Demondializzamoci!
Simone Paliaga
“Demondializziamoci!”. Sembra una boutade e in Italia la voce ha appena fatto capolino. Eppure altrove, intorno a essa, ci hanno addirittura costruito una campagna elettorale. La scorsa primavera, le pagine dei giornali francesi rigurgitavano del neologismo. Uno degli aspiranti candidati socialisti alle presidenziali, in occasione delle primarie del suo partito, Arnaud Montebourg, si è scagliato contro i cantori della globalizzazione e i fautori dell’austerità, dichiarando apertamente che, per uscire dalla crisi e restituire dignità ai francesi, sarebbe occorso avviare un processo di demondializzazione, come ricorda nel suo libro diventato poi il suo programma politico: Votez pour la démondialisation! (Flammarion, 2011). Solo uscendo dal ciclo vizioso della deregulation dei mercati e restituendo sovranità economica al popolo, secondo il candidato, sarebbe possibile relegare nel passato la crisi che sta attanagliando la Francia e il continente europeo. Prima di sbarcare però nell’agone politico, la parola ha avuto una sua gestazione intellettuale, anche se ha faticato ad attirare l’attenzione dei media prima di passare sotto il vaglio degli spin doctor del candidato socialista.
Quando, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, trascinati dagli entusiasmi per la fine della Guerra Fredda e dall’esaltazione del liberalismo, si è cominciato a ipotizzare una nuova era si pensava che questa sarebbe fiorita sotto il segno della globalizzazione. La nuova epoca non avrebbe avuto nulla di artificiale, questo si voleva far credere. Sarebbe stata un processo naturale, una volta schiantato il comunismo, di consolidamento dei mercati. Lasciandoli liberi da interferenze esterne essi avrebbero dato origine a una armonica fusione planetaria che avrebbe garantito benessere e libertà a tutti. L’unico (l’ultimo) intervento richiesto agli Stati sarebbe stato il varo di leggi che avrebbero promosso la definitiva deregulation dei mercati: libertà di transito transfrontaliero per merci, informazioni, capitali e uomini. Ora, però, a distanza di più di quattro lustri, il sogno si appanna e quello che era stato il mito della globalizzazione si incrina: la crisi che sta travolgendo l’Europa e sta provocando un impoverimento crescente della sua popolazione ha risvegliato gli animi e le energie per cercare delle soluzioni alternative al degrado sociale che è sul punto di irrompere nel Vecchio Continente. Sempre di più, ormai, gli scettici fanno capolino. E si scopre che la mondializzazione non è stato un movimento “spontaneo” della storia, ma un progetto umano codificato e preparato con una lunga serie di accordi e incontri internazionali. Affinché l’unificazione del pianeta attraverso i mercati vedesse la luce è stato necessario l’intervento di Stati e istituzioni: però, adesso che la crisi sembra acuirsi, si rafforza il fronte di chi pensa sia giunto il momento di indicare altri orizzonti oltre la mondializzazione. Così almeno la pensano coloro che ritengono che a queste politiche globali sia imputabile la crisi che attanaglia il pianeta. Da qui la proposta di Arnaud Montebourg di usare l’idea di demondializzazione come cavallo di battaglia alle primarie dello scorso anno, per portare a casa la sua candidatura alle presidenziali francesi degli scorsi mesi.
I dibattiti sulla demondializzazione rinforzano l’idea che un nuovo clivage ideologico stia ristrutturando lo spazio politico europeo. La distinzione classica tra destra e sinistra presenta dei tratti residuali capaci di agitare ancora le menti ma non di infiammarle e, soprattutto, è sempre meno capace di mobilitare entusiasmi politici ed elettorali. Progressivamente sta invece prendendo piede l’ipotesi del politologo Pascal Perrineau: lo spazio politico, nei prossimi anni, non sarà più strutturato lungo i crinali ideologici del secolo passato ma si vedrà plasmato dalle nozioni di chiusura o apertura dinanzi alla mondializzazione. E se in Italia, intrappolata nella sterile polemica elettorale tra berlusconismo e antiberlusconismo, l’idea di demondializzazione fatica a farsi vedere, in Francia più di qualcuno ha pensato di agitarla. Al di là di Montebourg, proprio nella recente contesa elettorale ne hanno fatto sfoggio le ali opposte del paesaggio elettorale: da Jean-Luc Mélanchon a Marine Le Pen numerose sono state le personalità politiche che hanno cercato di accreditarsi tra gli apostoli della demondializzazione. E la stessa sorte è capitata a numerose figure intellettuali.
Il primo passo da compiere per comprendere questa nuova idea consiste nel cogliere il significato della parola che la veicola. E se essa è formata da un prefisso e da un suffisso occorre muovere i primi passi dalla comprensione di quest’ultimo. La demondializzazione è un neologismo che si oppone alla parola sulla quale è costruito.
Per riassumere, la mondializzazione (o globalizzazione, secondo il calco dall’inglese), nel senso corrente, definisce la situazione in cui si è trovata l’economia mondiale dopo il fallimento delle economie socialiste in Europa orientale, alla fine degli anni Ottanta. Il suo consolidarsi va di pari passo con il diffondersi del pensiero neoliberale, persuaso dell’onnipotenza e onnipresenza della logica mercantile, e con l’esplosione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In una ventina d’anni la mondializzazione ha provocato un duplice effetto: da un lato un movimento di omologazione delle culture sul modello americano, dall’altro delle forme di reazione identitaria. Di fronte a questo fenomeno, gli anni Novanta hanno visto dividersi gli animi e l’apparire di numerosi movimenti di contestazione di questa visione del mondo. Gli antimondialisti da una parte, che si opponevano al processo di mondializzazione da intendersi nel senso letterale del termine (vale a dire l’estendersi su tutto il pianeta di una medesima idea, di una stessa organizzazione, ecc.), alla sua natura, al suo metodo e ai suoi effetti. E gli altermondialisti dall’altra, che non si contrapponevano al movimento di mondializzazione, reputato in sé positivo e fonte di occasioni emancipatrici, ma ne criticavano soltanto la sua evoluzione neoliberale.
È nel 2002 però, grazie alla penna del pensatore filippino Walden Bello, che appare il concetto di demondializzazione e prende posto nel dibattito internazionale. Nel testo Deglobalizzazione. Idee per una nuova economia mondiale (Dalai editore 2004), l’autore spiega che la mondializzazione s’è costruita a spese dei paesi del Sud del pianeta. Appellandosi alla necessità di un controllo politico dei sistemi economici, Bello denuncia i rischi nascosti dall’esaltazione della mondializzazione in corso. Secondo lui, il processo avviatosi con il crollo del Muro di Berlino autonomizza le pratiche economiche dalla società, rendendole insensibili alle esigenze degli uomini e della comunità. Egli propone, per uscire dai pericoli imposti dalla liberalizzazione dei mercati, uno smantellamento delle istituzioni finanziarie internazionali (in particolare Banca mondiale, FMI, OMC) e si pronuncia a favore di una rilocalizzazione delle attività economiche. E se per lungo tempo le ricette di Bello sono rimaste confinate alle pagine del suo libro ora, in un contesto di crisi economica come l’attuale, i suoi propositi hanno trovato numerose eco sia presso altri autori (tutti europei) sia presso uomini politici.
Ripercorrere il dibattito sulla demondializzazione, in corso particolarmente Oltralpe, permette di chiarire le diverse accezioni con cui questa idea è stata usata.
Nel suo ultimo libro, La via. Per l’avvenire dell’umanità (Raffaello Cortina 2012), il teorico della complessità Edgar Morin sposa le tesi sviluppate da Bello e spiega che “la demondializzazione darebbe una nuova vivacità all’economia locale e regionale. (…) La demondializzazione significa egualmente il ritorno all’autorità degli Stati e costituisce un antagonismo necessario, vale a dire complementare, alla mondializzazione”. Prima però di finire nell’agenda politica dei candidati francesi, e al di là di questa concezione conforme a quella partorita dall’autore asiatico, la demondializzazione ha trovato altri difensori, che, a seconda della propria formazione, ne hanno evidenziato un aspetto piuttosto che un altro. Parecchie sfumature diverse ma complementari dell’idea di demondializzazione emergono quindi nel panorama culturale francese, quello che si è dimostrato più sensibile al fascino di questa visione alternativa: col procedere del dibattito, accanto alla concezione commerciale della demondializzazione, finiscono per spuntarne anche una monetaria e una finanziaria, prossime ma sensibilmente diverse dalla prima.
Per l’economista eterodosso Jacques Sapir, il suo teorico più acuto e profondo, La démondialisation (per citare il titolo del suo libro apparso lo scorso anno da Seuil) passa in primo luogo per una rinazionalizzazione delle politiche commerciali. Questa sua prospettiva lo ha fatto diventare, suo malgrado, uno dei difensori del cosiddetto “patriottismo economico” e uno dei più acerrimi sostenitori della sovranità degli stati, vista da sinistra però. La demondializzazione, come confessa nella parte conclusiva del suo testo, non è ancora diventata una strategia dai contorni ben definiti. Il suo approccio è quello di un ricercatore e di uno studioso di economia che distingue tra una mondializzazione mercantile, attraverso cui “il processo è cominciato”, e una mondializzazione finanziaria, che diventa tale quando è sul punto di attingere la massima diffusione, fino a diventare un fenomeno politicamente e socialmente insostenibile. Discutendo della prima fase Sapir contesta, cifre alla mano, ciò che è stato presentato dai neoliberali e dai loro sostenitori come il suo principale merito: il successo del libero scambio e la globalizzazione non hanno indotto, a partire dagli anni Ottanta, la forte crescita profetizzata agli inizi dai suoi promotori. L’impatto sui paesi più poveri è stato negativo. E soprattutto, osservazione estremamente importante per il seguito dell’argomentazione dell’economista, i soli casi in cui si è assistito a una concomitanza di globalizzazione e sviluppo economico sono avvenuti in quei paesi dove sono state messe in atto “potenti politiche nazionali”. Questa conclusone porta Sapir a sostenere che “in un mondo vieppiù deregolamentato, questo tipo di politiche si dimostrano indispensabili”. A cosa serve allora la globalizzazione commerciale? Per l’economista francese, lungi dal risultare proficua per i paesi poveri (come sostiene invece l’OMC), essa ha permesso invece la “crescita delle grandi industrie” e “la controrivoluzione sociale che si ha avuto modo di conoscere in tutti i paesi, benché a livelli diversi, a partire dagli anni Settanta”.
Per limitare i guasti della globalizzazione, Sapir auspicherebbe una nuova Bretton Woods e la ripresa di numerose idee di Keynes (tra cui quella di penalizzare i deficit ma anche gli eccessi nella bilancia dei pagamenti). Secondo il teorico della demondializzazione, Keynes era un “partigiano della cooperazione internazionale” ma anche un “accanito avversario dei meccanismi sovranazionali che privano i governi della loro sovranità”. Questa preoccupazione è onnipresente in Sapir che ricorda senza indugi che “il fallimento del FMI nella crisi asiatica del 1997 ha restituito una rilevante vitalità alle politiche nazionali” dei paesi che vi erano stati coinvolti. Ma ciò non è bastato a risolvere il problema. Infatti, le scelte messe poi in atto da questi, e in particolare dalla Cina, per sottrarsi ai tentacoli della crisi d’allora, li ha portati a optare per delle audaci strategie di esportazione comprimendo di conseguenza violentemente il mercato interno. La scelta di questa politica economica alla fine ha causato quegli eccessi di budget che erano già finiti nel bersaglio di Keynes e l’emergere di fondi sovrani, che costituiscono oggi una parte del problema.
Le conseguenze di queste audaci politiche si sono cominciate a vedere con la crisi greca che, accanto alla crisi commerciale, ha portato in primo piano anche le difficoltà di ordine monetario. Secondo Sapir, nel prosieguo del suo lavoro di ricerca, Bisogna uscire dall’euro? (Ombre Corte 2012), la soluzione per sfuggire ai tentacoli della crisi nata dalla mondializzazione consisterebbe nell’abbandono dell’euro. La valuta continentale non avrebbe mai potuto avere la forza del dollaro se non a condizione di essere sostenuta da un’Europa-potenza e di mettere fine alla divergenza tra strategie economiche dei paesi che appartengono alla zona euro. Ma, a differenza di altri difensori della demondializzazione, Sapir, pur opponendosi alla moneta unica, è favorevole a una moneta comune valida come moneta di scambio al di fuori dei confini dell’Unione Europea.
Diverse sono invece le posizioni di altri autori. Emmanuel Todd, celebre demografo e “futurologo”, nella prefazione preparata per il libro di Montebourg, pensa che l’innalzamento delle barriere doganali sia indispensabile durante le fasi di guerra economica come quella in atto. Ma, a differenza di molti altri, tra cui Sapir, ritiene che le politiche protezioniste, per essere efficaci, debbano essere attuate a livello europeo e non a livello nazionale. È interessante notare come proprio in questi autori avvenga il capovolgimento della logica che ha ispirato il lavoro di Walden Bello: mentre nel pensatore filippino le politiche di demondializzazione dovrebbero servire a proteggere i Paesi del Sud da quelli del Nord del mondo, il dibattito scoppiato in Francia propone una soluzione simile ma opposta. Essa dovrebbe tutelare i Paesi del nord da logiche che eccedono la loro sovranità nazionale, dall’aggressività economica e dal dumping sociale messi in atto dai membri di quello che un tempo si definiva Terzo Mondo e oggi rappresentato bene dalla vivacità economica dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa).
Ma non finiscono qui le idee di demondializzazione. Altre ancora sono le prospettive da cui è stata auspicata. Alcuni economisti infatti la pensano come un espediente per regolare semplicemente l’anarchia dei flussi finanziari. È il caso di Frédéric Lordon, ricercatore del CNRS e membro fondatore del “Mouvement des économistes atterrés”, che esorta a una rinazionalizzazione dei debiti pubblici degli Stati, considerandola una mossa indispensabile per frenare la speculazione in atto nelle piazze finanziarie. Tuttavia non sono mancati dei dissensi tra gli oppositori della mondializzazione. Ad alimentare il fuoco sono stati in particolare gli altermondialisti, vale a dire gli avversari moderati dell’unificazione del mondo attraverso i mercati. Prima della campagna di Montebourg, nel giugno del 2011, sul sito Mediapart un gruppo di economisti legati ad ATTAC, la celebre associazione altermondialista, hanno titolato un dibattito: La démondialisation: un concept superficiel et simpliste, intorbidendo da un lato ulteriormente la già scarsa chiarezza del concetto ma assicurandogli ulteriore visibilità presso il grande pubblico. Come si vede solo da questi pochi cenni, l’idea di demondializzazione ha ricevuto numerose interpretazioni in ambito ideologico, prima del suo ingresso sulla scena politica, lo scorso anno, nel corso dei primi passi delle presidenziali francesi. Tuttavia la vera fortuna le ha arriso nel momento in cui essa ha abbandonato il campo delle discussioni politico-culturali per essere usata come strumento di battaglia politica.
Quando nel dibattito delle primarie irrompe lo slogan Votez pour la démondialisation pochi sapevano di cosa si trattasse. Eppure ha attirato l’attenzione della stampa e di una parte dell’elettorato socialista, benché alla fine il suo promotore non sia stato baciato dalla fortuna elettorale. Nel suo progetto politico e nel suo libro, Montebourg proponeva di sostituire la mondializzazione e quindi la deregulation di tutti i mercati con un sistema di preferenze commerciali realizzato attraverso la stipula di trattati bilaterali tra gli Stati, di dotare la Francia di una politica anti-dumping per contrastare la concorrenza dei paesi di recente sviluppo e di imporre una gabella doganale ai prodotti provenienti dai paesi che non rispettano i protocolli di Kyoto. Dopo il suo fallimento alle primarie e la candidatura di François Hollande, la sua idea è stata accolta da altri contendenti lo scranno presidenziale, che sono così diventati portavoce dell’idea regalandole altre occasioni di visibilità: a sventolarne il vessillo ci hanno pensato il capofila del Parti de Gauche, Jean-Luc Mélanchon, il gollista di sinistra Jean-Pierre Chevènement e dall’altro lato dello scacchiere politico, Marine Le Pen, leader del Front National. Che a usare l’idea di demondializzazione fossero avversari di diversa formazione politica conferma ancora una volta che un’epoca è finita e che la vecchia distinzione tra destra e sinistra, fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo sta scricchiolando ed è sul punto di eclissarsi.
Detto ciò, però, stiamo per sfiorare un altro punto, che solo pochi teorici della demondializzazione hanno toccato. Essa, oltre a essere una teoria, sta diventando, a seguito della crisi che sembra inarrestabile con le politiche tradizionali, un dato di fatto. Per Jacques Sapir la mondializzazione finanziaria avrebbe ormai raggiunto il suo apice. Dietro l’angolo ci sarebbe ormai la sua fine: ma occorre capire con quante vittime. Ciò significa che la demondializzazione sta diventando una realtà oggettiva oltre che un progetto. Essa sarebbe dunque in marcia come aveva intuito nel 2010 l’annuario francese di politica internazionale L’État du monde. E la fine della mondializzazione, sia per l’annuario d’Oltralpe sia per Sapir, si può constatare dal fallimento dei negoziati di Doha, dal rifiuto della Cina di assumersi le responsabilità monetarie che le si volevano imporre e, più in generale, dal massiccio ritorno in auge del protagonismo degli stati sovrani con politiche che ricordano più le dinamiche dell’Ottocento che i furori ideologici del Novecento. La Machtpolitik è ormai dietro l’angolo, come ricorda Alessandro Colombo nell’unico libro italiano che cerca di registrare il cambiamento di paradigma in atto in questi ultimi anni e il ritorno a La disunità del mondo (Feltrinelli 2010) ignorata ancora oggi dalle anime belle per le quali, ancora una volta, l’uscita dalla crisi passerebbe attraverso un’ulteriore accentuazione delle politiche neoliberali e dunque attraverso un’ulteriore dose di mondializzazione.