
Non dissimile appare la situazione degli Stati Uniti, diventati libero-scambisti dopo la Seconda Guerra Mondiale, appunto dopo avere raggiunto una condizione di superiorità tecnologia nei settori industriali più avanzati, quali tipicamente sono ora gli aviogetti civili, il nucleare, la grande elettronica ed in generale i sistemi d’arma complessi.
In entrambi i casi citati, la Gran Bretagna del secolo XIX e gli Stati Uniti d’ora, il libero scambio protegge efficacemente le condizioni di superiorità acquisite, ed impedisce lo sviluppo di nuovi concorrenti.
Paradossale risultato, che dovrebbe far riflettere i sostenitori intransigenti della libera concorrenza senza interferenze statali, o almeno quelli in buona fede.
8. L’argomento forte portato a sostegno del libero scambio è quello dei benefici della libera concorrenza, capace di fornire ai consumatori merci e servizi al prezzo più basso. Si tratta di argomento solo apparentemente forte, ma che si rivela molto meno consistente se esaminato più seriamente. Rimanendo nell’ambito dell’economia di un paese industrializzato come il nostro, conviene tenere presente che oltre i consumatori esistono anche i produttori, anzi spesso coincidenti nelle stesse persone.
La concorrenza, necessariamente basata sui prezzi più bassi, riduce od elimina le possibilità di autofinanziamento delle imprese, ed anzi conduce necessariamente verso il produttore unico attraverso la progressiva eliminazione di quelli meno efficienti. Quindi il vantaggio per il consumatore risulta necessariamente transitorio, e non certo permanente. Per inciso, a scanso di malintesi ed incomprensioni, è opportuno sapere che le riduzioni nei prezzi e nei costi dei prodotti industriali sono sempre state dovute a motivi tecnici, progresso scientifico e produttività industriale, e non certo alla mitizzata libera concorrenza.
Progresso tecnico e produttivo che presuppone appunto per le industrie una consistente capacità di autofinanziamento, oppure di sostegno pubblico.
9. Soltanto poche parole merita uno degli argomenti dei sostenitori del libero mercato e della benefica concorrenza. Si tratta della possibilità, per una impresa espulsa dal mercato come perdente nella concorrenza, di dedicarsi ad altro settore di attività con migliori risultati. Questa è una evidente sciocchezza, poiché ovviamente qualsiasi nuova attività non può essere né efficiente né competitiva nella sua fase iniziale, ed inoltre richiede conoscenze tecniche diverse dalle precedenti normalmente non acquisite.
La conversione di una industria a una nuova attività non è certamente cosa impossibile, ma per essere realizzata richiede sia consistenti spese “a fondo perduto” che la protezione del prodotto, cioè in sostanza quell’azione di sostegno pubblico rifiutata appunto dai fautori della libera concorrenza.
10. Il problema della concorrenza e del libero scambio fra sistemi produttivi fra di lor molto diversi per livelli salariali, protezione sociale e fiscalità è diventato da qualche tempo di grande importanza.
Osserviamo che in questo caso sono da considerare le caratteristiche specifiche dei diversi sistemi economici, ben più che l’efficienza delle industri produttrici, come invece è nella concorrenza all’interno di uno stesso paese.
Consideriamo infatti l’enorme differenza dei costi, fra prodotti simili fabbricati per esempio in Italia oppure in un paese dell’Asia sud-orientale o dell’Europa orientale. Il molto minore costo del prodotto esterno non è dovuto affatto a una migliore efficienza produttiva, che generalmente anzi non esiste. Invece è dovuto quasi del tutto ai rapporti di scambio fra le diverse monete, che alterano enormemente i costi salariali rispetto a quelli europei, anche in rapporto 1 a 10 o più. A questo si aggiungono importanti diversità nelle condizioni di fiscalità e protezione sociale.
11. L’effetto sull’economia dei paesi industriali avanzati dovuto a questo tipo di concorrenza internazionale può essere molto vario. Infatti alcuni paesi dotati di consistente produzione d’alta tecnologia possono sopportare senza inconvenienti, ed anzi talvolta trarre vantaggio dall’entrata nel mercato internazionale dei prodotti di basso costo, tipicamente beni di consumo a basso contenuto tecnologico.
Ben diverso è il caso dei paesi privi di un forte settore d’industrie ad alta tecnologia, in quanto tali al riparo della concorrenza proveniente dai paesi con bassi costi salariali. Questo è il caso dell’Italia, dove la massima parte della produzione industriale riguarda prodotti con medio o basso contenuto tecnologico, e pertanto esposti e sensibili a tale concorrenza.
12. Di fronte a questo problema, le proposte dei governanti, banchieri diversi ed industriali, sono state le più primitive e le meno ragionevoli: bassi salari, così detta flessibilità e tagli alla protezione sociale. Dovrebbe essere evidente a tutti, che riduzioni nei costi salariali e previdenziali dell’ordine del 5 % o del 20 % non servono a nulla, quando gli stessi prodotti sono fabbricati altrove con costi salariali infimi, oltre ad altri vantaggi. Invece queste primitive proposte, profondamente sbagliate, se applicate possono avere un effetto molto dannoso sul nostro sistema economico contribuendo efficacemente all’impoverimento generale dell’Italia. Osserviamo che i bassi salari e l’eliminazione di una protezione sociale decente sono raccomandate al nostro Paese anche dagli organismi internazionali, quali Commissione europea, FMI e simili, oltre che dai più autorevoli “esperti”. Seguendo questi autorevoli raccomandazioni e consigli, l’Italia potrà in breve tempo assumere la funzione di serbatoio di lavoro mediamente qualificato a basso costo nel quadro dell’Unione Europea.
13. Una prospettiva di questo genere, che comporta una prevedibile riduzione dell’attuale livello di vita (peraltro, già peggiorato rispetto a quello di un decennio fa) richiederebbe una efficace azione per contrastarla, che peraltro finora appare lontanissima dai pensieri dei governanti, industriali, etc.