Poeta cieco fra gli specchi
Claudio Quarantotto
Il poeta è cieco. Lo so, l’ho letto. Ma, adesso che sono davanti a lui, quasi ne dubito. Non ne sono più sicuro. I suoi occhi aperti, chiari, mi guardano, mi seguono. Anche quando non parlo, mi trovano nella folla. Ma il poeta è cieco. Soltanto, ha il pudore della sua cecità; è un fatto personale, un problema intimo. E, poi, c’è forse l’orgoglio, un orgoglio profondo che gli impedisce di sfruttare l’infermità per mendicare una facile compassione. Si è paragonato a Omero; non vuol essere un fenomeno da circo letterario.
Una volta sola mi dice: «Sono cieco». Ma con il tono con cui avrebbe potuto dire: «Sono argentino», e per spiegare come mai da anni non legge più giornali e, quindi, non può seguire la cronaca e la politica. E, allora, mi accorgo che quegli occhi sono spenti. Mi fissano, ma non mi vedono. Mi seguono, quando mi muovo, ma in ritardo. A volte rimangono indietro, cercandomi ancora dove ero un attimo prima, a volte mi precedono. Frazioni di secondi: poi, il contatto si ristabilisce.
Sono quelle frazioni di secondi che dividono il mondo della luce dal mondo dell’ombra. Ora so che anch’io, per il poeta cieco, sono una voce nel buio, appena distinta fra il brusio della folla che ci attornia. E mi sento più tranquillo, quasi sereno. Il poeta non vede; il poeta non mi vede. Sfuggo al suo sguardo e al suo giudizio. Entrato nell’ombra e protetto da questa, sono invece io che lo osservo: distinto, in completo grigio fumo di Londra, cravatta e gilet («Non sono un dandy» ha scritto, «è solo che cerco di passare il più inosservato possibile. E, forse, l’unico modo di passare inosservato è quello di vestirsi con una certa cura. Non è così?»), è il poeta di Carme presunto, lo scrittore de L’Aleph e della Biblioteca di Babele, il più grande scrittore dell’America Latina, uno dei più grandi del mondo: Jorge Luis Borges.
È giunto a Roma accompagnato dal suo ultimo editore, Franco Maria Ricci, per il quale dirige una collana di letture fantastiche. E la Roma letteraria e mondana lo festeggia nel salone di una pellicceria di lusso: Fendi, in via Borgognona. Poltrone di vimini coperte da cuscini, moquette sul pavimento, specchi sulle pareti e sul soffitto. Sembra una versione moderna e commerciale del salone barocco di Villa Palagonia. Sembra una beffa al poeta, o una di quelle innumeri coincidenze, uno di quegli ineluttabili casi o destini (un caso, alle volte, può determinare un destino) che sono all’origine delle sue storie labirintiche. È Borges che ha scritto: «Io, che sentii l’orrore degli specchi / non sol dinnanzi al cristallo impenetrabile / dove finisce e inizia, inabitabile, / l’impossibile spazio dei riflessi»; aggiungendo: «Dio ha creato le notti che si colmano / di sogni e le figure dello specchio / affinché l’uomo senta che è riflesso / e vanità. Per questo ci spaventano».
È un orrore metafisico, poetico, naturalmente, figlio del nonsense e del paradosso. C’è E. T. A. Hoffman dietro il canto borgesiano, ma anche Lewis Carroll. L’immagine nello specchio è il riflesso dell’uomo o l’uomo è il riflesso dell’immagine dello specchio? Chi può risolvere l’enigma, una volta per tutte e per tutti? Bisognerebbe abitare l’«inabitabile, / l’impossibile spazio dei riflessi», per averne la controprova assoluta.
La ragione ragionante, ancora una volta, si apre sul fantastico. È la porta grande, attraverso cui si accede al regno dell’immaginario. Altro che Borges, poeta intellettuale e cerebrale. Il suo è l’Elogio della follia della ragione, che può giustificare tutto e produrre di tutto, se non addirittura il suo contrario. La sua opera è una grande epopea parodica della ragione, rappresentata come seme e forma dell’immaginario, e quindi elemento del gioco e dell’arte; del resto, l’arte è nata dal gioco, secondo Huizinga. Ma è anche, proprio per questo, il motore della storia, che non si limita a copiarla, nel suo moto circolare, ma copia anche la letteratura. È questa ragione folle, questa follia raziocinante la protagonista dell’Opera omnia di Borges, il deus ex machina che risolve il dramma, o la farsa, dell’arte e della vita che imita l’arte.
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C’è qualcosa di ariostesco, è vero, in tutto ciò; ma di senso opposto. L’Orlando di Borges è furioso non perché ha perso la ragione ma perché ha perso il sentimento, che rimane l’unica realtà, immutabile e segreta, della Storia e delle storie del poeta cieco che, per un tenace gusto dell’assurdo, è presentato ora nel salone degli specchi, davanti a tutte quelle sue immagini che non può vedere, fra i tanti riflessi che non possono penetrare nella sua notte. Come è assurdo il poeta in una pellicceria di lusso, fra le lampade che hanno illuminato sfilate di moda, seduto a pochi metri dal frigorifero-cassaforte dove sono custoditi miliardi in pelli preziose: visoni, cincillà, volpi argentate.
Un assurdo o una provocazione letteraria, una finzione, una recita del grande teatro del mondo, con il coro formato dalla folla di mondani e demi-mondani, accorsi a vedere il poeta che non vede sfilare sulla passerella, o firmare gli autografi, come fa ora.
Sulle ginocchia ha – il caso gioca strani scherzi, oggi – Il congresso del Mondo, il grande volume illustrato con le miniature cosmogoniche Tantra (tremila copie numerate, carta a mano, rilegate in seta) edito da Ricci. La mano bianca, lunga, morbida, carezza la pagina. Borges non finge più di vedere. Ha il volto sollevato, verso il soffitto. Le pupille dilatate, in cerca di luce o ricordi; i ricordi di un libro come quello. Poi, lentamente, le lettere fioriscono sotto la sua penna; tormentate, contorte, enigmatiche. Il libro ritorna al proprietario. Il poeta volge il capo verso di me.
Per parlargli, devo piegarmi fino a terra. Sono quasi inginocchiato davanti a lui, che sta seduto su una poltroncina bassa, spinta contro un pilastro. La folla ci spinge uno contro l’altro. Il brusio è aumentato. Borges avvicina l’orecchio, per sentirmi meglio.
«Roma» gli dico, «lei è a Roma. Che impressione le fa trovarsi fra le testimonianze di un’antichità che ha descritto e cantato?»
Prima sorride: un sorriso estatico ed errabondo. Sembra preso da un incanto e pronto a sfuggirgli. È visibilmente invaso dalla tenerezza, al semplice suono del nome Roma. Lo ripete, lo assapora. «Se (come il greco afferma nel Cratilo) / nel nome sta il modello della cosa, / nel contesto di rosa sta la rosa / e tutto il Nilo nella voce Nilo.» E tutta Roma, evidentemente, sta nella parola Roma.
«Amo l’Italia» dice poi, con voce sommessa, educata, in un francese letterario, «amo Roma. Roma è il centro del mondo.» Una pausa.
«Civis romanus sum» sillaba quasi. E il sorriso si fa più aperto, sfolgorante. «Siamo tutti figli di Virgilio. E Virgilio, a me, ha spalancato non le porte dell’Inferno, ma dell’Universo. Siamo figli di Dante e Ariosto… Civis romanus sum.»
Si è avvicinato l’editore, Franco Maria Ricci. Giovane, capelli neri e lucidi, camicia aperta sul collo e un fiore di plastica o di vetro all’occhiello. Sembra un personaggio dei suoi libri: oggetti di lusso, da guardare ma non toccare, tanto meno da leggere. Ha il sorriso vorace di una tigre di Ligabue, disegnata da Erté; un impasto di art déco, kitsch e Wilde.
Borges non lo vede; non lo ha mai visto. Lo ha conosciuto quando ormai non vedeva più. Forse glielo ha descritto la sua segretaria, María, piccola, devota, silenziosa. Borges dice che è giapponese, ma lei nega. Del resto, non sembra affatto giapponese. Ma questo non esclude che lo sia. Realtà, illusione, finzione, in fondo, che importanza ha? Tutto è parola, e la vida es sueño, sognata dal poeta.
Ciò che conta sono le forme e i simboli. La realtà è opaca e per penetrarla non ci si può limitare a riprodurla attraverso il realismo. Come il riflesso nello specchio non è più la cosa e non dice della cosa riflessa nulla più di quel che appare, così il realismo, nel riflettere la realtà, si limita a copiarla senza spiegarla, comprenderla. Bisogna perciò tentare altre strade; analizzare la parola, invece della cosa, circumnavigare il significante e non il significato. Il mezzo è il messaggio, secondo McLuhan; «nel nome sta il modello della cosa», secondo Cratilo, che Borges riecheggia. E il «modello» è l’Idea innata, la Forma originaria, forse l’Archetipo junghiano, da cui discendono tutte le «copie», e che serve a capirle. Perciò Borges costruisce i suoi mondi immaginari, i suoi universi congetturali, che sono modelli, probabili o possibili, tragici o ironici, che si presentano come allegorie della vita, astrazioni dall’esistente, ma come antecedenti a questo, addirittura fonti o cause.
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L’esistente, però, è tra noi, anche oggi. Il mondo, che Borges ha attraversato senza vederlo, almeno con gli occhi, è dentro e fuori questa pellicceria, riflesso da questi o da altri specchi. Borges non lo dimentica.
«America e Russia sono Paesi di schiavi» dice improvvisamente, con una voce fattasi più intensa, decisa. Si corregge: «Naturalmente, adoro la letteratura americana: Melville, Frost, Emerson, James, Poe. L’ho letto e riletto, Poe. Ma aborro la vita americana, l’american way of life. Sono tutti dei Babbit. Noi aspettiamo la salvezza da voi…».
Da noi? Ma conosce la situazione italiana? Cosa sa di quel che sta accadendo in Italia? Terrorismo, scandali, giochi di potere e d’impotenza. Una democrazia alle corde, in attesa dell’uppercut finale, prima del knock-out.
«Sono cieco» è a questo punto che lo dice, per la prima e unica volta, «da molti anni ormai non leggo più giornali e riviste. Ma so, capisco, temo; perché amo. L’Europa deve salvare se stessa e il mondo: cioè il mondo occidentale. L’ho già detto; se cancellate dalla storia del mondo Roma, la Grecia, Israele e anche l’Inghilterra, la modificate del tutto. Se cancellate l’Africa o qualche altro continente la storia del mondo non cambia. L’Italia è in pericolo, certo.»
S’interrompe. Forse qualcuno gli ha consigliato prudenza, dopo le dichiarazioni a favore di Franco e del Cile.
Subito, però, riprende: «Dicono che sono un reazionario soltanto perché non conoscono il significato delle parole. Io sono un conservatore e un conservatore, in Argentina, è un liberale moderato. Non credo nelle rivoluzioni, nei mutamenti attuati con la violenza. Bisogna conservare l’eredità immensa che ci è stata affidata nel corso dei secoli. Bisogna rispettare la tradizione. Anche una lingua è una tradizione, un modo di sentire le realtà, non un arbitrario repertorio di simboli».
Poi, l’ultima frecciata: «Non sono moderno, fortunatamente. Mi accontenterei di essere considerato un classico, minore s’intende».
Sorridendo, il poeta se ne va. Lascia la sala degli specchi, con le sue memorie di pellicce di lusso, sotto i riflettori. Anche lui, adesso, forse con un sottile piacere dell’assurdo, fa la sua sfilata, dove di solito passeggiano le indossatrici e i ghepardi, poggiati sulle loro spalle nude.
Il poeta è cieco, non vede; perciò può immaginare. È un simbolo, ormai, come Pound e Mishima. Un poeta cieco, un poeta muto, un poeta suicida. Sono tempi crudeli per i poeti.