Quando si conobbero a Parigi, nel 1929, tra Pierre Drieu La Rochelle e Victoria Ocampo l’intesa fu immediata – un’intesa che spinse l’autore di Gilles a recarsi più volte in Argentina, dalla sua amante e poi amica, mantenendo negli anni una corrispondenza nella quale si mise a nudo, rivelando in presa diretta speranze e delusioni, nonché registrando la tragedia della sua Europa(1). Fu durante uno di quei viaggi che Drieu incontrò Jorge Luis Borges, molto probabilmente tramite Victoria stessa, sorella di Silvina Ocampo, moglie di Adolfo Bioy Casares, storico amico di Borges(2). Sotto Notturno Borges abbiamo raccolto due articoli inediti in italiano che il giovane Drieu dedicò al poeta argentino. Il primo – in realtà l’ultimo, in senso cronologico – narra la lunga passeggiata onirica nel nulla delle periferie di Buenos Aires con cui Borges celebrò il loro primo incontro. È Solitude de Buenos Aires, che apparve sulle colonne de «L’Intransigeant» il 23 gennaio 1934. Ma fu con l’altro denso scritto che Drieu presentò il futuro autore di Finzioni alla cultura francese di allora. Concluso sull’Oceano Atlantico l’1 ottobre 1932, come si evince dalla firma in calce, apparve in francese, con il titolo Discusión sobre Jorge Luis Borges: «Borges vaut le voyage», sulla rivista «Megáfono» (n. 11, Buenos Aires, agosto 1933)(3). Una curiosità: quando Victoria lo lesse, credette che il tono polemico fosse indirizzato a lei. Ma “Gilles” la rassicurò, il 20 ottobre 1932: «Il mio articolo su Borges, per “Megaphone”, non è rivolto contro di te. Credo tu sia, in fondo, molto razionalista e intellettuale – nell’accezione positiva del termine – cioè niente affatto insensibile. Con la sua poesia, Borges mostra di appartenere a questa buona razza – un’intelligenza sensibile»(4). Ecco quel che aveva intravisto Drieu nelle pagine di Borges: un’intelligenza sensibile, quell’intima comunione di letteratura e vita, sangue e inchiostro, che è appannaggio dei titani del Canone Occidentale.
A. S.
1. Solitudine di Buenos Aires
Ho passato quattro mesi in questa città alla fine del mondo, fantasticando. Dove sognare meglio, d’altra parte, se non alla fine del mondo?
Perché è davvero la fine del mondo, questo paesaggio orizzontale. Qui si avanza come un fanciullo che ha realizzato il suo sogno assurdo e, ossessionato dall’orizzonte, trova intorno a lui qualcosa di piatto, lungo, in quella prospettiva sfuggente promessa dalla lontananza.
Buenos Aires è monotonia, ma una monotonia vertiginosa, grandiosa. Una monotonia che non cessa mai, che ricomincia sempre. Nelle periferie della città, più estesa di Londra, che con i suoi due milioni e mezzo di abitanti copre una superficie più ampia di una metropoli di sette, ad ogni via si spalanca un orizzonte nuovo. La terra è piatta e, su questa terra piatta, vie piatte, tirate come funicelle, cinte da case piatte, di un solo piano.
A cominciare dal vostro arrivo. Vi credete ancora in mare aperto ma siete già entrati nell’estuario che, all’altezza di Buenos Aires, si estende per cento chilometri. Se non vedete nulla, non è perché la costa è lontana, ma soprattutto perché è bassa.
Infine vi avvicinate, la terra disegna una piccola striscia sul mare. Ed ecco che qualcosa si staglia, fissandovi. Sopra questa pellicola di casette basse sono state costruite tre o quattro file di grattacieli – grattacieli di dodici o quindici piani: ma non cambia niente. Avete l’impressione di un miraggio; credete di vedere una città che erige le proprie torri su una pozzanghera, come nel deserto. E il miraggio non tradisce l’orizzontalità, non promettendovi montagne dove disperatamente non ce ne sono. Sbarcate e, dopo chilometri, entrate improvvisamente nel cuore della città dove si trova il vostro albergo.
Al centro, è sempre la vecchia Buenos Aires. Una Buenos Aires del XVIII secolo, pianificata come una qualsiasi città delle Americhe, in cui una via dritta non può più ritrovare ciò che la rettitudine le ha fatto smarrire: l’intimità. La via più affollata e trafficata degli argentini – Florida – è larga come rue Duphot o rue Daunou.
Se restate nel cuore stretto e caldo della città, potrete dimenticare la prima impressione, negare la vertigine che avete percepito, presentito, e chi vi attende ancora. Ma se un bel giorno uscite e vi avventurate fuori, lontano, allora capirete bene ciò che intendo. Non esagero affatto, è Buenos Aires a farlo. E questa esagerazione è una passione, una follia, una vertigine.
Appena arrivato, ho incontrato un poeta argentino che ha subito voluto restituirmi la città in tutto il suo eccesso, in tutta la sua grandezza, in tutto il suo carattere. Con Georges-Louis Borges ho preso la metro. Messo il naso fuori da una stazione qualunque, verso mezzanotte, sotto una luna enorme e annacquata abbiamo preso a vagare in questo immenso labirinto rettilineo. Camminiamo come fossimo su una mappa, una piantina spoglia di riferimenti umani. Precipitiamo in uno stato di totale astrazione. Strade su strade, viali su viali. Nessuna banlieue, i quartieri esterni sono periferie perse e annegate nel loro deserto. Tutto sembrava immerso nel vuoto: in ogni dove scorci troppo larghi e lunghi, ove la luna schiacciava case poco più che percepibili. Gli argentini continuano a costruire case di epoca coloniale. Una facciata perforata da una porta e due finestre. Una balaustra trasforma il tetto in terrazzo – non vi è altro.
Tutto dormiva. I cinema chiusi, i caffè intermittenti. Solo, ogni due o tre chilometri, vegliava il chiarore angosciante di un piccolo lupanare. Debolezza di una luce che trema e balugina, sola nell’incubo di pietra di un’umanità annientata dalla pietra stessa.
Il mio poeta camminava, lunghe e folli falcate. Mi accompagnava con il suo amore e la disperazione – ché lui amava questa desolazione, l’aveva ospitata nel suo cuore.
Infine, dopo tre ore su una strada diretta verso il niente, giungiamo a un ponte. Borges si ferma. Aveva trovato qualcosa che ancora palpitava in queste distese inermi: un ruscello conservava ancora il proprio nome e mormorio dall’epoca coloniale, i buoni vecchi tempi, di cose viventi.
Mi guardava sorridente, soddisfatto. Ci conoscevamo solo dalla mattina prima, ma, divisi da un Oceano, da un emisfero, avevamo fantasticato sugli stessi libri e sulle stesse stelle del cinema.
E allora fu risarcito, perché i poeti vengono sempre ricompensati verso le tre del mattino, nel corso di ricerche che sfidano la sterilità del mondo. Miracolo: dietro il timido mormorio del ruscello ne sentimmo un altro, più audace e armonico. Una chitarra. In un piccolo locale, un operaio insonne passava in rassegna le proprie disgrazie.
In quel preciso momento, due milioni di uomini dormivano. Due milioni di Europei che vivevano accampati là, immersi nella nostalgia. Quella città è davvero la fine del mondo, la fine dell’orizzonte, se a crederlo sono coloro che vi abitano. In fondo, si sentono esiliati d’Europa […].
O desiderio greve, perduto e triste dell’Europeo, dell’uomo smarrito in questa immensa industria intorpidita, che volta disperatamente le spalle a una natura cui, un giorno, dovrà abbandonarsi.
Giacché, finalmente, occorrerà che l’Argentina rinunci alla dipendenza dall’Europa, ai grandi profitti, e decida di vivere solo su se stessa. Sarà costretta a creare da sé la propria civiltà. Sarà l’aurora della sua anima, la fine della crisi, come per molti altri Paesi.
Allora la bellezza della pampa rientrerà a Buenos Aires. Allora l’Argentina ritroverà il proprio genio, quel genio selvaggio e dolce, rude e delicato che sbocciò lontano dall’Europa prima dell’arrivo degli emigranti, e che ora si cela in quei luoghi nei quali ancora sospira una chitarra, si balla un tango, un uomo triste accarezza la testa di un cavallo.
2. Borges vale il viaggio
Borges di qui, Borges di là: questo mi è stato detto di lui a Buenos Aires! Da qualche parte ho sentito dire che è intellettuale, troppo intellettuale. Sbagliano tutti, in realtà vogliono solo dire che è intelligente, assai intelligente.
Chi non ama l’intelligenza impiega spesso questa parolina, intellettuale. Ma noialtri ce ne infischiamo, e continuiamo ad amare le persone intelligenti – per la loro rarità, vitalità e poliedricità.
Essere intelligenti, dopo tutto, vuol dire essere viventi. Non si può essere intelligenti senza essere viventi, quando uno è intelligente è prima di tutto parecchie altre cose. Avete mai visto un uomo intelligente privo di cuore, privo di sensibilità? Se è così, allora non è affatto intelligente. O magari si crede che un uomo intelligente non abbia cuore o sensibilità solo perché le manifestazioni del suo cuore e dei suoi sensi sono sottili e passano inosservate.
Forse vi adirate, signori miei anti-intellettuali – perché leggete Discussione(5) ma siete costretti a leggervi anche le poesie di Borges. Allora, ditemi, come ve la caverete? Continuerete a ripetere: troppo intellettuale?
Borges è dotato di un’ottima natura. È allegro e triste, intelligente e sentimentale, amorevole e privato di tutto. Quasi nullo come conferenziere, ma solidamente istruito. Capace di analisi come di lirismo. E perché no? Ciò forse vi sconvolge?
Borges, che tutto comprende, ha passioni sconvolgenti. È tutta passione, proprio perché è intelligente. Un uomo intelligente non teme le proprie passioni, anzi, le serve con quella delicatezza, quella nobiltà nel partito preso che lo distingue dallo sciocco fanatico. Borges scrive sul mito dell’Inferno con un’apparente insensibilità, la quale non può urtare che gli imbecilli. Sa bene che questa dimensione, che lui nega, ha profonde e reali radici nel cuore dell’uomo, e la sua esperienza dell’Inferno traspare, emerge dalle sue righe, rigorosamente dubbiose(6).
Un uomo davvero intelligente – né scettico né fanatico – con idee, e dietro a queste idee una meditazione che ne illumina segretamente finanche le espressioni più dirompenti!
È davvero rassicurante immaginare che in ogni Stato vi siano ancora uomini di spessore. Sono queste rare genìe a giustificare i viaggi. E Borges vale il viaggio.
Note
- Le lettere tra i due sono ora raccolte in Pierre Drieu La Rochelle, Victoria Ocampo, Amarti non è stato un errore. Lettere 1929-1944, Archinto, Milano 2011.
- Come noto, fu con Adolfo Bioy Casares e Cristina Ocampo che Jorge Luis Borges allestì l’Antologia della letteratura fantastica, che uscì il 24 dicembre 1940 (ultima ed. it. Einaudi, Torino 2007).
- L’articolo Borges vaut le voyage venne poi inserito nel Cahier de l’Herne dedicato a Borges (Paris, 1981, p. 105), con l’indicazione cronologica (errata) di 1 ottobre 1933.
- Pierre Drieu La Rochelle, Victoria Ocampo, op. cit., pp. 117-118.
- Discusión uscì nel 1932 per i tipi di Manuel Gleizer (ora in Jorge Luis Borges, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, vol. I, Mondadori, Milano 1984).
- Drieu si riferisce al saggio La durata dell’Inferno, contenuto in Discussione (cfr. ed. cit., pp. 366-371).